Del resto, per chi legge abitualmente il Camerlengo, non avrà difficoltà a ritrovare, nella parole scritte dall'illustre opinionista, considerazioni già lette nel "suo Blog". Risale all'agosto 2011, oltre un anno e mezzo fa, il Post in cui scrivevo di ridare la "S" al PD... : http://ultimocamerlengo.blogspot.it/2011/08/delusione-bersani-ridate-la-s-al-pd.html .
Una sola osservazione al Professore. Questo ritorno alle origini ha avuto una vittima, che in quanto complice del suo carnefice non mi fa affatto pena, che è la Margherita e i suoi eletti ed elettori. Il Partito Democratico, nel progetto Veltroniano, doveva essere la fusione di due anime : quella della formazione di sinistra, che faticosamente aveva cercato di evolversi in senso socialdemocratico, con la parte più progressista e solidale del centro popolare. Insomma, l'unione dei reduci di PCI e DC, in un'ideale incontro a metà strada nel cammino del primo verso il centro e della seconda verso sinistra.
Gli "eredi" dei partiti storici della Prima Repubblica, i DS e la Margherita, più volti alleati sotto la bandiere elettorale di Prodi, si sposavano.
Il matrimonio, subito in sofferenza, è andato male. Il nome è rimasto, ma il PD oggi non è altro che il partito democratico di sinistra di ieri. Come giustamente commenta Panebianco.
Che aspettano, aggiungo io, i "traditi" del centro ad andarsene ?
Resta poi il problema, ricorda in chisura il Professore, di come Bersani potrà conciliare le differeze non lievi tra ricette europee, in un'Europa dove la Merkel sembra destinata a regnare per altri 5 anni, e le ambizioni keynesiane (e oltre) di gente della solita triade Fassina, Vendola e Camusso ?
Buona Lettura
BERSANI TRA PARTITO E GOVERNO
Poteri e difetti di una leadership
Tra tutte le risorse di cui dispone il Partito democratico
in questa campagna elettorale, la sua ritrovata coesione interna, garantita dal
saldo controllo esercitato da Pier Luigi Bersani, è la più importante. È come
in guerra: l'esercito più coeso, guidato con mano ferma da un condottiero, ha
più probabilità di vincere.
È anche per questo che, forse, la sfida principale sarà di
nuovo fra il Pd e il Pdl, partiti che dispongono di condottieri saldamente al
comando. Ma come non era scontato che Berlusconi riuscisse a ricompattare di
nuovo le schiere del centrodestra, non era nemmeno scontato che Bersani
riuscisse a dare coesione al proprio partito, un tempo diviso in gruppi in
accanita concorrenza.
La storia del Pd degli ultimi anni è la storia della
(ri)costruzione di una forte leadership. Una forte leadership è tale se riesce
a rimotivare, restituendo loro una identità, gli iscritti e i militanti e se
colui che la incarna è stato capace di indebolire gli altri maggiorenti del
partito.
Sono stati almeno tre i momenti significativi di questo
processo. Il primo è simbolicamente rappresentato dalla «foto di Vasto»
(Bersani con Vendola e Di Pietro). Con quella mossa Bersani diede una risposta
positiva alla richiesta che, evidentemente, saliva dal grosso dei militanti e
degli iscritti: «Dicci qualcosa di sinistra».
Fu la presa d'atto che le ragioni fondanti del Partito
democratico erano venute meno, che il Pd (D'Alema dixit) era «un amalgama mal
riuscito». Il Pd era nato per rinnovare la tradizione della sinistra (la
rottura con Rifondazione comunista decisa dall'allora segretario Walter
Veltroni rispondeva a questa esigenza). Bersani prese atto del fallimento e
mandò un chiaro segnale: il Pd sarebbe ritornato nell'alveo della tradizione.
Ridare una marcata connotazione di sinistra al partito, in presenza di un
evidente sbandamento e di una diffusa crisi di identità di iscritti e
militanti, fu una mossa vincente. La base aveva finalmente trovato un leader
pronto a ricostituire una identità collettiva.
Il secondo passaggio fu rappresentato da una intelligente
politica di reclutamenti. Il segretario si circondò di collaboratori giovani e,
per lo più, capaci. Giovani dirigenti che rispondono a lui e che solo da lui
dipendono. Ciò ha rafforzato molto la posizione del segretario a svantaggio del
potere di veto e del ruolo degli altri dirigenti storici.
Il terzo passaggio è rappresentato dalle primarie. Col senno
del poi si può dire che Matteo Renzi, sfidando Bersani, e trasformando così le
primarie, da rito un po' truffaldino quali erano state in passato, in primarie
vere, ha dato al segretario una grande opportunità. Perché Bersani, vincendole,
ha potuto rovesciare a proprio favore i rapporti di forza con il resto del
gruppo dirigente. Si aggiunga il fatto (ma questo nessuno poteva allora
immaginarlo) che, a primarie avvenute, la sfida di Renzi è stata rapidamente
riassorbita.
Si noti che è la prima volta che un segretario conquista
tanto potere nel maggior partito della sinistra dai tempi del Pci: con le sue
diverse sigle (Pds, Ds) il partito postcomunista non era mai stato altrettanto
compatto, data la divisione fra dalemiani e veltroniani.
Niente segnala meglio l'avvenuta ricostituzione di una forte
leadership della rinascita, sotto nuove spoglie, dell'indipendentismo di
sinistra. Esso ebbe una certa importanza ai tempi del Partito comunista.
Segnalava la capacità del partito di attirare personalità di spicco,
dell'accademia o delle professioni. A quelle personalità il Partito comunista
chiedeva vivacità culturale e dipendenza politica. La vivacità era assicurata
dalle qualità professionali che molte di quelle personalità possedevano. La
dipendenza era inscritta nel fatto che il seggio su cui sedevano non era stato
da loro conquistato in campagna elettorale, o comunque attraverso la lotta
politica, ma concesso dal partito.
L'inserimento nel «listino», la cooptazione di diverse
personalità di elevato valore professionale, e anche (con qualche eccezione)
prive di legami formali con il Pd, da parte di Bersani, riflette la
ricostituzione di una forte leadership. Anche da loro, ci si attenderà vivacità
culturale (che ci sarà certamente date le competenze e le qualità professionali
in campo) e stretta dipendenza dal segretario.
Un leader forte è come un direttore d'orchestra: gli altri
suonano, chi meglio chi peggio, i diversi strumenti, ma è lui, e solo lui, che
governa l'insieme.
Se Bersani vincesse le elezioni, come tuttora prevedono i
sondaggi, e diventasse capo del governo, sommando premiership e guida del
partito, si troverebbe in una posizione invidiabile, che non è mai stata in
precedenza di alcun leader della sinistra. Ma si troverebbe anche a
fronteggiare un delicato dilemma. Egli è diventato un leader forte perché ha
saputo ridare una identità al suo partito. Questa identità ha una marcata
connotazione di sinistra (le polemiche sulle posizioni di Stefano Fassina,
sulla Cgil, su Vendola ne fanno fede).
Ma la forza così conquistata sarebbe sufficiente per
consentirgli, come capo di un governo pesantemente condizionato dall'Europa e
dai mercati, di infliggere ai propri sostenitori tutte le inevitabili delusioni
senza con questo compromettere la propria leadership?
C'è da scommettere che in caso di sua vittoria sarà la prima
domanda che molti, in Italia e fuori, si porranno.
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