A me Giannini non
piace, però non è uno stupido e quando scrive senza che l’ossessione
berlusconiana lo possieda del tutto ( che non succeda per nulla, non è possibile. e
infatti anche in questo articolo un paio di flash ci sono, ma le psicosi non si
curano mai del tutto ) , trovi considerazioni logiche e anche scomode per la
sua stessa parte . In questo caso :
1) Il biasimo per “la rissa sulle regole, rancorosa e
indecorosa ”
2) La strada ancora lunga da percorrere per una “chiara
identità politica” del PD ” nato per fondere le culture del cattolicesimo ex
democristiano e del socialismo ex comunista, e tuttora costretto a federarsi
con Sel e Udc per “unire progressisti e moderati”, resta tuttora irrisolto. E
sta lì a dimostrare che il progetto è tuttora incompiuto.”
3) L’antica socialdemocrazia ha prevalso sulla novità post
ideologica
4) Il quasi 33% dei sondaggi più ottimisti che porterebbero
il PD al suo record del 2008, sono probabilmente destinati a ridimensionarsi
scaduto l’effetto e l’attenzione mediatica delle primarie (certo, può
intervenire in sostituzione il vezzo italico di salire sul carro del vincitore,
ma nel 2006 e peggio nel 1994 non andò così. vedremo ).
5) Renzi valeva alle politiche il 44%, Bersani il 35%. Per
questo motivo in passato si scelse Prodi come leader. Stavolta , confidando nel
caos del centro destra si confida , ragionevolmente, che il 35% basti : il
resto lo farà l’infame Porcellum, oggi coccolato però come il gatto di casa .
QUi finiscono le condivisioni, però, stante le premesse,
sono già molto sorpreso.
Ecco l'articolo, e non mi si dica che leggo solo i giornalisti che preferisco !
«SE FACCIAMO le cose per bene non ci ammazza più nessuno»,
aveva detto Bersani all’inizio di questa avventura rischiosa e «strepitosa».
Non tutto è andato alla perfezione, nel ruvido duello per la premiership del
centrosinistra. La rissa sulle regole è stata rancorosa, e a tratti indecorosa.
Ma adesso che ha stravinto, per il segretario del Pd comincia un’altra vita. La
più dura. Quella che lo può portare da Largo del Nazareno a Palazzo Chigi. Da
queste primarie esce un leader forte, legittimato dal voto di tre milioni di
italiani che credono nella democrazia e chiedono buona politica. Un leader che
ottiene un quasi plebiscito e prevale nel fuoco di una battaglia finalmente
vera, dove al contrario delle vecchie primarie di Prodi l’esito è stato davvero
incerto e l’offerta è stata davvero plurale.
Da queste primarie esce un partito nuovo, già cambiato
nell’articolazione interna e nella proiezione esterna. Un partito che si scopre
aperto, scalabile e comunque contendibile, dove al contrario della tradizione
Ds-Pds-Pci non funzionano più i veti incrociati dalemianveltroniani né i
blocchi imposti dai comitati centrali. C’è ancora molta strada da compiere,
alla ricerca di una chiara identità politica. Il problema di cosa sia oggi un
Pd nato per fondere le culture del cattolicesimo ex democristiano e del
socialismo ex comunista, e tuttora costretto a federarsi con Sel e Udc per
“unire progressisti e moderati”, resta tuttora irrisolto. E sta lì a dimostrare
che il progetto è tuttora incompiuto.
Ma queste primarie rappresentano comunque un cambio di fase.
Senza falsi ecumenismi, senza vuota retorica: il merito è di chi ha vinto, ma
anche di chi ha perso. Bersani ci ha messo la faccia e la passione, rinunciando
a usare lo Statuto come un’arma di autodifesa e a brandire il vecchio “pugno
del partito” contro il giovane sfidante. Renzi ci ha messo l’ambizione e
l’irruenza dei suoi 37 anni, contribuendo al ricambio del personale e del
linguaggio politico. Il pragmatismo riformatore, di ispirazione
socialdemocratica, ha avuto la meglio sul nuovismo rottamatore, di matrice
post-ideologica. Il saldo finale è positivo, per tutti. E il risultato delle
primarie, trasformate impropriamente in un congresso a cielo aperto, dimostra
che dentro lo stesso partito di una moderna sinistra europea possono convivere
anche idee diverse sul lavoro e sul fisco, sul Medioriente e sui diritti
civili. Purché non siano antitetiche, o tanto vaghe da sconfinare in un “oltre”
dove non sai più chi sei, quando parli di precari e di Fiat, di esodati e di
spread. E purché, dopo la conta, prevalgano la disciplina e la logica della
maggioranza.
Ora per Bersani comincia una missione nuova. Non si tratta
solo di pacificare un Pd spaccato lungo la faglia renziana del “nuovo” contro
il “vecchio”. E non si tratta nemmeno di
ricompattare un centrosinistra attraversato dalla frattura
tra “moderatismo” e “radicalità”. In gioco, di qui al voto della primavera
2013, c’è molto di più. C’è il governo del Paese. C’è la sfida dell’accreditamento
in Europa, dove un pezzo di establishment continua a considerare la sinistra
italiana inaffidabile e figlia di un dio minore. C’è la complessa sfida delle
alleanze, perché la mitica “autosufficienza” del Pd (giustamente inseguita
anche da Renzi) è il sogno di tutti, ma se il Paese o la legge elettorale non
ti danno abbastanza voti per farcela da solo, sei obbligato a dialogare con
Vendola che reclama “profumo di sinistra” e con Casini che pianta i suoi
paletti al centro. C’è il confronto dialettico con il “montismo”, e la
definizione di un’Agenda che lo integri e lo superi sui temi della giustizia
sociale e della crescita economica.
C’è soprattutto la conquista di una maggioranza più larga
possibile. Tanto larga da superare i diversi “tetti” al premio elettorale di
cui si discute nella riforma dell’orribile Porcellum, se mai le disperate
follie berlusconiane la renderanno possibile. Parliamo di una “forchetta” di
consensi che oscilla tra il 38 e il 42,5%. Un risultato non proibitivo, per un
Pd che dovrà essere capace di guidare una coalizione omogenea e coesa. Ma
comunque molto impegnativo per un partito che al suo meglio, nell’ultimo test
del 2008 giocato sulla “vocazione maggioritaria” di Veltroni, non è andato
oltre il 33%. I sondaggi di oggi fotografano il partito nuovamente a ridosso di
quel record. Ma a gonfiare le vele è il vento di queste primarie, che è
naturalmente destinato a calare di qui alla prossima primavera.
TROVATA SU FB : ESILARANTE |
Bersani, adesso, ha il compito di alimentare quel vento con
la politica. Con l’autorevolezza che gli deriva dalla netta vittoria su Renzi.
Ma con la consapevolezza, paradossale e tuttavia oggettiva, di avere qualche
handicap in più dell’avversario interno che ha appena sconfitto. Gli elettori
di centrosinistra, nonostante il fragore della grancassa rottamatrice che
promanava dal camper del sindaco di Firenze, hanno premiato l’usato sicuro. Ma
di quella campagna resta un’eco che non deve essere dispersa, anche se chi l’ha
condotta rinuncia ai sogni di Palazzo Chigi e rientra nei ranghi di Palazzo
Vecchio. Resta una domanda di cambiamento profondo, che il Pd non può
rinchiudere con un sospiro di sollievo negli armadi della Storia, insieme al
renzismo che in questi mesi quella domanda l’ha urlata in tv, nei teatri e
nelle piazze d’Italia. Un ticket Bersani-Renzi sembra auspicabile quanto
impraticabile. Ma i duellanti hanno comunque un patto tacito da onorare. Il
primo deve continuare l’opera di modernizzazione del Pd, respingendo ogni
tentativo di restaurazione. Il secondo deve dare il suo contributo, rifiutando
ogni tentazione di rottura o di vendetta.
Secondo l’ultimo sondaggio di Roberto D’Alimonte pubblicato
sul Sole 24 Ore alla vigilia del primo turno, una coalizione di centrosinistra
guidata dal segretario del Pd vincerebbe le elezioni con il 35% dei voti,
mentre se la stessa fosse guidata da Renzi (ipotesi a questo punto
irrealizzabile) otterrebbe il 44%. Bersani, dunque, può fare il pieno di voti a
sinistra, mentre un candidato premier come il sindaco di Firenze avrebbe
sfondato il perimetro tradizionale pescando consensi un po’ ovunque. Nel centro
moderato (dove si intruppano troppi Casini e personaggi ancora in cerca
d’autore come Montezemolo o Passera sognano di rubare l’ago della bilancia al
leader dell’Udc). Nella destra sbandata (dove regna il caos e gli aruspici
berlusconiani sono ormai costretti a consultare le interiora di uccello per
venire a capo delle ciclotimie quotidiane del Sovrano Cavaliere). Nell’area
della protesta o dell’astensione (dove comincia ad affiorare qualche stanchezza
per i “vaffa-days” del comico genovese e si affievolisce il livore qualunquista
che vuole l’intera politica svilita a un “saloon” popolato da “todos
caballeros”).
In una logica di ferrea militanza, o comunque di fedele
appartenenza, questi consensi possono non interessare. Ma è chiaro che una
proposta di governo non solo credibile, ma soprattutto durevole, passa anche
attraverso una “pesca” fruttuosa in questo ampio bacino di voti alla deriva. E
non basta certo evocare il parroco o il Papa Buono (dimenticando scientemente e
colpevolmente Gramsci e Berlinguer) per riempire le reti. Serve la fatica e la
pazienza del riformismo. Cioè di una sinistra compiuta. Consapevole dei suoi
valori, che soprattutto oggi, nel tempo troppo liquido della libertà globale,
non possono prescindere dall’uguaglianza e dalla solidarietà. Una sinistra che
sa includere e sa innovare, ma senza perdere la sua identità. Ora tocca a
Bersani dimostrare che questa sinistra «non l’ammazza più nessuno ». Che questa
sinistra esiste, può vincere e — con Monti o senza Monti — può persino
governare l’Italia.
Nessun commento:
Posta un commento