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domenica 13 gennaio 2013

IL RITORNO A CASA DI BERSANI


Condivido pienamente la breve ricostruzione storica dell'"evoluzione" del PD, partendo dal progenitore, il PDS, fino all'attuale forte leadership Bersaniana, fatta dal Professore Angelo Panebianco nell'editoriale odierno del Corsera.
Del resto, per chi legge abitualmente il Camerlengo, non avrà difficoltà a ritrovare, nella parole scritte dall'illustre opinionista, considerazioni già lette nel "suo Blog".  Risale all'agosto 2011, oltre un anno e mezzo fa, il Post in cui scrivevo di ridare la "S" al PD... : http://ultimocamerlengo.blogspot.it/2011/08/delusione-bersani-ridate-la-s-al-pd.html .
Una sola osservazione al Professore. Questo ritorno alle origini ha avuto una vittima, che in quanto complice del suo carnefice non mi fa affatto pena, che è la Margherita e i suoi eletti ed elettori. Il Partito Democratico, nel progetto Veltroniano, doveva essere la fusione di due anime : quella della formazione di sinistra, che faticosamente aveva cercato di evolversi in senso socialdemocratico, con la parte più progressista e solidale del centro popolare. Insomma, l'unione dei reduci di  PCI e DC, in un'ideale incontro a metà strada nel cammino del primo verso il centro e della seconda verso sinistra. 
Gli "eredi" dei partiti storici della Prima Repubblica, i DS e la Margherita, più volti alleati sotto la bandiere elettorale di Prodi, si sposavano.
Il matrimonio, subito in sofferenza, è andato male. Il nome è rimasto, ma il PD oggi non è altro che il partito democratico di sinistra di ieri. Come giustamente commenta Panebianco.
Che aspettano, aggiungo io, i "traditi" del centro ad andarsene ? 
Resta poi il problema, ricorda in chisura il Professore, di come Bersani potrà conciliare le differeze non lievi tra ricette europee, in un'Europa dove la Merkel sembra destinata a regnare per altri 5 anni, e le ambizioni keynesiane (e oltre) di gente della solita triade Fassina, Vendola e Camusso ? 
Buona Lettura

BERSANI TRA PARTITO E GOVERNO
Poteri e difetti di una leadership


Tra tutte le risorse di cui dispone il Partito democratico in questa campagna elettorale, la sua ritrovata coesione interna, garantita dal saldo controllo esercitato da Pier Luigi Bersani, è la più importante. È come in guerra: l'esercito più coeso, guidato con mano ferma da un condottiero, ha più probabilità di vincere.

È anche per questo che, forse, la sfida principale sarà di nuovo fra il Pd e il Pdl, partiti che dispongono di condottieri saldamente al comando. Ma come non era scontato che Berlusconi riuscisse a ricompattare di nuovo le schiere del centrodestra, non era nemmeno scontato che Bersani riuscisse a dare coesione al proprio partito, un tempo diviso in gruppi in accanita concorrenza.

La storia del Pd degli ultimi anni è la storia della (ri)costruzione di una forte leadership. Una forte leadership è tale se riesce a rimotivare, restituendo loro una identità, gli iscritti e i militanti e se colui che la incarna è stato capace di indebolire gli altri maggiorenti del partito.

Sono stati almeno tre i momenti significativi di questo processo. Il primo è simbolicamente rappresentato dalla «foto di Vasto» (Bersani con Vendola e Di Pietro). Con quella mossa Bersani diede una risposta positiva alla richiesta che, evidentemente, saliva dal grosso dei militanti e degli iscritti: «Dicci qualcosa di sinistra».

Fu la presa d'atto che le ragioni fondanti del Partito democratico erano venute meno, che il Pd (D'Alema dixit) era «un amalgama mal riuscito». Il Pd era nato per rinnovare la tradizione della sinistra (la rottura con Rifondazione comunista decisa dall'allora segretario Walter Veltroni rispondeva a questa esigenza). Bersani prese atto del fallimento e mandò un chiaro segnale: il Pd sarebbe ritornato nell'alveo della tradizione. Ridare una marcata connotazione di sinistra al partito, in presenza di un evidente sbandamento e di una diffusa crisi di identità di iscritti e militanti, fu una mossa vincente. La base aveva finalmente trovato un leader pronto a ricostituire una identità collettiva.

Il secondo passaggio fu rappresentato da una intelligente politica di reclutamenti. Il segretario si circondò di collaboratori giovani e, per lo più, capaci. Giovani dirigenti che rispondono a lui e che solo da lui dipendono. Ciò ha rafforzato molto la posizione del segretario a svantaggio del potere di veto e del ruolo degli altri dirigenti storici.

Il terzo passaggio è rappresentato dalle primarie. Col senno del poi si può dire che Matteo Renzi, sfidando Bersani, e trasformando così le primarie, da rito un po' truffaldino quali erano state in passato, in primarie vere, ha dato al segretario una grande opportunità. Perché Bersani, vincendole, ha potuto rovesciare a proprio favore i rapporti di forza con il resto del gruppo dirigente. Si aggiunga il fatto (ma questo nessuno poteva allora immaginarlo) che, a primarie avvenute, la sfida di Renzi è stata rapidamente riassorbita.

Si noti che è la prima volta che un segretario conquista tanto potere nel maggior partito della sinistra dai tempi del Pci: con le sue diverse sigle (Pds, Ds) il partito postcomunista non era mai stato altrettanto compatto, data la divisione fra dalemiani e veltroniani.

Niente segnala meglio l'avvenuta ricostituzione di una forte leadership della rinascita, sotto nuove spoglie, dell'indipendentismo di sinistra. Esso ebbe una certa importanza ai tempi del Partito comunista. Segnalava la capacità del partito di attirare personalità di spicco, dell'accademia o delle professioni. A quelle personalità il Partito comunista chiedeva vivacità culturale e dipendenza politica. La vivacità era assicurata dalle qualità professionali che molte di quelle personalità possedevano. La dipendenza era inscritta nel fatto che il seggio su cui sedevano non era stato da loro conquistato in campagna elettorale, o comunque attraverso la lotta politica, ma concesso dal partito.

L'inserimento nel «listino», la cooptazione di diverse personalità di elevato valore professionale, e anche (con qualche eccezione) prive di legami formali con il Pd, da parte di Bersani, riflette la ricostituzione di una forte leadership. Anche da loro, ci si attenderà vivacità culturale (che ci sarà certamente date le competenze e le qualità professionali in campo) e stretta dipendenza dal segretario.

Un leader forte è come un direttore d'orchestra: gli altri suonano, chi meglio chi peggio, i diversi strumenti, ma è lui, e solo lui, che governa l'insieme.

Se Bersani vincesse le elezioni, come tuttora prevedono i sondaggi, e diventasse capo del governo, sommando premiership e guida del partito, si troverebbe in una posizione invidiabile, che non è mai stata in precedenza di alcun leader della sinistra. Ma si troverebbe anche a fronteggiare un delicato dilemma. Egli è diventato un leader forte perché ha saputo ridare una identità al suo partito. Questa identità ha una marcata connotazione di sinistra (le polemiche sulle posizioni di Stefano Fassina, sulla Cgil, su Vendola ne fanno fede).

Ma la forza così conquistata sarebbe sufficiente per consentirgli, come capo di un governo pesantemente condizionato dall'Europa e dai mercati, di infliggere ai propri sostenitori tutte le inevitabili delusioni senza con questo compromettere la propria leadership?

C'è da scommettere che in caso di sua vittoria sarà la prima domanda che molti, in Italia e fuori, si porranno.

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