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lunedì 18 dicembre 2017

800 MILIONI DI DISOCCUPATI NEL MONDO DEI ROBOT ? BE' , C'è IL REDDITO DI CITTADINANZA ! O MAGARI NON BASTA...?

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Leggo sempre Alessandro Fugnoli. Adoro come scrive e ammiro la sua cultura poliedrica e la sua capacità, ereditata - ma grandemente affinata  - dal suo collega e maestro Giuseppe Turani, di rendere intellegibile e anche interessante (addirittura divertente talvolta) le cose di economia e finanza.
Il racconto di oggi è tra i più suggestivi, e anche un po' preoccupanti, di questi ultimi tempi.
Il personaggio di Fugnoli, mister K. , è angustiato al pensiero del mondo che verrà, che immagina, anche a causa dell'automazione crescente, pieno di disoccupati. Pensa - spera ? - anche che si sarà ormai affermato il cd. reddito di cittadinanza, per cui ti stipendiano solo che esisti, e la gente avrà di che vivere (ma si accontenterà quella gente ? c'è da dubitarne) . Però queste folle di nullafacenti come passeranno il tempo ? Senza contare che avere il tempo impegnato nel lavoro favorisce anche il contenimento delle spese, per chi ha qualche soldo (meno tempo per spendere) , e diminuisce la frustrazione (di chi invece di soldi ne ha pochi, e ha meno risorse per trascorrere il tempo libero).
Per essere nullafacenti bisogna essere ricchi, come ben sapevano i nobili delle epoche passate, per i quali lavorare era assolutamente impensabile e altamente disdicevole. 
Gli intellettuali come Cacciari, o i filantropi ottimisti come Keynes, immaginano un'umanità che dedica l'infinito tempo libero alle arti e alla cura di sé (in fondo non devi per forza pagare una palestra, puoi correre in un parco ! certo, ti devi comprare le scarpe da running, ma da Dechatlon le trovi a buon mercato...) e dei propri cari, ma la fanno troppo facile e mister K. giustamente si preoccupa.  Si consola pensando che da un lato il fosco futuro che paventa si realizzerà più lentamente di come gli osservatori più pessimisti ipotizzano e dall'altra che magari, come accaduto in passato (si pensi all' 800 e al fenomeno dell'industrializzazione, con l'avvento delle macchine che già allora falciarono i posti di lavoro degli operai) , gli esseri umani troveranno nuove attività in cui impegnarsi ed essere remunerati. 
Che dire ? Sperem ! 
Buona Lettura 





I FUNGHI


Racconto di una notte difficile


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di ALESSANDRO FUGNOLI 

Forse era colpa del vino e dei brindisi. O forse era per via di quei funghi nel riso. Fatto sta che il gestore di patrimoni K. rientrò a casa con la testa che girava e la sensazione di essere avvolto nella nebbia.
La serata era stata festosa. Si celebrava la chiusura di un anno tranquillo e positivo per azioni, bond, euro, quadri, immobili, beni da collezione, criptovalute e tutto quello che poteva venire in mente come bene d’investimento. L’atmosfera era stata la più rilassata che K. potesse ricordare non solo perché il mondo cresceva senza inflazione ma anche perché questa situazione di perfezione tranquilla era vista da tutti come ormai naturale e non eccezionale. Tanto naturale da non potere che proseguire non solo nel prossimo anno, ma anche in quelli successivi, magari ulteriormente migliorata e arricchita dalla riforma fiscale americana, da una maggiore integrazione europea attraverso l’asse Macron-Merkel che non vedeva l’ora di mettersi in azione e da un’economia asiatica in piena fioritura.
Sprezzatura, la definiva K. dentro di sé. Sprezzatura era quell’arte così apprezzata nel Rinascimento di fare con grazia e levità cose difficilissime che avevano in realtà richiesto un lungo e faticoso tirocinio. Economia e mercati finanziari giravano su un piano levigato senza strepiti, clangori o cigolii, ma dietro questa perfetta armonia c’era il duro lavoro degli ufficiali di macchina delle banche centrali, che procedevano con carte nautiche invecchiate e strumenti di misurazione logori come la curva di Phillips e in mezzo a mille dubbi.
Sono stati bravi, niente da dire, pensò K. Hanno avuto anche fortuna e in più si sono coperti le spalle tenendo la liquidità sovrabbondante e mantenendo ben lubrificati tutti gli ingranaggi. E però, prima o poi, qualche errore lo faranno. La Fed, ad esempio, non riuscirà a non alzare i tassi oltre il livello neutrale. Se infatti l’economia continuerà ad andare bene, come ci diciamo tutti dalla mattina alla sera, la banca centrale cercherà magari di temporeggiare e di saltare un trimestre ogni tanto, ma alla fine non potrà  fare violenza alla sua natura e restare a guardare passivamente. E allora sarà come la roulette russa. Uno, due, tre rialzi nel 2018 andranno a vuoto e l’economia reggerà, ma il quarto, quinto o sesto rialzo rischieranno seriamente di mettere fine all’espansione e avviare una recessione. È sempre stato così, prima o poi si sbagliano i conti, si fa un rialzo di troppo e l’economia, che fino a quel momento andava benissimo, si affloscia all’improvviso.
Vedremo, pensò K. sciogliendo nel bicchiere un antiacido, ma i cattivi pensieri non lo abbandonarono. Magari non fanno quell’errore, ma quello opposto di lasciare correre la crescita senza frenarla in tempo prima che si trasformi in inflazione. È bella la crescita ed è ancora più bello sentirsene gli autori come sta capitando in questo periodo ai banchieri centrali, che se ne vanno in giro con quell’aria compiaciuta e quasi euforica. È bello fare contenti i politici, che a loro volta si fanno belli di qualunque dato positivo, e non avere pressioni da loro. Ed è quasi inevitabile tentare di placare la rabbia dell’opinione pubblica dopo il 2008 cercando di crescere il più possibile.
Il problema è che di rado, nella storia, ci si è fermati in tempo. Negli anni Sessanta si pensò di potere crescere senza inflazione per sempre e di potere finanziare la guerra nel Vietnam e la guerra alla povertà senza conseguenze negative. Si era talmente convinti di essere invulnerabili che quando l’inflazione cominciò davvero a salire velocemente i mercati obbligazionari non vollero crederci e andarono lunghi di scadenze lontane pensando che l’inflazione sarebbe rientrata velocemente. Non fu così, e i poveri governatori della Fed degli anni Settanta, bombardati da telefonate notturne dalla Casa Bianca che intimava loro di non sognarsi di alzare i tassi, assistettero impotenti al montare dell’inflazione e si fecero venire crisi d’ansia ed esaurimenti nervosi mentre i corsi dei titoli di stato erano in caduta libera.
Si tira sempre troppo la corda, pensò K. Il peso allo stomaco si era fatto insopportabile, ma per fortuna stava finalmente arrivando il sonno. L’ultima cosa che K. vide da sveglio, mentre le palpebre si abbassavano, fu lo studio di McKinsey sul tavolino davanti al divano da cui non riusciva più ad alzarsi. E proprio da quello studio partì il suo sogno. K. si ritrovò così nel futuro prossimo, in quel 2030 in cui, secondo McKinsey, i disoccupati causati dall’automazione nel mondo nei dodici anni precedenti sarebbero stati tra i 400 e gli 800 milioni. Va detto che nel sogno tutti erano comunque tranquilli, perché il salario di cittadinanza copriva tutte le necessità di base e anche qualcosa di più.


Mentre K. passeggiava su una strada percorsa da auto che si guidavano da sole, su uno schermo gigante compariva il filosofo Massimo Cacciari, che K. aveva visto in televisione qualche settimana prima, che teorizzava come positiva, sulla base del Marx giovane, la liberazione dal lavoro grazie alla ricchezza prodotta dalle macchine. Ora finalmente, diceva il filosofo, chi vuole può dedicarsi all’ascolto di Mozart o alla composizione di poesie. Anche Keynes, del resto, aveva previsto e salutato un futuro di questo tipo.
Guardandosi in giro, tuttavia, le poche persone in cui si imbatteva erano impegnate in videogiochi piuttosto insulsi o erano sotto l’evidente influenza di sostanze psicotrope o entravano o uscivano da centri massaggi. Gli unici esseri umani che apparivano presenti a se stessi erano quelli che si recavano al lavoro nei grattacieli futuristici delle grandi società che producevano l’intelligenza artificiale, che a dire il vero stava cominciando a prodursi e riprodursi da sola. C’era insomma una casta di grandi sacerdoti della tecnologia, intelligentissimi, ricchi e sinceramente dediti al benessere dell’umanità, e poi c’erano quelle che Toni Negri aveva definito anni prima le moltitudini indifferenziate, le plebi che nella Roma imperiale erano mantenute dalle pubbliche elargizioni e che venivano poi intrattenute da sontuosi spettacoli circensi.
Da appassionato di storia, K. sapeva che il confine tra utopia e distopia è incerto e poroso, ma aveva la netta sensazione di trovarsi in una situazione distopica, anche perché il suo lavoro di gestore di patrimoni era diventato nel frattempo facile, ma anche molto ansiogeno.
I 400-800 milioni di nuovi disoccupati (solo in piccola parte compensati dai nuovi assunti nella tecnologia) avevano infatti provocato la fine definitiva dell’inflazione salariale. Chi aveva un lavoro vedeva ogni giorno qualche collega scortato all’uscita con lo scatolone delle sue povere cose e l’ultima cosa che gli passava per la testa era di chiedere un aumento di stipendio. Il collega licenziato cercava di inventarsi qualche attività nei servizi, ma la concorrenza era così ampia che il reddito finale era quasi allineato con il salario di cittadinanza. I grandi sacerdoti della tecnologia, dal canto loro, erano pagati in azioni e le azioni continuavano a salire, perché i bond erano ormai da due decenni inchiodati su rendimenti vicini allo zero e i multipli azionari continuavano a gonfiarsi.
I gestori di patrimoni, e i loro clienti, si trovavano quindi nella difficile condizione di dovere scegliere tra obbligazioni senza rendimento e azioni sempre più care e rischiose.
Quando K. si risvegliò affannato, una pallida luce filtrava già dalla finestra. Con l’aiuto di un potente caffé ripensò al sogno, ancora vivo nella memoria. McKinsey (Jobs Lost, Jobs Gained, dicembre 2017) esagerava, si disse. L’intelligenza artificiale e l’automazione erano davvero sul punto di cambiare il mondo, ma questo cambiamento non avrebbe comportato la perdita immediata di così tanti posti di lavoro. Ci sarebbe stata una lunga fase intermedia in cui l’intelligenza artificiale sarebbe comunque stata sorvegliata o affiancata da un umano. Politici in cerca di spazio, come stava già accadendo a San Francisco, avrebbero proposto leggi e referendum contro l’uso dei robot in una professione dopo l’altra. La discesa numerica della forza lavoro, dovuta al calo demografico globale, avrebbe in parte compensato la minore domanda di lavoro da parte delle imprese. La pubblica amministrazione sarebbe stata usata per creare posti di lavoro certamente improduttivi, ma utili per la pace sociale.
Tutto sarebbe stato lento e complicato ma l’effetto sul costo del lavoro tradizionale sarebbe comunque stato depressivo. Anche il lavoro di K. sarebbe stato presto accessibile a un programma di intelligenza artificiale, ma i clienti avrebbero comunque apprezzato la supervisione di un umano.
Ogni giorno ha la sua croce, pensò K. Non ha senso preoccuparsi più di tanto per un futuro che gradualmente impareremo ad affrontare. Nel breve termine, poi, il quadro dei mercati appare tranquillo. Certo, nel 2019 cominceremo a correre qualche rischio (rialzo dei tassi globale, diminuzione della base monetaria, perdita di slancio del ciclo economico) ma per il 2018 quello che si profila è un modesto deterioramento del trade off tra inflazione e crescita. Ci potrebbe cioè essere un po’ meno crescita, soprattutto in Cina, e un po’ più di inflazione, ma solo, eventualmente, in America.

La nottata, in ogni caso, non sarà stata inutile. Una verifica periodica delle condizioni strutturali e dei problemi che queste si portano dietro sarà comunque utile a storicizzare questo periodo relativamente felice e a non farci pensare incautamente che sarà eterno. 

martedì 3 ottobre 2017

PROVOCAZIONE : ISTITUIAMO REFERENDUM ESPULSIVI

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I leader indipendisti catalani, Mas ieri, Puigdemont oggi, non mi sono simpatici e quando parlano mi convincono poco. Del referendum catalano mi insospettisce poi la formula : nessun quorum di partecipazione, nonostante l'assoluta gravità della decisione in ballo.
Sospetta questa cosa da parte di chi è convinto di rappresentare la stragrande maggioranza dei catalani no ? 
L'obiezione è che chi non va a votare delega di fatto la sua decisione ai votanti. Non è così manco nei condomini, figuriamoci quando si decide il destino di una Nazione. 
Poi c'è la questione della palese illegalità, e non parlo di leggi dello stato, che possono cambiare in ragione delle maggioranze sempre mutevoli, ma della Costituzione, vale a dire la Carta fondativa dei principi che regolano (o dovrebbero farlo) la convivenza di una comunità. 
Ebbene, lo sappiamo, la Costituzione spagnola, valida anche per la Catalogna, stabilisce un principio peraltro banale e comune in tutte le costituzioni : l'indissolubilità della Nazione.
Ma Madrid ha scelto la repressione per impedire che la gente votasse, invece di limitarsi a sostenere che il voto non sarebbe stato comunque valido...
Potevano farlo, certo, e sarebbe stato meglio probabilmente. 
Però un dubbio mi viene.  La legge italiana proibisce i raduni pubblici senza previa autorizzazione. La gente può manifestare, ma ci sono delle regole da seguire, per motivi vari di ordine pubblico.
Mettiamo - e succede, avoglia - che migliaia di persone ignorino queste regole, e senza alcuna autorizzazione, occupino una piazza. Che dovrebbe fare la polizia ?
Li invita a sgomberare giusto ? Loro non lo fanno. 
Ah vabbé, se non lo fanno, rimandiamo i poliziotti a casa, che mica si può usare la violenza...
Certo, vedere picchiare dei civili inermi, come in qualche immagine proveniente da Barcellona si vede, non fa una bella impressione.  Immagino però che non sempre gli aspiranti elettori, di fronte a dei cordoni che provavano a impedire l'accesso alle urne, siano stati pacifici.
E comunque, manganellate e proiettili di gomma no, ma idranti ?
Due opinionisti che stimo molto (il primo di più), Mauro Anetrini (in realtà avvocato di professione, ma le sue riflessioni in generale sono sempre preziose) e Davide Giacalone, hanno fatto la medesima riflessione provocatoria : sarebbe legale un referendum promosso al fine non di separarsi dallo Stato Centrale, ma per espellere una regione dallo stesso ? 
Mauro cita il piccolo Molise, secondo me per tenere buoni gli spirti più agitati, ma certe divisioni tra Nord e Sud in Italia sono ancora molto vive, specie ora che non c'è più il benessere diffuso a tenere tutti di buonumore...
Davide Giacalone aggiunge una giusta riflessione su quella che chiama Urnocrazia, associata alla parimenti patologica urnolatria...termini inventati per indicare il mito del voto come panacea di ogni problema. Il voto, in democrazia, sicuramente è uno strumento fondamentale, ma non è una divinità di per sé.   
Anche perché buon senso suggerisce che su certe materie il voto referendario sia difficilmente ammissibile ( e infatti da noi non lo è), e mi riferisco alla materia fiscale.
Ve lo immaginate un referendum che stabilisse di abolire le tasse ? E lo dice uno che l'agenzia delle entrate la detesta...però mi rendo conto - e tanti insieme a me - che in una società complessa una certa forma di tassazione, per determinate materie, è necessaria. Da liberale, queste materie sono poche, e i livelli di tassazione non dovrebbero superare il 30% - massimo - del guadagno di una persona. Ebbene, nemmeno un referendum "propositivo" di questo tipo sarebbe pensabile.
Tutto quanto sopra, mostra il mio sostanziale sfavore per la causa Catalana, con però una riserva, già espressa nel post di ieri ( https://ultimocamerlengo.blogspot.com/2017/10/quanto-accade-in-spagna-conferma-non-ci.html ) : se veramente 2.600.000 catalani (in Catalogna in tutto sono 5 milioni, giù di lì) volessero l'indipendenza, sarebbe giusto (non legale : lo è) negargliela ? 
E poi, come si fa ? Vedete quello che è successo a Barcellona, con scontri tra polizia spagnola e i vigili del fuoco che presidiavano i seggi, con i Mossos, la polizia catalana, che si è rifiutata di eseguire gli ordini del prefetto ? Una cosa del genere, prolungata, porterebbe a violenze ben maggiori di quelle viste domenica. Se un domani le due polizie si scontrassero, se ci scappasse il morto ? 
I catalani evocano il franchismo, ma non sanno di cosa parlano, e del resto, la guerra civile spagnola si concluse nel 1939, durò 4 anni e vide centinaia di migliaia di vittime, di cui i civili rappresentarono la netta maggioranza rispetto ai combattenti. 
Un orrore che, per alcuni storici, spiegò (insieme ovviamente alla neutralità della Spagna rispetto alla guerra mondiale) la sopravvivenza del franchismo alla caduta degli altri fascismi europei : finché fossero state prevalenti le generazioni che avevano vissuto quel'eccidio fratricida, nessuno in Spagna avrebbe avuto il coraggio di rischiare una nuova guerra civile. 
Quelle generazioni oggi non ci sono più, eppure è impensabile che la civilissima Spagna (Catalogna compresa), paese comunque importante dell'Europa moderna, possa piombare in un baratro simile alla ex Yugoslavia. 
Però, se un compromesso non si trova, e nessuna delle due parti cede, come si sistema 'sta cosa ? 

Di seguito, propongo i due interventi di Anetrini e Giacalone 
Buona Lettura 


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Stavo pensando a un paradosso. Com'è noto, i paradossi possono tornare utili per misurare la tenuta di teorie e verificarne il limite di praticabilità.
Il paradosso è questo. Chissà che cosa diremmo se oggetto di referendum fosse non già l'indipendenza della Catalogna, ma la sua espulsione dalla Spagna. Un referendum nel quale, per iniziativa degli spagnoli, si ponesse la seguente domanda: volete voi che la Catalogna sia cacciata fuori dal Regno?
Naturalmente, anche ai Catalani sarebbe consentito di esprimersi.
Sarebbe illegale questo stravagante referendum? Non lo so; anzi:
forse no, visto che la Costituzione protegge l'indivisibilità della nazione, ma non la sua riduzione deliberata in conformità a Costituzione o sulla base di una revisione costituzionale. 
Sarebbe giusto? Dipende: qualcuno, magari un bel po' di catalani, potrebbe prenderla male. Non è bella cosa essere cacciati di casa.
E' un po' come se qui da noi qualcuno decidesse di escludere il Molise dalla Repubblica italiana e chiamasse tutti al voto. 
Si può fare.
Secondo me, con una buona campagna elettorale, si può vincere, trasformando i molisani in apolidi. Perchè dobbiamo essere solidali con loro? Noi – le altre Regioni – produciamo di più e sosteniamo il Molise. Ora basta. Ci siamo stufati. Se ne vadano per conto loro.
Mi sembra che funzioni. Legale e democratico.
Peccato sia solo un paradosso.



Urnolatria & urnocrazia
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Il pasticcio catalano, impastando la demagogia indipendentista e la spropositata reazione del governo, pone due problemi a tutti: la gestione dei separatismi e delle consultazioni popolari. La loro portata è generale, non solo ispanica. Anticipo la conclusione: con il diffondersi dell’urnolatria, nella sciocca supposizione che tutto possa essere governato con l’urnocrazia, la democrazia non trionfa, ma tonfa.
Tre brevi premesse. 1. I separatismi, in Unione europea, sono europeisti. Quei separatismi sono l’opposto dei nazionalismi sovranisti. La cosa curiosa, in Italia, è che una forza nata come separatista, evolutasi in federalista, la Lega, è poi divenuta nazionalista. Da un opposto all’altro. I separatismi sono europeisti ed euristi (cultori dell’euro) perché solo dentro un più ampio e omogeneo contenitore possono sostenere le loro posizioni. Fuori da quello sarebbero sciocchezze allo stato puro.
2. Chi punta alle urne referendarie, per far valere la secessione, abbraccia la tesi secondo cui se c’è un pronunciamento popolare, essendo il popolo sovrano, nulla può fermare un tale trionfo della democrazia. Confondere le urne con la democrazia è una colpevole leggerezza. Si votava in regimi che non erano affatto democratici, come le repubbliche socialiste europee, poi a furor di popolo abbattute non appena l’impero sovietico crollò. Il voto e la democrazia vanno a braccetto quando si rispettano le regole del diritto. Ad esempio: è sano e democratico l’articolo 139 della nostra Costituzione, che esclude si possa cambiare la natura repubblicana del nostro Stato. E se il popolo volesse la monarchia? Dovrebbe organizzare il colpo di Stato, perché la Costituzione esclude (giustamente) tale possibilità.
3. Tutti i separatismi hanno appigli nella storia. Quello catalano fa appello al 1714. Ma da noi, punto da tenere a mente per il proseguo, il Regno delle due Sicilie è finito dopo. Roma divenne capitale dopo essere stata espugnata in armi, nove anni dopo l’Unità d’Italia (1861). Se si prende questo andazzo si può sperare nel ritorno di Napoleone, sempre che non risorga prima Carlo V (il tema della Scozia è diverso, perché è Nazione costitutiva del Regno Unito).
Con queste premesse, si pongono due problemi: l’atteggiamento delle istituzioni europee e la legittimità dei referendum. A. Come al solito, non sapendo che altro dire, anche in occasione del guaio catalano s’è sentito: le istituzioni europee (solitamente dicono “l’Europa”, segno già evidente di confusione mentale) sono state latitanti. Non è vero, perché, in casi diversi, hanno ripetuto: l’essere oggi parte dell’Unione europea non comporta, in caso di separazione, un diritto a rimanerne componenti. E’ una posizione molto forte, proprio perché i separatismi seri sono tutti europeisti. Tale posizione s’è indebolita nel caso della Scozia, ma perché è l’unità regnante di cui fanno parte che ha deciso di uscire dall’Ue. Posto che i separatismi ce l’hanno principalmente, per non dire esclusivamente, con i governi nazionali, dire o fare qualche cosa di più significherebbe mettere i piedi nel piatto degli affari interni. Considerato che a lamentarsi sono quelli che ritengono l’Ue già troppo invadente, ecco un ulteriore segno di rarefazione del raziocinio.
B. A stabilire la legittimità dei referendum sono le relative legislazioni nazionali. Quelli in programma in Lombardia e Veneto, ad esempio, sono regolari e previsti dalla Costituzione (sempre dalla pessima riforma del 2001, voluta da una sinistra cieca e irresponsabile). Comunque non solo sono consultivi, ma presuppongono la conferma dell’Unità nazionale. In pratica Lombardia e Veneto vorrebbero diventare come la Sicilia. Auguri. Ma mettiamo di volere superare l’ostacolo della legittimità interna, che in Catalogna era certa illegittimità. C’è una legittimità ideale? Manca. Primo: come si stabilisce chi ha il diritto di voto? Solo quelli che vogliono andare via, o anche gli altri? Roma potrebbe ricacciare i bersaglieri e, con il sostegno dei romani, chiedere d’essere ricompresa nello Stato Vaticano? Voterebbero solo i romani, o anche gli italiani che hanno in Roma la capitale? Secondo: quale è il limite spaziale per organizzare la consultazione? Regionale, provinciale, comunale, di quartiere, d’isolato, di condominio? Nella storia si possono trovare appigli per tutte queste possibilità. Chi stabilisce dove ci si ferma? Terzo: se il popolo è sovrano nel disporre di volere andare via è sovrano anche nel cacciare. Si potrebbe organizzare un referendum contro Roma capitale, invitando gli italiani a votare affinché l’Urbe sia posta fuori dalla Repubblica e riconsegnata al papa? Sono solo i siciliani a potere votare per la loro indipendenza, o anche gli italiani per liberarsi della Trinacria? Sempre sovranità del popolo sarebbe.
Starete pensando: questo è pazzo. Può darsi, ma forse è folle supporre che votare basti a dire che sovranità e democrazia trionfino. Il culto dell’urna, l’urnolatria, il supporre che votando possano affrontarsi questi problemi, l’urnocrazia, sono malattie dell’animo democratico. Covanti fra gente che s’è dimenticata cos’è la democrazia, avendola ricevuta in dono dalla storia e non avendo mai speso non dico una lacrima, ma una goccia di sudore, non dico per difenderla, ma anche solo per capirla.

martedì 21 marzo 2017

IN OLANDA NIENTE PREMIO DI MAGGIORANZA. RUTTE COL 21% DOVRA' CERCARE ALLEANZE. PERO' E' CONTENTO LO STESSO.

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Qualche giorno fa si sono celebrate le elezioni in Olanda, primo test elettorale europeo del 2017 cui si guardava con preoccupazione data l'ascesa dei cd. populisti, in odore di vittoria.
Non è accaduto e tutti a sospirare di sollievo, come accaduto in precedenza con l'elezione del presidente austriaco ( anche lì si temeva la vittoria del candidato antieuropeo).
L'Olanda è piccola ma è un test importante, trattandosi di un paese ricco, con un ottimo welfare, con principi di integrazione evoluti e allo stesso tempo con una crescente insofferenza nei confronti dell'Unione, causata dai malumori dovuti ai debiti pubblici dei partners più inguaiati (tra cui noialtri italiani ) e all'invasione dei migranti. Se i paesi più solidi cedono al populismo, figuriamoci gli altri...(e quindi l'incubo della vittoria della Le Pen in Francia, addirittura peggiore di quello che si è realizzato in America con Trump).
Non è accaduto e tutti contenti, tanto che il fatto che il leader liberale uscente, col suo partito, abbiano perso ben 5 punti percentuali e 8 seggi rispetto alle precedenti elezioni non conta (eppure un po' dovrebbe...) tanta era la paura della vittoria della destra populista, avvertita come razzista e anti islamista (probabilmente lo è, ma non sono addentro delle cose di quel partito e quindi mi limito a riportare le opinioni generalizzate ) , guidata da Wilders. Quest'ultimo, dato per il grande sconfitto, guida quello che è oggi il secondo partito in Olanda, ha guadagnato 3 punti e 5 seggi rispetto al passato. CI sono sconfitte peggiori...
Dico questo per ricordare le riflessioni di Ricolfi che metteva in guardia da una strategia di difesa dai populismi basata principalmente sulla "crociata" di contrapposizione : noi i bravi e loro gli sbagliati.
Se gli sbagliati sono tanti, e sempre di più (Wilders aumenta i suoi voti e i suoi rappresentanti , in Austria il paese è diviso in due ) , non basta resistere alle urne, spuntandola magari di un soffio : bisogna capire il problema di quel consenso e trovare delle risposte che lo facciano regredire.
Altra considerazione : in Olanda una maggioranza parlamentare NON c'è.  Il Parlamento è composto da 150 membri, la maggioranza è dunque costituita da 75 deputati, e il liberale Rutte, il  vincitore, ne ha solo 33 , con solo il 21% dei voti rastrellati.
Ora in Italia ci sono valentissimi opinionisti, come Paolo Mieli, ex importante direttore del Corsera, e Angelo Panebianco, da decenni opinionista principe dell'importante quotidiano milanese, che vorrebbero che un Rutte italiano (attenzione signori che da noi oggi sarebbe Grillo...) , con quel 21% piuttosto miserello,  avesse , tramite un premio al "vincitore", i 75 seggi...
Invece in Olanda, dove forse hanno un senso più spiccato della democrazia, gliene danno solo 33.
Ne mancano ben 42 all'appello, e Rutte dovrà cercare alleati, concordando con loro una programma di governo comune. Questo porterà a dei compromessi ? A cedere qualcosa sulle proprie idee iniziali per venire a patti con le altre forze politiche ? Capisco che dispiaccia, ma se pesi il 21% sarà il caso che ti rassegni e con te i tuoi elettori.
Siccome è un tema sul quale batto da tempo, avendo avversato con tutte le forze l'Italicum ( e la bocciatura del ballottaggio presente in quella legge la sente moralmente come una vittoria anche mia ) e il suo premio di maggioranza senza quorum partecipativi al ballottaggio, ed essendo un  assertore del bilanciamento tra principio di rappresentatività e governabilità, che devono essere alla pari,  e comunque mai con sbilanciamento a favore del secondo (già temo, da vero liberale, come Tocqueville, il rischio della dittatura della maggioranza, figuriamoci come vedo quella della minoranza !!!) ,  ormai sono in polemica aperta con i due illustri politologi citati (ovviamente loro nemmeno sanno che il Camerlengo esista,  però sicuramente conoscono queste tesi a loro contrapposte), che palesemente si sarebbero tenuti addirittura il Porcellum,  con il premio di maggioranza assegnato sempre e comunque al primo arrivato, prescindendo dal consenso effettivo ottenuto.
Nelle democrazie moderne, dove sempre meno gente va a votare, è giusto che governi la minoranza più forte... Questo il loro credo.
In realtà anche questa cosa che l'astensionismo sia il frutto moderno della democrazia evoluta, è una fola.  La gente non va a votare quando pensa che non serva, che alla fine poco o nulla cambierà.
Attenzione, può pensarla anche in positivo :  sono un tedesco o un inglese o un americano  della middle class e sono fiducioso che democristiani o socialdemocratici, conservatori o laburisti, repubblicani o democratici abbiano la stessa tenuta di osservanza dei principi costituzionali, che le politiche economiche non saranno rivoluzionarie, che la navigazione proseguirà positiva senza clamorosi mutamenti di rotta, per cui posso anche andarmene al mare.
Naturalmente c'è, e forte,  il caso degli astensionisti per sfiducia.
Però quando le persone pensano che CONTI, che sia importante la decisione da prendere, allora al voto ci vanno eccome.  E così in Gran Bretagna per la Brexit hanno votato il 72% dei britannici (in genere l'affluenza si ferma al 60 circa), al Referendum costituzionale di renzino quasi il 70% e alle elezioni olandesi ben l'82% !!
Però può essere che ho torto io e il motivo dell'affluenza massiccia sia che le democrazie si sono "involute"...

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Chiudo con un ultimo spunto, più centrato sulle cose di casa nostra, offertomi dall'amica, cara e indefessa lettrice del blog, Caterina.
Avevo postato su FB questo ironico commento :
notizia per Paolo Mieli e il professore Angelo Panebianco : si è votato in Olanda, la sera non si sapeva il vincitore ( solo chi aveva preso più voti) e bisognerà formare una coalizione di maggioranza. eppure non si hanno notizie di crolli di borsa o crisi di panico degli elettori...
😉😉

Lei, che la pensa sostanzialmente come i due importanti giornalisti, ha, a sua volta con ironia, osservato :
Dipenderà mica dal fatto che l'Olanda è giudicata un pelino più solida dell'Italia?

La mia risposta :
Caterina non è che possiamo sempre ragionare in termini che siamo dei minus habentes e quindi noi dobbiamo avere leggi speciali...ricordo sta fola col presidenzialismo...da noi non si poteva - non si può fare - perché avremmo congenito il virus fascista... Sono senz'altro d'accordo che in Italia c'è un vulnus di senso civico, di appartenenza alla comunità, ma non sono le leggi elettorali che possono supplire a questo deficit. Queste ultime devono registrare il consenso delle formazioni politiche che si presentano per essere votate, e chi ha la maggioranza, da solo o alleandosi, avrà il diritto dovere di cercare di attuare il programma per cui ha chiesto ed ottenuto il voto. Come ho scritto fino alla nausea ormai, non sono portatore di dogmi, accetto un aiutino alla forza/e vincitrice/i concependo un premio di maggioranza che aiuti la governabilità, ma a patto che quella forza/e abbiano raggiunto un quorum di consenso decente. Che è poi il principio espresso dalla Consulta sia col Porcellum che con l'Italicum. Dopodiché resta che in Italia, per 20 anni abbiamo avuto teoricamente delle maggioranze consistenti - solide è un'altra cosa - senza con questo riuscire a fare riforme utili e significative per migliorare le nostre gravi criticità, debito pubblico in primis, cui ormai si è aggiunta la carenza di occupazione. Alla fine, anche nel 2013, grazie al supporto di quelli di Scelta Civica e di NCD, transfughi dal Centrodestra, si è formata una maggioranza parlamentare forte, tanto è vero che si sono votati varie cose da soli... Poi il referendum e PUFF, il consenso fuori non c'era... Insomma Caterina, il problema è Politico, con la P maiuscola, e non lo risolvi con le furbate ad personam. Quindi se in Olanda, come in Germania, o come accadde in Inghilterra (patria dell'uninominale secco) si è ricorsi o si ricorrerà a governi sostenuti da una maggioranza formatasi in Parlamento senza terremoti, è perché lì la Politica ancora funziona (pur con problemi), e da noi no. La legge elettorale, ripeto, sta cosa non la risolve.

Sicuramente Caterina risponderà, e la leggerete nello spazio dei commenti .

lunedì 13 marzo 2017

IL 20 MARZO GIORNO INTERNAZIONALE DELLA FELICITA'. QUELLI DELL'ONU SONO MATTI, MA FUGNOLI E' DIVERTENTE

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Gli articoli del bravissimo Fugnoli si dividono sempre in due parti : quella iniziale la definirei di cultura generale, con aneddoti, sintesi storiche, metafore suggestive ancorché a volte azzardate ; la seconda, tecnica, relativa alle questioni finanziarie.
In genere la seconda la ometto o la stralcio, convinto che alla maggior parte dei lettori del Camerlengo interessi poco o punto.
Però alcuni sono curiosi e anche intenditori del secondo aspetto, e allora stavolta faccio così : riporto l'articolo intero, separando però in maniera immediatamente evidente le due parti, non solo attraverso la spaziatura, ma anche lasciando più piccolo il testo finanziario, sul quale non troverete evidenziazioni.

Stavolta il nostro tratta il controverso tema su cosa sia la Felicità, prendendo spunto dalla prossima curiosa scadenza stabilita da quell'ente stravagante e poco utile che sono le Nazioni Unite : il 20 marzo, non si sa perché, per cosa e per come, sarebbe il giorno internazionale della Felicità (????).
Vabbè è gente che cerca di giustificare la propria esistenza, costosa, e pazienza.
Però, partendo da questo anniversario strano, Fugnoli, a volo d'aquila, ripercorre il concetto di Felicità nella Storia, e naturalmente le diversità sono enormi.




 

 

 

FELICITA’ CRONICA
 

Borse appagate e fiduciose, ma non euforiche

 
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Non sappiamo quanti se ne siano accorti, ma il 20 marzo è la Giornata Internazionale della Felicità. Si celebra ogni anno dal 2012 sotto il patrocinio delle Nazioni Unite. L’hanno istituita 193 paesi con le risoluzioni 65/309 e 66/281 ed è dotata di un sito (happinessday.org), di un logo, di un Board of Directors e di un Board of Trustees. Offre possibilità di carriera, come dice il sito, e in questo momento è alla ricerca di stagisti da formare come esperti di social media e come copywriter.

Oltre alla felicità burocratica esistono la felicità filosofica, quella economica, quella medica, quella biologica e quella sociologica. Di quella dei mercati parleremo dopo.

Nella storia della riflessione su questo tema si inizia volando alto. La filosofia greca tradisce la sua origine socioculturale aristocratica e predica la felicità come autocontrollo, realizzazione di sé (Aristotele), perseguimento della virtù (Platone) e distacco dai piaceri materiali per essere liberi di porsi obiettivi più elevati. È chiaramente una filosofia per le élites, mentre le masse cercano la felicità nei riti magici e dionisiaci e trovano comprensione nel solo Aristippo di Cirene, che non si studia al liceo e che teorizza il godersi il presente in qualunque modo perché il presente, a ben vedere, è la nostra unica realtà.

Il Medio Evo vola ancora più alto. La felicità terrena diventa un obiettivo secondario (Tommaso rivaluta addirittura la tristezza, che ci rende più vigili, creativi e motivati), mentre la beatitudine autentica si raggiunge misticamente nell’itinerarium mentis in Deum di Bonaventura e nella visione di Dio che Dante ci descrive.

Poi c’è il crollo. Cominciano i moderni, da Montaigne in avanti, con una deregulation della questione. Per essere felice ognuno si organizzi come può. La felicità diventa soggettiva e la Dichiarazione d’Indipendenza scritta da Jefferson nel 1776 garantisce a tutti il diritto di perseguirla, ciascuno come meglio crede.
Si torna a una visione elitaria con Robespierre e Lenin (le avanguardie donano la felicità alle masse anche contro la loro volontà) ma dopo i fallimenti del Novecento si prende a volare più basso che si può.
Le teorie si frantumano, con il New Age tornano in auge visioni gnostiche, la purificazione come anticamera dell’illuminazione e della beatitudine diventa (con tutto il rispetto) yoga e beauty farm, mentre non uno, ma ben cinque studi condotti indipendentemente gli uni dagli altri in Corea, Iran, Cile, America e Inghilterra dimostrano la forte correlazione tra felicità e consumo di frutta e verdura.

A tornare a una visione oggettiva e addirittura misurabile della felicità ci pensano gli economisti, che in questi anni, con la loro consueta grazia e leggerezza, hanno prodotto a ritmo crescente una serie di indicatori come la Felicità Nazionale Lorda (una metrica adottata ufficialmente in Bhutan), il Benessere Nazionale Lordo, l’Indice dello Sviluppo Umano, il Green and Happiness Index (adottato dalla Thailandia), il Better Life Index dell’Ocse e tantissimi altri. Tra gli indicatori di felicità più considerati ci sono di solito la durata della vita (da cui si deduce che più si è vecchi più si è contenti), la durata degli studi (quelli che resero allegro Leopardi) e le disparità di reddito (quelle che in Europa si pensa che abbiano fatto vincere Trump anche se Trump non ne ha mai parlato una volta in vita sua). In Bhutan si misura anche la felicità spirituale e con questo accorgimento le Nazioni Unite lo hanno classificato nel 2016 come il paese più felice del mondo.

Sociologi, genetisti, psicologi ed economisti del comportamento notano però che la correlazione tra ricchezza, reddito e felicità è dubbia e forse non esiste proprio. Se si chiede alle persone come si sentono nella vita i ricchi si proclamano più soddisfatti dei poveri, ma se si prova a domandare come si sentono in quel momento preciso, che sia mattino pomeriggio o sera, non si trova mai nessuna differenza. L’umore, dicono i medici, è funzione dell’omeostasi (stiamo bene se abbiamo dormito abbastanza e se non abbiamo fame o sete o prurito).
I genetisti del National Institute of Health notano che non solo il benessere strutturale ma anche quello percepito hanno base genetica e indagano allo scopo il gene trasportatore della serotonina, il 5  -HTTLPR.
Il padre dell’economia comportamentale David Kahneman afferma dal canto suo che la crescita della felicità si arresta sui 75mila dollari di reddito e che sopra è quasi inutile darsi da fare (dello stesso avviso il keynesiano Skidelsky nel suo recente How Much Is Enough, di avviso diverso Bezos, Buffett, Gates, Page e Brin, che hanno però obiettivi più ambiziosi del solo denaro).

 

 

 

 

La felicità borsistica è un’occorrenza rara e ci sembra di averla vista, dopo molto tempo, tra novembre e oggi. La felicità borsistica non va confusa con il rialzo azionario. Per tre quarti del tempo, infatti, il rialzo scala, come si suol dire, un muro di preoccupazione. Chi è dentro ci guadagna, naturalmente, ma a prezzo di notti agitate e paure di ogni tipo (il double-dip nel 2009-2010, l’Europa nel 2011-2012, il fiscal cliff e il taper tantrum nel 2013, il rialzo dei tassi e poi la Cina tra il 2014 e il 2016). Chi gestisce soldi si trova in queste fasi ad avere a che fare con clienti nervosi e preoccupati anche se i risultati sono buoni ed è nervoso lui stesso.

Dopo tre, cinque, sette anni di nervosismo i rialzi prendono strade diverse. A volte sono interrotti da crash drammatici, come nel 1987. Altre volte cominciano ad appassire nel malumore, come nel 2007.

Altre volte ancora subiscono una mutazione genetica e da timidi ed esitanti diventano aggressivi, violenti e incontrollabili, come nel 1999 per le borse e il 2007 per le case. In queste fasi i mercati sono come posseduti (entusiasmo, etimologicamente, significa essere posseduti dal divino) e non sono felici, ma, direbbero gli psichiatri, maniacali. Chi è dentro diventa avido, perde ogni freno inibitorio e invece di rallegrarsi pensando ai soldi che sta facendo si macera calcolando quanti di più potrebbe farne se andasse a leva. Chi è fuori è roso dall’invidia, dal sospetto di essere infinitamente stupido e dalla paura di perdere l’occasione della vita. Tutti sono eccitati, nessuno è contento.

Nulla di tutto questo è stato visibile nel grande rialzo seguito alle elezioni americane di novembre. Nessuno ha sofferto, nemmeno gli short che, agili e attenti come sempre, hanno presto capito che il vento non soffiava dalla loro parte e si sono rovesciati o hanno comunque chiuso. Gli altri, il grosso, hanno comprato con moderazione e si sono limitati a non vendere. Il risultato è che chi sta guadagnando non si lamenta del fatto che avrebbe potuto guadagnare di più prendendo più rischi. Chi è restato fuori, dal canto suo, non si rammarica troppo. Dopo tutto l’economia globale sta andando bene anche   per lui, l’occupazione cresce, nessun bond fa default e chi guadagna in borsa ha il buon gusto di non ostentarglielo.

Alla base di questa sensazione di benessere c’è un ragionamento piuttosto semplice. Veniamo da anni di ansia in cui la politica ha chiesto tasse, regole, austerità e multe. Ora tutto questo sembra alle spalle. Se si realizzeranno davvero le riforme promesse non lo sappiamo, ma anche se non dovesse realizzarsi nulla abbiamo la ragionevole certezza di non dovere temere niente di negativo. Se poi qualcosa di buono si realizzerà, tanto meglio.

Questa sensazione di leggerezza, avendo prodotto un importante rialzo, si accompagna ora a una sensazione di appagamento. Si prende qua e là qualche profitto, ma senza affanno. I grandi annunci di riforme sono finiti e sono ormai nei prezzi, ma non è ancora nei prezzi la loro realizzazione. L’iter delle riforme americane sarà laborioso, mentre il ciclo elettorale europeo deve ancora iniziare, ma è difficile pensare che dal Congresso non uscirà proprio nulla così come oggi è più difficile di ieri pensare che dalle elezioni francesi uscirà la dissoluzione dell’euro. Certo, la Fed alzerà i tassi una volta ogni tre mesi per tutto quest’anno, ma l’anno prossimo la Fed sarà politicamente allineata con esecutivo e legislativo e alzerà solo se ce ne sarà bisogno.

Naturalmente molte cose possono ancora andare storte. I contrasti tra i repubblicani su sanità e riforma fiscale possono rivelarsi insanabili. Trump può commettere qualche grave errore o non commetterne nessuno ma rivelarsi inefficace. La Corea del Nord si sta divertendo molto a provocare il mondo mentre il mondo non ha nessuna idea su come affrontarla. Il terrorismo potrebbe spostare i risultati elettorali in Europa. Più le sorprese vere, quelle che non siamo nemmeno in grado di immaginare.

Pur con queste avvertenze, un’esposizione ragionevole alle borse (dove ragionevole significa commisurata a un ciclo economico maturo, anche se non senile) ci sembra ancora una scelta corretta. Anche il dollaro continua ad offrire qualcosa di interessante. Così com’è è in equilibrio, ma fornisce una polizza gratuita rispetto alle elezioni francesi e alle stravaganze coreane, mentre incorpora una call altrettanto gratuita in caso di riforma fiscale americana inclusiva di border adjustment. Certo, se Macron vincerà le elezioni l’euro si potrà rafforzare, ma quello che si perderà eventualmente sul dollaro sarà meno di quello che si potrà guadagnare sulle borse europee.