Nel suo appuntamento settimanale, che seguo grazie al puntuale invio dell'amico Gianluca, Alessandro Fugnoli esamina, a volo d'aquila, alcuni scenari internazionali, considerato che nell'era dell'economia globale, sono questi che alla fine contano di più anche e soprattutto nel nevralgico settore economico .
E così si passa dalla questione Catalana all'apparente tregua sul fronte coreano, poi alla Cina presto in pieno congresso del Partito per finire all'America e alla attesa riforma fiscale promessa dal presidente Trump.
La parte che più mi ha interessato è la prima. Stimo grandemente Fugnoli e lo considero un uomo dalla cultura ampia e rara, e quindi ero grandemente interessato alla sua opinione sull'indipendentismo rivendicato da Barcellona, anzi ero in attesa, sicuro che prima o poi qualcosa avrebbe scritto.
Infatti.
La ricostruzione storica è comune a quella per lo più letta in queste settimane : la Catalogna ha sempre goduto di grande autonomia, e l'elemento di una lingua propria, distinta da quella spagnola (il castigliano ) non ha piccolo peso (è quella che manca ai vagheggiati "stati uniti d'Europa", e che invece c'era, e pesò, nella nascita degli stati uniti d'America) nella formazione del sentimento di appartenenza e quindi nell'istanza indipendentista.
Peraltro i regni di Aragona (di cui la Catalogna faceva parte) e di Castiglia si fusero nel 1469, con il matrimonio tra Filippo e Isabella, senza conflitti.
Il problema sorge quando in Spagna scoppiò la guerra di successione, con i Catalani schierati con il filone filo asburgico, i castigliani dalla parte del candidato borbone.
Nella spartizione finale, perché il conflitto non vide in realtà un vero, unico vincitore, e l'antico impero fu diviso tra le varie potenze, la Spagna peninsulare toccò a Filippo di Borbone che non dimenticò la scelta di campo di Barcellona e ridusse la storica autonomia catalana. Nessuna occupazione dunque, come pure vuole la mitologia indipendentista. Recuperato spazio con la Repubblica, la Catalogna si schierò contro il golpe franchista, e, anche stavolta, perse.
Nuovo, ampio respiro con l'avvento, lento ma progressivo, della democrazia alla morte di Franco (1975) e nuova costituzione nel 1979. Secondo Fugnoli, e di lui mi fido, i governi conservatori spagnoli, quindi Aznar prima e Rojoi poi, hanno cercato non solo di contrastare le incessanti richieste di Barcellona di accrescere sempre di più un'autonomia già obiettivamente ampia, secondo i normali standard internazionali, ma anzi di ridimensionarla, con conseguente inasprimento del confronto-conflitto tra i due fronti.
Come sempre, il "nostro" ci fornisce una chiave di lettura originale ed interessante secondo la quale la causa catalana mancherebbe di un elemento fondamentale : il consenso convinto della sua classe imprenditoriale. In effetti, anche a me ha colpito leggere, alla vigilia del referendum e nei giorni immediatamente successivi, che tutte le principali banche ed imprese catalane organizzavano l'immediato spostamento delle loro sedi in previsione di una dichiarazione unilaterale d'indipendenza
E la ragione non sta certo per la fedeltà alla Spagna, quanto per la volontà di restare agganciati all'Europa, che da questo punto di vista, secondo Fugnoli, sarebbe cinica e conservatrice con i catalani.
Vabbè, non sono d'accordo su tutto (per esempio mi domando quale fosse la classe borghese imprenditoriale italiana nel risorgimento...), però, come sempre, Fugnoli scrive in modo chiaro e ricco.
Buona Lettura dunque.
MONTAGNE E TOPOLINI
Speranze e paure destinate a sgonfiarsi
Catalogna. Non ci possono essere dubbi sul fatto che
abbia
un ’identità nazionale . Era etnicamente diversa dal resto della
penisola iberica fin dai tempi preromani. Fu marca autonoma sotto influenza
francese per quattro secoli e poi divenne parte semi-indipendente del regno di Aragona,
la regione che sta alle sue spalle. Aragonesi e catalani si crearono un piccolo
e prospero impero che comprendeva a un certo punto la Sardegna , l’Italia
meridionale e perfino Atene. Arrivarono ad avere un papa loro, Alessandro VI
Borgia, molto migliore di come la tradizione lo ha dipinto.
Nel 1469 Fernando di Aragona sposò Isabella di Castiglia per
completare la cacciata degli arabi dal sud e per proiettare i due regni verso
l’Africa e le Americhe. Per quanto unificati, i due regni mantennero totale
parità di peso e autonomia linguistica e giuridica fino all’inizio del
Settecento, quando i catalani si schierarono dalla parte perdente nella lunga
Guerra di successione spagnola e si ritrovarono un Borbone francese, Filippo V,
come nuovo re. Filippo, nipote diretto di Re Sole, applicò immediatamente i
principi centralisti e assolutisti assorbiti a Versailles e tolse ai catalani
sconfitti la loro autonomia.
Con l’inizio del Novecento e il passaggio alla repubblica la Catalogna riacquistò
immediatamente larga autonomia politica e linguistica e ai tempi della Guerra
Civile divenne, insieme al Paese Basco e alle Asturie, il centro
dell’opposizione a Franco. Come Filippo V, Franco vincitore represse in ogni
modo i catalani, che riuscirono comunque a rimettersi in piedi e a fare da
motore del miracolo spagnolo degli anni Cinquanta. Caduto il franchismo,
Barcellona riottenne immediatamente una larga autonomia, erosa però
progressivamente sotto i governi controllati dal Partido Popular e soprattutto
con Rajoy. Da qui, da un decennio, la spinta crescente a risolvere una volta
per tutte la questione attraverso l’indipendenza.
All’indipendentismo catalano manca però lo stesso elemento
che è mancato all’indipendentismo del Québec e a quello scozzese, tutti capaci
di sfiorare il 50 per cento dei consensi popolari senza mai andare oltre. Manca
la compattezza della classe imprenditoriale, quella che nell’Ottocento e nel
Novecento si chiamava borghesia e che fu decisiva nelle guerre di indipendenza
che si conclusero con successo (Stati Uniti, America Latina, Italia, India).
E
così, mentre le imprese coreane se ne restano tranquillamente a pochi
chilometri dalle atomiche di Kim, la finanza e le utilities catalane, soggette
ai regolatori di Madrid, Bruxelles e Francoforte, non hanno esitato un minuto a
scappare. A questo punto, la montagna sollevata dal referendum sembra destinata
a partorire il topolino di una guerra politica di logoramento destinata a
durare anni o decenni. L’Europa, che ha perso memoria di molti suoi valori e
che tratta la Catalogna
da provincia ribelle, non rischierà nulla, se non di apparire ancora più
lontana, imperiale e autoreferenziale.
Terza guerra mondiale. Come mai i mercati accolgono
con uno sbadiglio le dichiarazioni quotidiane di Trump sulla necessità di
prepararsi a una guerra con la
Corea del Nord e quelle del senatore Corker, che fu a un
passo dal diventare segretario di stato, che sostiene che la politica di Trump
ci sta portando verso la terza guerra mondiale? È molto diffusa la convinzione
che la montagna di retorica serva solo a spaventare Kim, che in effetti da
qualche tempo sembra essersi preso una pausa. Si sa che sono aperti canali di
comunicazione tra Washington e Pyongyang e che la retorica aggressiva potrebbe
essere davvero un semplice fuoco di copertura delle trattative. Resta, come
dato di fatto, cha la montagna di dichiarazioni bellicose sta producendo
un’accelerazione nel rialzo forte e sicuro dei titoli della difesa. Che ci sia
guerra o pace armata, il bull market del settore è secolare.
Cina. A cinque giorni dall’apertura del XIX congresso
del partito, tutto è come deve essere, ovvero perfettamente in ordine. Il Pil,
al 6.7 per cento, supera di due decimali, cioè del giusto, l’obiettivo di piano
del 6.5. Il renminbi è tornato in buona salute, i capitali non fuggono più e le
riserve valutarie hanno ripreso a crescere (tutto senza esagerare, per non
danneggiare le fiorenti esportazioni). La borsa di Shanghai, dopo le tempeste
del 2015, è tornata composta e in costante moderato rialzo. Xi Jinping
controlla con mano ferma il partito e il paese e non si vede nessuna fronda in
grado di preoccuparlo.
E tuttavia la montagna di attese degli anni scorsi su un
nuovo corso riformatore nell’economia deve lasciare il campo a una realtà ormai
consolidata che appare più contrastata. Da una parte è vero che la Cina intende seriamente, sia
pure con i suoi tempi, riorientarsi verso i consumi interni, limitare la sovrapproduzione
nell’industria pesante e orientarsi aggressivamente verso le nuove tecnologie,
nelle quali vuole essere davanti all’America entro il 2030. Ed è anche vero che
il mercato è una voce ascoltata nella determinazione del cambio e dei tassi.
È però altrettanto vero che di privatizzazioni non si parla
più. La politica non vuole assolutamente perdere il suo posto di comando.
Accetta che le imprese pubbliche si confrontino con il mercato, ma intende
mantenerne il controllo. Quanto alle grandi imprese private, la loro fedeltà politica
deve essere totale, tanto da essere proclamata nella statuto aziendale. Una
volta fedeli, possono fare tutti i soldi che vogliono. Per quanto poi riguarda
il grande problema del debito, la
Cina continua a dimostrare una grande capacità tecnica nel gestirlo,
ma non ha intenzione di ridurlo, semmai di moderarne la crescita limitando le
attività di shadow banking.
Dove la Cina
sta conseguendo grandi successi è nella sua penetrazione capillare nel tessuto
economico dell’Asia, dell’Africa e ora anche dell’Europa. Il grandioso progetto
One Belt, One Road, con il quale la
Cina si lega a tre continenti, è il frutto di un pensiero
strategico potente. A ogni paese la
Cina porta in dono una centrale nucleare, un porto, una linea
ferroviaria, un parco industriale e ne ha in cambio uno sbocco per i suoi
prodotti e, spesso, una base militare.
Dopo il congresso la crescita cinese rallenterà leggermente
e il renminbi smetterà di rafforzarsi, ma nei prossimi 6-12 mesi la Cina , e con lei tutta l’Asia,
continueranno a godere di ottimi livelli di crescita nella stabilità.
Riforma fiscale americana. Studiata nei dettagli
negli otto anni di opposizione repubblicana, doveva essere la più grande
rivoluzione economica dal New Deal. Mese dopo mese ha però perso i pezzi e ora
il rischio è che davvero ne esca un topolino.
Ha cominciato la lobby degli importatori a impedire
l’introduzione della border tax sulla produzione estera. Poi la lobby degli
indebitati ha bloccato (almeno per ora) l’abolizione della detraibilità degli
interessi passivi. Si pensava di abbassare l’aliquota per le società al 15, ma
senza border tax e interessi passivi non ci sono i soldi e ora è rimasto solo
Trump a parlare del 20 mentre tutti gli altri parlano del 23-25. Sul fronte
delle imposte sulle persone, la lobby dei repubblicani di New York e California
sta lavorando per il ritiro della
proposta di abolire la detraibilità delle imposte locali, attraverso la quale
gli stati virtuosi finanziano gli stati spendaccioni. I soldi per abbassare le
aliquote scendono quindi ogni giorno che passa.
Insomma, l’impianto della riforma è bombardato da tutti i
lati e la maggioranza al Senato è di soli due membri, con McCain e Rand Paul
già defilati e Corker che giura che non autorizzerà un solo centesimo di
deficit in più.
Il consenso di mercato sconta 8 dollari per azione di
maggiori utili dalla riforma fiscale, ovvero il 6 per cento in più. Nei suoi calcoli,
tuttavia, il mercato parte dalla proposta dei Sei Saggi (Trump e i leader di
Camera e Senato) alla quale mancano però i voti decisivi dei senatori citati.
Abbiamo visto gli stravolgimenti radicali cui è stata sottoposta la riforma
sanitaria in corso d’opera (la riforma è fallita comunque) e annacquamenti
profondi ci saranno anche per quella fiscale, a partire dal differimento del
suo inizio nel corso dei prossimi dieci anni.
Le borse festeggeranno qualsiasi testo di riforma che uscirà
dal Congresso, ma nel corso del 2018 si accorgeranno che l’impatto sugli utili
sarà molto più modesto di quello che si stanno aspettando. Per non correggere
(e per tentare di salire ancora) dovranno appoggiarsi su altri fattori. Come la
crescita globale, che l’anno prossimo potrebbe essere buona come quella di
quest’anno.
Alessandro Fugnoli
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