Su Internet, si sa, i freni inibitori calano. Dietro al PC ci si sente invulnerabili. Anche più belli e sicuri di sé. Tanto, chi ci vede ? E così nei siti d'incontri come Meetic e altri, le "truffe" corrono a go go, con foto minimo di dieci anni fa, quando non addirittura ritoccate col photo shop. Ci sono anche quelli/e che mettono su foto false. Ah, succede anche su FB. Qualche volta sempre con intento truffaldino, altre in uno spirito più da "second life". Almeno in Rete sogno di essere come mi sarebbe piaciuto : alto, atletico e irresistibile !
Ma fin qui, sono tutto sommato cose innocenti, prima o poi destinate semmai ad essere smascherate (anche se ho letto un bel libro dove una ragazzina di 16 anni, che aveva corteggiato il giovanotto più grande di cui era innamoratissima via web, era precipitata in depressione alla normale richiesta di lui : "beh, incontriamoci !" ). Diverso è il discorso di chi dietro la rete s'inventa Leone, mentre invece più spesso è un povero co....
E qui il discorso riguarda un ESERCITO.
Eh sì perché il confronto in Rete, tramite i social network ma non solo, vede l'educazione, il rispetto, la tolleranza, scendere a livelli sub animale. Una cosa imbarazzante.
Nella vita normale ci può capitare di incontrare che so, un cafone su 10 , e già oserei dire che dovremmo cambiare ambiente, o selezionarlo meglio. Sulla rete le cose vanno molto peggio, sia in quantità ma anche in "qualità".
Da cosa dipende ? Varie spiegazioni ma tra queste sicuramente la sicurezza dell'impunità. Chi ci tocca da dietro il PC ?
La cosa non è poi del tutto vera. Le leggi, contro diffamazione, ingiurie, minacce, valgono sempre. Non è che FB, Twuitter e altro siano zone franche. Certo, può essere più rognoso risalite all'autore della condotta illecita, ma nemmeno poi tanto, specie se, come avviene più spesso, il vigliaccotto che si nasconde dietro lo schermo è del tuo stesso paese (già qualche complicazione in più, come si può intuire, accade se la cosa avviene tra soggetti di stati diversi, e questo sia logisticamente che magari per differenza di procedure).
Da noi la polizia statale ha il suo bel da fare da un po' e i funzionari dicono che, nella maggior parte dei casi, chi insulta, offende o peggio, è uno sprovveduto, che pensa di essere l'uomo invisibile, e invece non è così.
Buona cosa.
Da leggere l'articolo sul tema di Federica Colomba, dall'inserto LA LETTURA del Corsera.
http://lettura.corriere.it/la-diffamazione-con-un-retweet/
Immagini oscene,
frasi volgari e un invito: «Picchiala!». L’obiettivo del gioco online dedicato
ad Anita Sarkeesian, femminista e blogger americana, è esplicito: colpirla in
volto per farle scontare la «colpa» di aver lanciato sulla piattaforma di
raccolta fondi Kickstarter il progetto Tropes vs Women, indagine sulla violenza
contro le donne nei videogame. Anita, però, più che dollari, online ha racimolato
offese. Per le quali i detrattori della blogger potrebbero essere accusati di
diffamazione, incitamento all’odio, minaccia. «Come se — scrive la giornalista
Ally Fogg — un esercito di persone avesse aggredito una donna perché ha
manifestato la propria idea in un luogo pubblico». È sempre più difficile
bilanciare tutela del diritto e libertà d’espressione online. Perché in Rete si
può commettere un reato con più leggerezza: basta uno status, un tweet, la
condivisione di una immagine provocatoria. La legge, però, non ammette
ignoranza. Né per strada, né su Facebook. Frank La Rue, Special Rapporteur per
la promozione della libertà di espressione delle Nazioni Unite, si ispira alla
vicenda di Anita Sarkeesian per ammonire: «L’incitamento all’odio trova terreno
fertile in Internet». Ma, scrive nella recente relazione sul tema, «pur
rilevando l’importanza di leggi chiare conformi ai principi internazionali, si
sottolinea la centralità di misure di natura non normativa per affrontare le
cause all’origine del fenomeno». Insomma: l’hate speech — l’espressione di
opinioni violente spesso di natura razziale, come quelle provocate dalla
rielezione di Obama — è twittato e ritwittato, ma norme più severe non servono.
Finirebbero per imbrigliare la libertà degli utenti dei social network, senza
risolvere il problema.
«La Rete è un luogo di libera azione, è pericoloso prevedere
norme specifiche — spiega Massimo Farina, docente di Diritto dell’informatica e
delle nuove tecnologie all’Università di Cagliari —. Si punisce la condotta,
l’offesa per esempio, ma non il mezzo con cui è realizzata. I provider come
Facebook, Google Plus — continua — devono restare senza particolari
responsabilità. Altrimenti sarebbero sceriffi diffusi, con funzioni di polizia,
quando sono soggetti privati: non è nella loro natura perseguire l’interesse
pubblico».
Stessi crimini, quindi, e stesse norme, offline e online.
Anche perché i reati contro la persona commessi online sono comunissimi: «Nel
2012 abbiamo ricevuto 2.280 denunce per furto di identità digitale, — racconta
Sabrina Castelluzzo, responsabile sezione crimini informatici della polizia
postale —1.064 per diffamazione, 232 per ingiuria, 121 per minacce sui social
network, 171 per molestie, 25 per stalking. Il reato più diffuso è il furto di
identità, un crimine-mezzo, serve a compierne altri. Se rubo i dati di un
venditore affidabile su eBay, per esempio, posso usarli per commettere truffe.
Il meccanismo è quello del furto dei documenti». Con qualche differenza: in
Rete non c’è compresenza e saltano anche i confini nazionali. Quale
ordinamento, quindi, si applica?
«Quello del posto in cui il reato si è verificato — risponde
Farina —. Online è difficile, però, individuarlo: il punto di riferimento è a
volte la sede del provider, a volte dove si trova il soggetto offeso». Che ha
sempre un nome, a differenza di chi lo denigra e si protegge dietro a un nick:
«L’anonimato, però, — spiega Guido Scorza, avvocato e presidente dell’Istituto
per le politiche dell’innovazione — deve restare una scelta del singolo, che se
ne assume le conseguenze. Al di là dei casi dei dissidenti politici e dei
regimi meno democratici, che meritano un discorso a sé, l’evoluzione ottimale è
l’anonimato protetto: posso accedere su Twitter come Peter Pan e fare ciò che voglio.
Ho diritto a una identità digitale non corrispondente a quella anagrafica, ma
proprio perché rivendico l’esercizio di una libertà devo affidare le seconde
identità a una anagrafe pubblica». Perché senza nome si perdono i doveri, ma
anche i diritti. Un tema su cui non c’è consapevolezza. Soprattutto tra i più
giovani.
«I nativi digitali — racconta Farina — non percepiscono i
rischi dei social network. Quando — per provocare gli studenti — chiedo loro di
darmi una foto, con la promessa di non duplicarla e di farla vedere al pub a
quattro amici, si rifiutano. La stessa immagine però viene pubblicata su
Facebook senza pensare alla privacy ». Un’azione che proviene dalla sensazione
di libertà che porta a usare con leggerezza un linguaggio volgare e offensivo.
Lo dimostra l’indagine Teenagers, Legal Risks and Social Networking Sites,
realizzata nel 2011 dalla Monash University di Melbourne, secondo cui tra gli
studenti è poco diffusa la percezione dei limiti di comportamento e dei rischi
connessi alla vita online. Il 94,9% dei 1.004 studenti intervistati afferma di
avere un profilo attivo su almeno un social network, e se la maggioranza lo
aggiorna quotidianamente, solo la metà, il 48,8%, riconosce la possibilità di
rischi di natura legale, mentre il 19,6% li ritiene addirittura irrilevanti,
perché «si fa in Rete — riportano gli autori della ricerca — quello che tutti
fanno». Anche usare termini osceni e postare frasi esplicite, senza
preoccuparsene. Lo stesso atteggiamento, però, è meno frequente tra i genitori,
più preoccupati di quello che avviene sul profilo Facebook dei figli. «Noi
immigrati digitali — spiega Farina — abbiamo avuto la necessità di
alfabetizzarci. Al nativo digitale, invece, manca questa educazione. Non cerca
un termine di paragone con la realtà empirica, non compie uno sforzo di
comprensione. Eppure — conclude — si possono subire conseguenze legali anche
per un retweet».
È accaduto a chi ha contribuito a diffondere l’accusa di
pedofilia, poi rivelatasi falsa, nei confronti di Lord Alistair McAlpine,
notabile del partito conservatore inglese. Secondo i suoi avvocati circa mille
persone, a seguito di un servizio della Bbc che lo accusava ingiustamente e per
il quale George Entwistle, direttore generale, si è dimesso, hanno twittato la
notizia; 9.000 utenti l’hanno ritwittata. Tutti autori dello stesso reato: concorso
in diffamazione. I cui caratteri tipici sono sempre gli stessi: «Veridicità,
contenuto, registro stilistico — spiega Guido Scorza —. Un parametro che, però,
in Rete può cambiare. Twitter, per esempio, permette di circoscrivere la
cerchia di chi legge. Con la chiocciola seleziono gli interlocutori, con il
cancelletto partecipo a un dibattito pubblico. Il gruppo dei follower non è
però come la tavolata al ristorante. Quello che posso ottenere, sul piano della
giurisprudenza, se restringo la conversazione, è la tolleranza rispetto al
registro linguistico». In 140 caratteri anche il presidente del Consiglio si
chiama per nick. «Chi dice arbitro cornuto allo stadio non viene querelato —
conclude Scorza —, online vale la stessa regola: c’è più confidenza».
Se, insomma, le leggi già esistono, se Twitter, Facebook e
Google Plus hanno pensato norme per la privacy, sono gli utenti, spesso, a
perdere i freni inibitori. E a comportarsi come se fossero in auto, con i
finestrini spalancati, in mezzo alla strada. Si mettono con noncuranza le dita
nel naso, mandano a quel paese il capo. Tutti li sentono. Perché uno status
lascia sempre traccia. In Rete come in tribunale.
Twitter @fedecolonna
Federica Colonna
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