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martedì 31 maggio 2016

LUCA RICOLFI SUL SOLE : LA PRODUTTIVITA' LATITA, E NESSUNO HA RICETTE VALIDE



Intanto che le truppe pro e contro la riforma costituzionale di stampo renziano affilano le armi, l'economia migliora ? Pare di no.
In particolare sono 20 anni che la produttività è ferma, e sul perché le analisi si sprecano, spesso divergenti. Troppo mercato, poco mercato. Troppo Stato, più intervento statale. Troppe tasse, no troppa evasione (ovvio, nessuno si azzarda a dire che sono troppo poche, correrebbe il CIM, semmai si continua a ripetere la bufala per stolti che ne pagheremmo di meno se le pagassero tutti... ) .
Luca Ricolfi tenta di ragionare sul difficile tema e come al solito lo fa in modo per nulla scontato e tanto meno banale.
Buona Lettura


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Il lungo sonno della produttività italiana

di LUCA RICOLFI

(Imagoeconomica)
 
 
 
Che si torni a parlare di produttività, come negli ultimi giorni è successo sulla scia del discorso di insediamento di Vincenzo Boccia alla presidenza di Confindustria, è senz’altro un bene. E questo per un motivo tanto semplice quanto cruciale: la produttività in Italia ristagna da vent’anni, e l’interruzione di questo lungo sonno è una condizione necessaria, assolutamente necessaria, per restituire un futuro a questo Paese. Ci sono due piccole complicazioni, tuttavia.

La prima è che un eventuale risveglio della produttività (sia quella del lavoro, sia quella totale) è solo una condizione necessaria di ripresa del Paese. Se questo risveglio dovesse avvenire senza un robusto aumento dell’occupazione e del Pil, o peggio ancora dovesse avvenire mediante una drastica riduzione dei posti di lavoro (come è accaduto in Spagna durante la crisi), quel risveglio si risolverebbe in un ricupero di competitività di una parte dell’apparato produttivo, ma non sarebbe in grado di tradursi pienamente in un innalzamento del benessere di tutti: salari più alti, migliori posti di lavoro, aziende più dinamiche e moderne, opportunità lavorative per i giovani. Tornare a crescere vuol dire precisamente questo.




La seconda complicazione è che, nonostante molti ritengano di sapere perché da vent’anni in Italia la produttività non cresca più, in realtà nessuno lo sa con ragionevole certezza. Non lo sanno gli economisti, meno che mai lo sanno i sociologi. Non lo sanno gli imprenditori, meno che mai lo sanno i politici. E il fatto che autorevolissimi studiosi, centri di ricerca, organismi internazionali più o meno politicizzati forniscano ricostruzioni e diagnosi notevolmente diverse l’una dall’altra, è solo la spia di quel che ho appena detto: quando ci sono almeno una decina di spiegazioni in competizione fra loro, vuol dire che non sappiamo veramente come sono andate le cose. Una situazione deplorevole, perché quello di cui avremmo bisogno è un racconto del caso italiano sufficientemente preciso e circostanziato da indicarci la strada per uscire dal letargo in cui il Paese è piombato a metà degli anni ’90. Qualcuno potrebbe obiettare che, anche se non sappiamo perché ci siamo addormentati, sappiamo però che cosa dobbiamo fare per risvegliarci. Questo per certi versi è vero, perché ci sono cose che sicuramente farebbero bene alla produttività (ad esempio la diffusione della banda larga), ma per altri versi non è vero affatto. Ci sono politiche che alcuni studiosi ritengono benefiche per la produttività, e altri ritengono dannose (tipico esempio: le liberalizzazioni del mercato del lavoro).


E anche sulle politiche che tutti (o quasi tutti) ritengono benefiche, come gli investimenti in ricerca e sviluppo, o la riduzione della pressione fiscale sui produttori, il punto non è sapere se servono oppure no, ma qual è il rapporto costi/benefici di ciascuna rispetto a tutte le altre. In un contesto di risorse scarse, molto scarse, i politici non dovrebbero dimostrare soltanto che un provvedimento è utile, ma anche che i suoi benefici, monetari e non, sono superiori ai costi, e che non esistono alternative equivalenti ma più efficienti. Detto per inciso: uno dei fondamenti psicologici della demagogia (dei politici) sta nella (nostra) tendenza a chiederci unicamente se una misura è utile, anziché chiederci quanto costa e se esistono alternative migliori. Ecco perché il sonno ventennale della produttività in Italia è un puzzle non solo interessante per gli studiosi, ma anche decisivo per il paese.


Perché quello dell'Italia è davvero un caso speciale fra le economie avanzate. Come ha scritto di recente Giuseppe Schlitzer in un paper dedicato al “paradosso della produttività” (forse l'analisi più acuta che io abbia letto sull'argomento), quello che rende il caso italiano difficile da spiegare in modo convincente, è che non si tratta genericamente di spiegare come mai la produttività ristagna, ma di rendere conto di una precisa concatenazione di eventi: il fatto che fino al 1995 la produttività dell'Italia avesse una dinamica normale; il fatto che, a un certo punto, nella seconda metà degli anni '90, abbia improvvisamente smesso di crescere; il fatto, infine, che la stagione del ristagno duri ininterrottamente da vent'anni.

Non è ovviamente un articolo di giornale il luogo per sviscerare un tema così complicato. Quello che mi sento di dire, tuttavia, è che l'evidenza empirica disponibile pare forse ridimensionare un po' le spiegazioni più in voga, molto incentrate su cose (peraltro importantissime) come il mercato del lavoro, le relazioni industriali, la politica fiscale, la politica monetaria, ma non sempre altrettanto pronte a cogliere quel che si muove (o non si muove) fuori del circuito economico. Forse dovremmo riflettere di più sul fatto che, a ristagnare, non è solo la produttività del lavoro, ma è la produttività totale dei fattori produttivi (capitale e lavoro), e che il brusco arresto di quest'ultima precede di ben cinque anni quello della produttività del lavoro (la produttività del lavoro ristagna dal 2000-2001, quella totale dal 1995-1996). Una produttività totale dei fattori stagnante indica una sorta di stallo, o di neutralizzazione reciproca, fra le molteplici forze e contro-forze che si celano dentro il cosiddetto “residuo di Solow” (lo scarto fra la dinamica del prodotto, e quella che ci si potrebbe attendere in base alla dinamica degli input produttivi).

Una di tali forze è sicuramente il progresso tecnico e organizzativo non incorporato nel capitale, ma l'altra è il complesso delle esternalità, delle condizioni collaterali e di contesto, che rendono possibile una vita economica fluida e dinamica: una burocrazia efficiente e non pervasiva, una giustizia civile veloce, norme chiare e facili da applicare, adempimenti snelli e non troppo numerosi, poteri amministrativi ben delimitati, percorsi autorizzativi lineari, ragionevole stabilità delle leggi, dei regolamenti e della normazione secondaria, tempi certi per aprire un'attività, o anche semplicemente per ottenere un allacciamento telefonico. Ma anche: investimenti pubblici in infrastrutture materiali e immateriali, sostegno alla ricerca, valorizzazione della conoscenza (a partire da scuola e università).Ebbene, tutto questo è mancato, e forse la sua mancanza ha fatto più danni alla dinamica della produttività di quanti ne abbiano fatti gli altri innumerevoli fattori sempre evocati.

Ma la latitanza del potere politico e amministrativo, si potrebbe obiettare, c'è sempre stata, nel nostro sfortunato paese e, prima del 1995, non ha mai impedito all'Italia di crescere a un ritmo comparabile a quello delle altre economie avanzate. Perché quel che era possibile ieri ha smesso di essere possibile oggi? La mia impressione, in parte basata sui miei studi sui vantaggi e svantaggi comparativi del federalismo, in parte sull'equilibrato bilancio tracciato da Schlitzer, è che quel che è successo a metà degli anni '90 in Italia non è stato un improvviso collasso della macchina pubblica ma, molto più semplicemente, il fatto che, di colpo, complici la globalizzazione, la crisi della lira e l'imperativo categorico dell'ingresso nell'euro, tutte le nostre inefficienze, manchevolezze e ritardi sono divenute insostenibili. Da un mattino all'altro ci siamo trovati a dover tirare la cinghia, ridurre il debito pubblico, competere senza il salvagente delle svalutazioni, tenendoci un elefante pubblico di cui la maggior parte dei nostri concorrenti poteva felicemente fare a meno.

Non è l'apparato statale dell'Italia che è di colpo cambiato a metà degli anni '90, ma è semmai l'arena in cui l'Italia e gli altri paesi europei si accingevano a competere che è cambiata, una svolta questa della cui drammaticità ben pochi si accorsero (fra i pochi, Giovanni Sartori e Giulio Tremonti). Di fronte a un simile sconquasso, come abbiamo reagito? In parte abbastanza bene, ovvero aggredendo il debito pubblico con la più grande ondata di privatizzazioni mai vista in un'economia occidentale, anziché imponendo un decennio di sacrifici alle famiglie e alle imprese. Ma in parte malissimo, ovvero costruendo il mito condiviso del federalismo fiscale, un mito partorito dalla Lega Nord ma immediatamente sposato dalla sinistra.

Un mito che si basava su un'eccellente idea, ridurre gli sprechi dell'apparato pubblico e avvicinare la politica ai cittadini, ma che, in mano ai nostri politici affamati di voti (e qualche volta anche di altri benefit), si è rapidamente trasformato nel più grande harakiri che il paese si sia inferto dopo la seconda guerra mondiale. Anziché essere usato per ridurre i costi, quel poco di federalismo che abbiamo avuto è stato usato per duplicare, qualche volta triplicare, i centri di spesa.
Ma il fatto più grave, dal punto di vista del nostro tentativo di capire l'arresto repentino della produttività in Italia, è che, in tutte le sue varianti (decentramento amministrativo prima del 2000, riforma del Titolo V nel 2001, legge 42 nel 2009), l'ideale federalista è stato di fatto tradotto in un'immane moltiplicazione dei centri di decisione, dei soggetti coinvolti nei processi politici, degli adempimenti degli operatori economici; in una pessima (perché confusa) ridefinizione dei compiti dei vari apparati della Pubblica Amministrazione, con conseguente proliferazione dei conflitti fra poteri pubblici; in un dannosissimo allungamento dei percorsi autorizzativi a tutti i livelli e per tutti i tipi di soggetti. Insomma: nel momento in cui avremmo dovuto accorgerci che uno Stato così non potevamo più permettercelo, e che era giunto il tempo di snellirlo e alleggerirlo, abbiamo invece cominciato a renderlo sempre più pesante e barocco.

Anziché generare esternalità positive, ci siamo molto industriati a moltiplicare le esternalità negative che già avevamo in carico. Ci sono prove che questo possa essere un pezzo importante, anche se non certo l'unico, della storia del declino della produttività? No, prove vere e proprie potrebbero venire solo da uno studio comparativo assai complesso e approfondito. Però indizi sì, qualche indizio le statistiche e la storia ce lo offrono. Il primo indizio è che la produttività del lavoro non è ferma in tutti i settori: è addirittura diminuita nella maggior parte dei servizi, ma in compenso è aumentata nel settore manifatturiero e in agricoltura. Una spiegazione possibile è che la produttività è aumentata nei settori della produzione materiale (e in alcuni servizi avanzati come le telecomunicazioni) perché lì il progresso tecnico-organizzativo conta, ed è in grado di contrastare le esternalità negative generate dall'elefantiasi dell'apparato pubblico, mentre là dove (come in gran parte dei servizi) il progresso tecnico è più lento sono le esternalità negative ad avere la meglio. L'indizio più importante, però, viene dalla storia economica e istituzionale.

A mia conoscenza c'è un solo paese avanzato in cui, negli ultimi vent'anni, la traiettoria della produttività sia stata simile a quella dell'Italia: il Belgio. Un paio di mesi fa (dopo gli attentati terroristici a Bruxelles), su questo giornale, Beda Romano faceva notare che, in Belgio, dal 1970 si sono susseguite almeno «sei grandi riforme istituzionali», e che esse «hanno creato sovrapposizioni e inefficienze». E osservava: «è un paradosso, per salvaguardare il futuro del Belgio e rispondere alle richieste di autonomia delle tre regioni (Fiandre, Vallonia e Buxelles) e delle tre comunità (francese, fiamminga e tedesca), le sei grandi riforme istituzionali (…) hanno avuto l'effetto di indebolire lo Stato attraverso un continuo trasferimento di competenze dal centro alla periferia (…).

Tra parlamenti locali e parlamento federale, il paese conta sei assemblee». Difficile non cogliere l'analogia con la storia del nostro paese. Per questo, quando si parla del ristagno ventennale della produttività in Italia, mi sento di sottoscrivere pienamente l'invito che più volte è risuonato in questi giorni: ognuno faccia la sua parte. Purché non ci si dimentichi che, fra i tanti che dovrebbero fare la loro parte, c'è anche l'apparato pubblico. Il quale, nell'ostacolare il naturale, fisiologico, aumento della produttività una parte l'ha avuta sicuramente. E la cui parte, arrivati a questo punto, potrebbe essere innanzi tutto quella di farsi un pochino da parte.


1 commento:

  1. Ricolfi, nonostante la sua appartenenza politica, la cattedra in una delle università (Torino) più okkupate d'Italia a sua volta in una città e regione anch'esse rosse che più non si può, nonostante tutto ciò, dicevo,
    è persona i cui studi e articoli vanno sempre presi in considerazione.
    Rari sono gli italiani influenti che possono vantare un tale onestà intellettuale.

    E non ne sbaglia una.


    Leno

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