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domenica 18 novembre 2012

LA STELLA DI DAVID STAVOLTA RISCHIA DI SPARIRE



40.000 morti in Siria non fanno molta notizia, questo ormai è chiaro. Ogni tanto qualcuno scrive appelli, viene contestata l'ignavia internazionale, il doppio pesismo per cui Gheddafi fu abbattuto e Assad continua a governare, laddove contro il primo s'intervenne per evitare il massacro di civili che il secondo perpetra regolarmente nel suo paese. Però , al di là dei veti russo-cinesi, che paralizzano apertamente azione ONU più incisive delle solite sanzioni, ormai si è capito, con la triste fine delle primavere arabe, che in quella zona NON si sa cosa fare. La democrazia, intesa come elezioni, da quelle parti ha portato l'avvento al potere dei Fratelli Musulmani, con sconfitta dei laici , dei progressisti che avevano alimentato il favore se non addirittura l'entusiasmo di noi osservatori europei. . Non ci è piaciuto. Il sospetto che dietro alla caduta di Assad ci sia Al Qaeda , e la Siria faccia la fine della Libia (paese in preda alla più grande confusione, dove le lotte tra bande e tribù continuano feroci) se non peggio, sono timori grandi che paralizzano ulteriormente l'azione occidentale. In questo contesto, l'unica VERA democrazia che esiste da quelle parti, cioè Israele, torna ad essere gravemente minacciata, e forse come mai era accaduto dal 1973, anno della guerra del Kippur . Missili cadono regolarmente sul sud di Israele, lanciati da Hamas che controlla la striscia di Gaza . Con meno intensità, ma comunque con regolarità, gli Hezbollah li lanciano dal Libano sul Nord del paese ebraico. Ai confini, l'Egitto è tornato paese ostile anche se ancora mantiene il trattato di pace costato la vita a Sadat, della Siria abbiamo detto (Israele è costretta a fare il tifo per il dittatore ) , la Giordania, unico paese "amico" ha i suoi guai e l'Iran sappiamo che tra poco avrà armi atomiche, e la sua posizione di negazione del diritto all'esistenza di Israele è nota.
In tutto questo, abbiamo il presidente USA più incerto dai tempi di Carter.
No, non vorrei essere un cittadino israeliano in questo momento....
Da leggere entrambe le analisi che riporto, scritte la prima da Davide Giacalone e la seconda  da Lucio Caracciolo su Repubblica
Buona Lettura


Primavera di guerra
 
In Medio Oriente brontola l’inferno, e nessuno s’illuda di poterne contenere i fuochi nel girone della striscia di Gaza o nelle città israeliane. Ancora una volta, come nel passato, la stella di David è solo un avamposto delle democrazie, il posto più facile da colpire. Ma questa volta, più di altre, con i missili esplodono anche i nostri errori.
Si ritrovano nelle parole di Mohamed Morsi, presidente egiziano, il quale, dopo essere stato in visita alla striscia, dopo avere definito l’azione militare israeliana “una eclatante aggressione contro l’umanità”, dopo avere assicurato che gli egiziani non lasceranno “Gaza da sola”, ha pronunciato le parole più significative: “L’Egitto di oggi non è l’Egitto di ieri e gli arabi di oggi non sono gli arabi di ieri”. Purtroppo Morsi ha ragione. L’Egitto di oggi è anche il frutto della colpevole stupidaggine con cui l’Occidente democratico si mise a festeggiare la “primavera araba”, con il risultato che le libertà popolari sono diminuite, i governanti amici dell’Occidente sono caduti, mentre i boia siriani, che stanno massacrando il loro popolo, sono ancora al potere. Avvertimmo allora dell’errore, né questo ci consola punto. Per questa ragione, quindi, i missili palestinesi che colpiscono Israele, che hanno violato anche la città di Gerusalemme, dobbiamo sentirli come esplosi sulle nostre case e sulle nostre cose.
Ed ecco le conseguenze politiche: con alle spalle un Egitto laico, in mano ad un governo che ci voleva fantasia per definirlo democratico, ma che era migliore dell’attuale e che, soprattutto, era ancora sulla linea Sadat-Mubarak, quindi del mantenimento della pace con Israele; avendo al fianco una Giordania non isolata e anch’essa amica dell’Occidente; dovendo fare i conti con l’ostilità siriana e l’instabilità libanese, era possibile che i palestinesi si dessero una guida politica rispondente ai loro interessi, al bisogno di non correre ogni giorno il rischio di morire ammazzati, non piegata all’uso di Israele quale ostaggio occidentale in terra mediorientale, quindi era possibile che Abu Mazen mantenesse la propria distanza dai terroristi fondamentalisti di Hamas. Cambiato lo scenario, venuta meno la sponda egiziana, Mazen può scegliere fra morire (per mano “amica”) o allinearsi ad Hamas. Ha scelto la seconda strada. Da qui in poi l’inferno smette di brontolare e comincia a dischiudersi. Ancora una guerra va messa nel conto. Metterla nel conto è l’unico modo per provare a evitarla.
Il precipitare della situazione non può certo essere annoverato fra i successi della Casa Bianca, che porta gravi responsabilità. Noi europei non siamo da meno, a meno che non si voglia invocare l’attenuante della deficienza politica e dell’inconsistenza istituzionale. Ma è un’attenuante? A chi si fosse distratto ricordo che i missili indirizzati contro la popolazione civile israeliana sono dei Fair-5, fabbricati in Iran. Come si vede: evitare di fermare quel regime, che ha nel proprio programma la cancellazione di Israele dalla carta geografica, non è un modo per conservare la pace, ma per comprometterla e avviare la guerra.
Leggo che, secondo taluni, la miccia sarebbe stata riaccesa da Israele, responsabile di avere ucciso Ahmed al-Jabari. Era capo della brigata al-Quassam, una delle peggiori squadracce terroriste di Hamas. Non un militare, un terrorista. Se si ritiene che queste azioni siano illegittime allora si devono ritirare tutti i nostri militari all’estero e attendere che vengano a colpirci direttamente sotto casa.
Nonostante la sperimentata tattica di Hamas, che nasconde i missili e le armi fra la popolazione civile, in modo che i bambini morti siano trofei da esibire innanzi a quegli stessi giornalisti che festeggiarono la “primavera”, su Gaza s’è abbattuta una pioggia di 85 missili israeliani, lanciati in 45 minuti, che ha provocato il seguente bilancio di vittime: 2 persone. Li hanno tirati in mare? No, erano mirati sui siti sotterranei da cui Hamas conta di lanciare missili contro Israele. I bimbi e gli innocenti si sono salvati perché, anche volendo, non puoi metterli a viverci sopra.
Una cosa deve essere chiara, a tutti noi: non siamo spettatori, siamo parte in causa.

UN CONFLITTO SENZA SOLUZIONI 


CHIEDETE a un arabo palestinese di disegnare la Palestina. Poi chiedete a un ebreo israeliano di disegnare Israele. Confrontate i due schizzi: quasi sicuramente avranno la stessa forma. Perché nelle carte mentali dei due popoli le rispettive patrie occupano il medesimo spazio, tra Fiume (Giordano, ormai un rigagnolo) e Mare (Mediterraneo).Solo, quel territorio cambia nome a seconda dell’identità di chi lo evoca. Per il diritto di nominare il “proprio” spazio, da oltre sessant’anni in Terra Santa si vive e si muore, si uccide e ci si uccide. Il conflitto israelo-palestinese appartiene dunque alla vasta categoria dei problemi senza soluzione.
In termini logici, un problema senza soluzione non è un problema. Ma in politica, specie in geopolitica – ossia nelle dispute territoriali – non vige la logica formale. Se poi lo scontro investe la dimensione simbolico- identitaria, financo religiosa, come nel caso israelo-palestinese, la ricerca del compromesso diventa chimera. È su questo sfondo che conviene leggere l’ennesima crisi di Gaza. In apparenza, è lo stesso copione del dicembre 2008 (Operazione Piombo Fuso). Dopo che Hamas, filiale palestinese della Fratellanza musulmana, ha preso in mano la Striscia di Gaza, da quel territorio (365 chilometri quadrati, oltre un milione e mezzo di anime) partono a intervalli irregolari salve di razzi che colpiscono Sderot, Ashkelon, Ashdod e altri insediamenti israeliani, seminandovi il panico. Gerusalemme reagisce con raid aerei mirati. Finché, di fronte all’intensificarsi degli attacchi missilistici, il governo non decide che è il caso di dare una severa lezione a Hamas, in genere in vista di un’elezione alla Knesset. La deterrenza strategica sposa la tattica politica.
In questo caso, l’appuntamento elettorale di fine gennaio 2013 ha spinto Netanyahu a giocare la carta militare per compattare il fronte interno e cogliere alle urne una vittoria schiacciante. L’assassinio del capo militare (dunque il capo dei capi) di Hamas, Ahmad Jabari, ha inaugurato mercoledì scorso l’Operazione Pilastro di Difesa. Per ora aerea, forse presto terrestre. Come Piombo Fuso. Scadute le poche settimane che le Forze armate israeliane possono dedicare a un conflitto su terra, ognuno tornerebbe alle basi di partenza. In attesa delle prossime (e) lezioni.
Tuttavia l’apparenza inganna. Il copione delle provocazioni palestinesi e delle rappresaglie israeliane sarà pure lo stesso, ma nei quattro anni che separano Piombo Fuso da Pilastro di Difesa il mondo e il Medio Oriente sono cambiati. E continuano a mutare, a ritmo convulsivo.
Anzitutto, gli Stati Uniti hanno perso il Grande Medio Oriente. Dopo undici anni di guerra al terrorismo e due disastrose campagne in Afghanistan e in Iraq, l’influenza di Washington in quella che ci ostiniamo a definire una regione, mentre è uno spazio in rapida frammentazione, è ai minimi storici. Sorpreso dalle “primavere arabe”, Obama si è adattato a cavalcare un’onda rivoluzionaria che prometteva di aprire una stagione di libertà, progresso e democrazia, scoprendo di doversi accomodare, in Egitto e non solo, con i Fratelli musulmani, storica espressione dell’islam politico.
Allo stesso tempo, Obama si è costruito la fama di avversario di Netanyahu, irritando il premier israeliano ma poi finendo per accettarne l’intransigenza sul dossier palestinese e non solo pur di evitarne (ritardarne?) l’attacco all’Iran. Tanti equilibrismi si traducono in schizofrenia a stelle e strisce: i Fratelli musulmani che comandano al Cairo sono okay per assenza di alternative, i loro affiliati a Gaza sono terroristi perché così ha stabilito Gerusalemme. Ancora, dopo aver benedetto la rivoluzione contro Gheddafi, Obama scopre che gli arcinemici del Colonnello uccidono il suo ambasciatore in Libia e così contribuiscono a scatenare la faida fra le agenzie di intelligence americane.
In secondo luogo, attorno a Gerusalemme non vi sono quasi più Stati, solo territori in ebollizione, sui quali jihadisti e altri nemici di Israele si muovono con agilità. La Siria non esiste più, è un campo di mattanza in cui gli islamisti radicali guadagnano spazio e legittimazione. Il Libano è scosso dall’onda d’urto della guerra civile siriana e Hezbollah continua a minacciare con i suoi missili il Nord d’Israele. In Giordania il regime amico trema. L’Egitto, governato dalla casa madre di Hamas, cerca di destreggiarsi fra solidarietà ideologica ai fratelli di Gaza e interesse nazionale, che sconsiglia lo scontro con Israele. Intanto il Sinai, penisola teoricamente egiziana dove passa il confine con lo Stato ebraico e da cui si accede a Gaza, è più che mai terra di nessuno – ossia di beduini e jihadisti.
Infine, l’Iran. Il nemico numero uno dello Stato ebraico. Per Netanyahu, l’Operazione Pilastro di Difesa è un capitolo nel confronto decisivo con Teheran. Hamas è considerato da Gerusalemme il braccio armato dell’Iran in campo palestinese (definizione spicciativa, ma che continua a orientare l’élite strategica e soprattutto il pubblico israeliano). I razzi che hanno sfiorato Tel Aviv e le colonie ebraiche presso Gerusalemme sono Fajr-5 di produzione persiana. Se Israele attaccasse l’Iran, sarebbero usati per martellare lo Stato ebraico da sud, mentre i missili di Hezbollah colpirebbero da nord.
Di qui l’obiettivo dichiarato dell’attacco a Gaza: annientare il potenziale missilistico annidato nella Striscia, peraltro in buona parte affidato a milizie più radicali e assai più filo-iraniane dello stesso Hamas. Queste ultime, in particolare la Jihad islamica e il Fronte popolare per la liberazione della Palestina, sono responsabili dell’intensificarsi degli attacchi anti-israeliani ai primi di novembre, che hanno offerto a Netanyahu l’occasione per scatenare la sua aviazione contro Gaza. Quasi Teheran avesse deciso di provocare Gerusalemme, in vista di una guerra che alcuni dirigenti della Repubblica Islamica considerano vantaggiosa per la sopravvivenza del regime.
Per ora, la guerra a Gaza è limitata. Israele non intende rioccupare la Striscia e Hamas non vuole suicidarsi nello scontro frontale con l’entità sionista.
Ma troppi focolai sono accesi attorno a Gerusalemme. Basta poco per incendiare l’intero Vicino Oriente e il Golfo. Nessuno potrebbe prevedere l’esito di una guerra totale. L’unica certezza è che non risolverebbe il dilemma arabo-israeliano, o peggio islamico-ebraico. In Terra Santa resta vero il postulato dell’antropologo americano Clifford Geertz: “Qui la sconfitta non è mai totale, la vittoria sempre incompleta, la tensione infinita. Tutte le conquiste e le perdite sono solo marginali e temporanee, mentre i vincitori cadono e gli sconfitti si rialzano”.


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