Intanto che le truppe pro e contro la riforma costituzionale di stampo renziano affilano le armi, l'economia migliora ? Pare di no.
In particolare sono 20 anni che la produttività è ferma, e sul perché le analisi si sprecano, spesso divergenti. Troppo mercato, poco mercato. Troppo Stato, più intervento statale. Troppe tasse, no troppa evasione (ovvio, nessuno si azzarda a dire che sono troppo poche, correrebbe il CIM, semmai si continua a ripetere la bufala per stolti che ne pagheremmo di meno se le pagassero tutti... ) .
Luca Ricolfi tenta di ragionare sul difficile tema e come al solito lo fa in modo per nulla scontato e tanto meno banale.
Buona Lettura
Il lungo sonno della produttività italiana
di LUCA RICOLFI
Che si torni a parlare di produttività, come negli ultimi
giorni è successo sulla scia del discorso di insediamento di Vincenzo Boccia
alla presidenza di Confindustria, è senz’altro un bene. E questo per un motivo
tanto semplice quanto cruciale: la produttività in Italia ristagna da
vent’anni, e l’interruzione di questo lungo sonno è una condizione necessaria,
assolutamente necessaria, per restituire un futuro a questo Paese. Ci sono due
piccole complicazioni, tuttavia.
La prima è che un eventuale risveglio della produttività
(sia quella del lavoro, sia quella totale) è solo una condizione necessaria di
ripresa del Paese. Se questo risveglio dovesse avvenire senza un robusto
aumento dell’occupazione e del Pil, o peggio ancora dovesse avvenire mediante
una drastica riduzione dei posti di lavoro (come è accaduto in Spagna durante
la crisi), quel risveglio si risolverebbe in un ricupero di competitività di
una parte dell’apparato produttivo, ma non sarebbe in grado di tradursi
pienamente in un innalzamento del benessere di tutti: salari più alti, migliori
posti di lavoro, aziende più dinamiche e moderne, opportunità lavorative per i
giovani. Tornare a crescere vuol dire precisamente questo.
La seconda complicazione è che, nonostante molti ritengano
di sapere perché da vent’anni in Italia la produttività non cresca più, in
realtà nessuno lo sa con ragionevole certezza. Non lo sanno gli economisti,
meno che mai lo sanno i sociologi. Non lo sanno gli imprenditori, meno che mai
lo sanno i politici. E il fatto che autorevolissimi studiosi, centri di
ricerca, organismi internazionali più o meno politicizzati forniscano
ricostruzioni e diagnosi notevolmente diverse l’una dall’altra, è solo la spia
di quel che ho appena detto: quando ci sono almeno una decina di spiegazioni in
competizione fra loro, vuol dire che non sappiamo veramente come sono andate le
cose. Una situazione deplorevole, perché quello di cui avremmo bisogno è un
racconto del caso italiano sufficientemente preciso e circostanziato da
indicarci la strada per uscire dal letargo in cui il Paese è piombato a metà
degli anni ’90. Qualcuno potrebbe obiettare che, anche se non sappiamo perché
ci siamo addormentati, sappiamo però che cosa dobbiamo fare per risvegliarci.
Questo per certi versi è vero, perché ci sono cose che sicuramente farebbero
bene alla produttività (ad esempio la diffusione della banda larga), ma per
altri versi non è vero affatto. Ci sono politiche che alcuni studiosi ritengono
benefiche per la produttività, e altri ritengono dannose (tipico esempio: le
liberalizzazioni del mercato del lavoro).
E anche sulle politiche che tutti (o quasi tutti) ritengono
benefiche, come gli investimenti in ricerca e sviluppo, o la riduzione della
pressione fiscale sui produttori, il punto non è sapere se servono oppure no,
ma qual è il rapporto costi/benefici di ciascuna rispetto a tutte le altre. In
un contesto di risorse scarse, molto scarse, i politici non dovrebbero
dimostrare soltanto che un provvedimento è utile, ma anche che i suoi benefici,
monetari e non, sono superiori ai costi, e che non esistono alternative
equivalenti ma più efficienti. Detto per inciso: uno dei fondamenti psicologici
della demagogia (dei politici) sta nella (nostra) tendenza a chiederci
unicamente se una misura è utile, anziché chiederci quanto costa e se esistono
alternative migliori. Ecco perché il sonno ventennale della produttività in
Italia è un puzzle non solo interessante per gli studiosi, ma anche decisivo
per il paese.
Perché quello dell'Italia è davvero un caso speciale fra le
economie avanzate. Come ha scritto di recente Giuseppe Schlitzer in un paper
dedicato al “paradosso della produttività” (forse l'analisi più acuta che io
abbia letto sull'argomento), quello che rende il caso italiano difficile da
spiegare in modo convincente, è che non si tratta genericamente di spiegare
come mai la produttività ristagna, ma di rendere conto di una precisa
concatenazione di eventi: il fatto che fino al 1995 la produttività dell'Italia
avesse una dinamica normale; il fatto che, a un certo punto, nella seconda metà
degli anni '90, abbia improvvisamente smesso di crescere; il fatto, infine, che
la stagione del ristagno duri ininterrottamente da vent'anni.
Non è ovviamente un articolo di giornale il luogo per
sviscerare un tema così complicato. Quello che mi sento di dire, tuttavia, è
che l'evidenza empirica disponibile pare forse ridimensionare un po' le
spiegazioni più in voga, molto incentrate su cose (peraltro importantissime)
come il mercato del lavoro, le relazioni industriali, la politica fiscale, la
politica monetaria, ma non sempre altrettanto pronte a cogliere quel che si
muove (o non si muove) fuori del circuito economico. Forse dovremmo riflettere
di più sul fatto che, a ristagnare, non è solo la produttività del lavoro, ma è
la produttività totale dei fattori produttivi (capitale e lavoro), e che il
brusco arresto di quest'ultima precede di ben cinque anni quello della
produttività del lavoro (la produttività del lavoro ristagna dal 2000-2001, quella
totale dal 1995-1996). Una produttività totale dei fattori stagnante indica una
sorta di stallo, o di neutralizzazione reciproca, fra le molteplici forze e
contro-forze che si celano dentro il cosiddetto “residuo di Solow” (lo scarto
fra la dinamica del prodotto, e quella che ci si potrebbe attendere in base
alla dinamica degli input produttivi).
Una di tali forze è sicuramente il progresso tecnico e
organizzativo non incorporato nel capitale, ma l'altra è il complesso delle
esternalità, delle condizioni collaterali e di contesto, che rendono possibile
una vita economica fluida e dinamica: una burocrazia efficiente e non
pervasiva, una giustizia civile veloce, norme chiare e facili da applicare,
adempimenti snelli e non troppo numerosi, poteri amministrativi ben delimitati,
percorsi autorizzativi lineari, ragionevole stabilità delle leggi, dei
regolamenti e della normazione secondaria, tempi certi per aprire un'attività,
o anche semplicemente per ottenere un allacciamento telefonico. Ma anche:
investimenti pubblici in infrastrutture materiali e immateriali, sostegno alla
ricerca, valorizzazione della conoscenza (a partire da scuola e
università).Ebbene, tutto questo è mancato, e forse la sua mancanza ha fatto
più danni alla dinamica della produttività di quanti ne abbiano fatti gli altri
innumerevoli fattori sempre evocati.
Ma la latitanza del potere politico e amministrativo, si
potrebbe obiettare, c'è sempre stata, nel nostro sfortunato paese e, prima del
1995, non ha mai impedito all'Italia di crescere a un ritmo comparabile a
quello delle altre economie avanzate. Perché quel che era possibile ieri ha
smesso di essere possibile oggi? La mia impressione, in parte basata sui miei
studi sui vantaggi e svantaggi comparativi del federalismo, in parte sull'equilibrato
bilancio tracciato da Schlitzer, è che quel che è successo a metà degli anni '90 in Italia non è stato un
improvviso collasso della macchina pubblica ma, molto più semplicemente, il
fatto che, di colpo, complici la globalizzazione, la crisi della lira e
l'imperativo categorico dell'ingresso nell'euro, tutte le nostre inefficienze,
manchevolezze e ritardi sono divenute insostenibili. Da un mattino all'altro ci
siamo trovati a dover tirare la cinghia, ridurre il debito pubblico, competere
senza il salvagente delle svalutazioni, tenendoci un elefante pubblico di cui
la maggior parte dei nostri concorrenti poteva felicemente fare a meno.
Non è l'apparato statale dell'Italia che è di colpo cambiato
a metà degli anni '90, ma è semmai l'arena in cui l'Italia e gli altri paesi
europei si accingevano a competere che è cambiata, una svolta questa della cui
drammaticità ben pochi si accorsero (fra i pochi, Giovanni Sartori e Giulio
Tremonti). Di fronte a un simile sconquasso, come abbiamo reagito? In parte abbastanza
bene, ovvero aggredendo il debito pubblico con la più grande ondata di
privatizzazioni mai vista in un'economia occidentale, anziché imponendo un
decennio di sacrifici alle famiglie e alle imprese. Ma in parte malissimo,
ovvero costruendo il mito condiviso del federalismo fiscale, un mito partorito
dalla Lega Nord ma immediatamente sposato dalla sinistra.
Un mito che si basava su un'eccellente idea, ridurre gli
sprechi dell'apparato pubblico e avvicinare la politica ai cittadini, ma che,
in mano ai nostri politici affamati di voti (e qualche volta anche di altri
benefit), si è rapidamente trasformato nel più grande harakiri che il paese si
sia inferto dopo la seconda guerra mondiale. Anziché essere usato per ridurre i
costi, quel poco di federalismo che abbiamo avuto è stato usato per duplicare,
qualche volta triplicare, i centri di spesa.
Ma il fatto più grave, dal punto
di vista del nostro tentativo di capire l'arresto repentino della produttività
in Italia, è che, in tutte le sue varianti (decentramento amministrativo prima
del 2000, riforma del Titolo V nel 2001, legge 42 nel 2009), l'ideale
federalista è stato di fatto tradotto in un'immane moltiplicazione dei centri
di decisione, dei soggetti coinvolti nei processi politici, degli adempimenti degli
operatori economici; in una pessima (perché confusa) ridefinizione dei compiti
dei vari apparati della Pubblica Amministrazione, con conseguente
proliferazione dei conflitti fra poteri pubblici; in un dannosissimo
allungamento dei percorsi autorizzativi a tutti i livelli e per tutti i tipi di
soggetti. Insomma: nel momento in cui avremmo dovuto accorgerci che uno Stato
così non potevamo più permettercelo, e che era giunto il tempo di snellirlo e
alleggerirlo, abbiamo invece cominciato a renderlo sempre più pesante e
barocco.
Anziché generare esternalità positive, ci siamo molto
industriati a moltiplicare le esternalità negative che già avevamo in carico. Ci
sono prove che questo possa essere un pezzo importante, anche se non certo
l'unico, della storia del declino della produttività? No, prove vere e proprie
potrebbero venire solo da uno studio comparativo assai complesso e
approfondito. Però indizi sì, qualche indizio le statistiche e la storia ce lo
offrono. Il primo indizio è che la produttività del lavoro non è ferma in tutti
i settori: è addirittura diminuita nella maggior parte dei servizi, ma in
compenso è aumentata nel settore manifatturiero e in agricoltura. Una
spiegazione possibile è che la produttività è aumentata nei settori della
produzione materiale (e in alcuni servizi avanzati come le telecomunicazioni)
perché lì il progresso tecnico-organizzativo conta, ed è in grado di
contrastare le esternalità negative generate dall'elefantiasi dell'apparato
pubblico, mentre là dove (come in gran parte dei servizi) il progresso tecnico
è più lento sono le esternalità negative ad avere la meglio. L'indizio più
importante, però, viene dalla storia economica e istituzionale.
A mia conoscenza c'è un solo paese avanzato in cui, negli
ultimi vent'anni, la traiettoria della produttività sia stata simile a quella
dell'Italia: il Belgio. Un paio di mesi fa (dopo gli attentati terroristici a
Bruxelles), su questo giornale, Beda Romano faceva notare che, in Belgio, dal
1970 si sono susseguite almeno «sei grandi riforme istituzionali», e che esse
«hanno creato sovrapposizioni e inefficienze». E osservava: «è un paradosso,
per salvaguardare il futuro del Belgio e rispondere alle richieste di autonomia
delle tre regioni (Fiandre, Vallonia e Buxelles) e delle tre comunità
(francese, fiamminga e tedesca), le sei grandi riforme istituzionali (…) hanno
avuto l'effetto di indebolire lo Stato attraverso un continuo trasferimento di
competenze dal centro alla periferia (…).
Tra parlamenti locali e parlamento federale, il paese conta
sei assemblee». Difficile non cogliere l'analogia con la storia del nostro
paese. Per questo, quando si parla del ristagno ventennale della produttività
in Italia, mi sento di sottoscrivere pienamente l'invito che più volte è
risuonato in questi giorni: ognuno faccia la sua parte. Purché non ci si
dimentichi che, fra i tanti che dovrebbero fare la loro parte, c'è anche
l'apparato pubblico. Il quale, nell'ostacolare il naturale, fisiologico,
aumento della produttività una parte l'ha avuta sicuramente. E la cui parte,
arrivati a questo punto, potrebbe essere innanzi tutto quella di farsi un
pochino da parte.
Ricolfi, nonostante la sua appartenenza politica, la cattedra in una delle università (Torino) più okkupate d'Italia a sua volta in una città e regione anch'esse rosse che più non si può, nonostante tutto ciò, dicevo,
RispondiEliminaè persona i cui studi e articoli vanno sempre presi in considerazione.
Rari sono gli italiani influenti che possono vantare un tale onestà intellettuale.
E non ne sbaglia una.
Leno