Molto interessante, anche perché del tutto contro corrente, l'analisi proposta dal prof. Galli della Loggia nell'editoriale odierno sul Corsera.
Finora, e ne ho letti tanti, non ho trovato nessun articolo in cui qualche opinionista, politologo, editorialista, avesse espresso il pensiero - auspicio del professore.
Tutti sostengono anzi che nulla cambierebbe, senza almeno modificare la legge elettorale.
Galli della Loggia al riguardo osserva da un lato che, senza il consenso dei 5 Stelle, e della Lega, che pesano circa il 50% delle due camere, ben difficilmente si potrebbe fare una nuova legge, e questa a loro ha portato piuttosto bene...
In secondo luogo, al di là di un assai difficile governo formato coi voti dei due partiti vincitori, ammesso che si trovino i numeri per farlo, una maggioranza diversa, che metta insieme tutti gli altri, magari con l'astensione della Lega, o dei 5 Stelle, o di entrambi, come verrebbe vista dagli elettori ?
Bene o male, due soggetti che hanno chiaramente vinto ci sono stati, e il fatto che dal Colle venisse partorito, ovviamente con la complicità dei partiti che collaborassero, un governo "tutt'altro" , suonerebbe male, avverte Galli della Loggia, e francamente mi trovo d'accordo con lui.
Hanno vinto, ma non abbastanza, ricorda lo stesso Professore l'obiezione immediata al suo ragionare.
E' per questo che bisogna tornare a votare.
La gente stavolta si troverebbe davanti ad una scelta netta e chiara : o dare un'ulteriore mano alle due formazioni vincenti, consentendo stavolta la netta vittoria di una delle due (centro destra o penta stellati), oppure confermare, e dimostrare alle stesse, che oltre questo non vanno, che hanno fatto il "pieno".
A quel punto sì, conclude Galli della Loggia, sarebbe lecito il ricorso a qualsiasi alleanza utile a superare l'impasse.
Ma un altro giro è d'obbligo.
Da rifletterci
Buona Lettura
L’OPINIONE
Perché io dico che è meglio tornare subito alle urne
Lo consigliano a mio avviso i numeri e la situazione
generale del Paese
di Ernesto Galli
della Loggia
Più che in ogni altra occasione le righe che seguono esprimono un’opinione del tutto personale. Che è la seguente: nella situazione politica creata dai risultati elettorali del 4 marzo la cosa migliore da farsi è quella di andare in tempi brevi di nuovo alle urne. Lo consigliano a mio avviso i numeri, il loro significato, la situazione generale del Paese. E direi anche qualcos’altro: il buon senso. Certo, le combinazioni possibili sono molte giocando con i numeri sul pallottoliere. Da un governo Pd-Forza Italia con l’astensione della Lega e dei 5 Stelle o di uno solo dei due, a un governo 5 Stelle-Lega, a una coalizione tra i 5Stelle e il Pd astenuto o alleato: e di sicuro ne ho dimenticato almeno un altro paio o di più. Ma mi chiedo: è forse qualcosa del genere che l’elettorato ha chiesto con il suo voto? Un governo Franceschini–Di Maio? un ministero Renzi-Brunetta o Salvini-Di Battista? Sarebbe bene, credo, non tirare troppo la corda: anche con la proporzionale, anche con le liste degli eletti prefabbricate dai partiti e i candidati paracadutati, considerare gli elettori come un semplice parco buoi non è consigliabile. C’è un limite a tutto. Se si supera il quale diviene concreto il rischio che nasca nell’opinione pubblica un movimento dirompente di rifiuto e di disprezzo per le istituzioni dagli esiti imprevedibili.
Il Presidente Mattarella ha ragione: va tenuto presente innanzi tutto l’interesse generale del Paese, ma tale interesse non è forse rappresentato innanzi tutto dalla democrazia, dalla sovranità popolare, dalla convinzione da parte dei cittadini del suo indiscutibile primato al di là delle più improbabili intese e combinazioni?
Si dice: «Va bene, si formi allora un governo che faccia
poche cose, una nuova legge elettorale, e poi al voto». Ma vorrei sapere: quali
cose di preciso? Nessuno, mi pare, ne ha la minima idea né alcuno si azzarda a
dire perché mai su quelle «poche cose» dovrebbe trovarsi miracolosamente un qualche
accordo tra forze così diverse. E quanto a una mitica «nuova legge elettorale»,
mi chiedo non solo perché mai 5 Stelle e Lega, che con quella in vigore hanno
ottenuto risultati così favorevoli, dovrebbero essere indotti a cambiarla; ma
soprattutto come è pensabile che forze politicamente eterogenee, anche molto
eterogenee, si trovino poi d’accordo su una nuova legge elettorale, cioè su una
tra le cose più intrinsecamente politiche che esistano.
Piaccia o non piaccia, il significato del voto, la direzione
che esso indica, sono chiarissimi: un rinnovamento radicale del quadro e del
personale politico. Il problema è che dal numero dei voti risulta incerto il
segno politico da dare a questo rinnovamento — se un segno di riequilibrio a
dominante egualitaria di tono meridional-statalista (Movimento 5 Stelle),
ovvero di svolta securitaria di tono nazional-antieuropeo (coalizione di
centro-destra egemonizzata dalla Lega) — dal momento che come è arcinoto i
numeri premiano queste due formazioni ma a nessuna delle due danno la forza
necessaria per governare. Che cosa c’è allora di più ovvio, mi chiedo, di più
ragionevole, di più democraticamente coerente, del mandarle di nuovo di fronte
al corpo elettorale perché tra le due ipotesi questo si pronunci in via definitiva?
Mi sembra già di sentire l’obiezione: e se dalla nuova
consultazione da qui a tre mesi una tale pronuncia definitiva non venisse?
Ebbene: allora sì che sarebbe inevitabile dare il via a un tortuoso e spossante
itinerario volto alla ricerca di qualche soluzione di ripiego, di una
maggioranza purchessia. Ma farlo oggi — a parte le debolissime probabilità di
successo di un simile tentativo — sarebbe assai probabilmente inteso — e
proprio da quella parte dell’opinione pubblica che ha vinto le elezioni — solo
come un modo da parte dei poteri tradizionali di salvare il proprio ruolo, di
sopravvivere al naufragio dei propri referenti. Quando parlo di poteri
tradizionali non mi riferisco alle dirigenze di partito quanto soprattutto a
quelle rancide élite burocratiche, professionali e intellettuali, a quei soliti
nomi — annidati nei piani alti e altissimi delle istituzioni, abituati da
decenni a gestire di fatto una rilevantissima parte dell’attività di governo
attraverso le «consulenze», i gabinetti ministeriali, le Agenzie, le reti di
relazioni, la Rai ,
i vertici delle aziende pubbliche, le istituzioni culturali, gli enti di ogni
tipo — contro i quali il voto di domenica è stata un’indubbia clamorosa
ancorché sgangherata espressione.
Naturalmente non mi nascondo che per un grottesco paradosso
tipico della proporzionale il partito da cui oggi soprattutto dipende che cosa
fare è il partito che ha perso rovinosamente le elezioni, cioè proprio il
Partito democratico. A proposito del quale si parla molto — a ragione — della
necessità che nelle sua fila (e dove altro se no?) inizi un processo di
ripensamento/ricostruzione della sinistra. Bene: ma è davvero pensabile che ciò
potrebbe avvenire se per avventura esso s’impegnasse in qualche forma di
collaborazione (sia pure «dall’esterno») con i 5 Stelle, come qualcuno
vorrebbe? È realistico credere che nel Pd qualcuno avrebbe mai la testa ai
problemi, alla storia e ai destini della sinistra, che ci potrebbe mai essere
l’esame o la discussione approfondita intorno a qualcosa, nel mentre che però
ogni giorno al suo interno nascerebbero inevitabilmente dubbi e polemiche sui
modi e i risultati della collaborazione di cui sopra, nel mentre che però ogni
giorno ci si dividerebbe tra «governisti» e «antigovernisti», ci si accapiglierebbe
sul che cosa fare l’indomani? Nelle situazioni d’incertezza e di crisi è
necessario decidere. Oggi l’Italia ha davanti a sé due strade: o quella di
aspettare, vedere, mediare, tentare un «governo di scopo», poi un altro «del
presidente», e poi ancora chissà che altro; oppure andare a votare fra tre
mesi. Solo votando si può sperare, almeno sperare, di decidere qualcosa.
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