Visualizzazione post con etichetta POLITICA E SOCIETA'. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta POLITICA E SOCIETA'. Mostra tutti i post

venerdì 20 luglio 2018

RICOLFI : L'INSICUREZZA NON L'HA CREATA SALVINI



Risultati immagini per HUME PAGE

Non solo Salvini. Le origini dell’insicurezza

Risultati immagini per HUME PAGE


Fra le convinzioni più granitiche del mondo progressista vi è quella che la domanda di sicurezza, e la connessa paura dello straniero, siano l’amaro frutto della propaganda di destra, e in particolare della spregiudicatezza comunicativa di Matteo Salvini, sempre pronto ad amplificare qualsiasi episodio di violenza che veda come vittima un italiano e come autore uno straniero, specie se migrante, richiedente asilo o rifugiato.
A sostegno di questa tesi vengono citati, quasi sempre, i dati sull’andamento dei delitti, un po’ vecchiotti (fermi al 2016) ma piuttosto univoci: in era renziana i delitti totali, compresi quelli di maggiore allarme sociale come omicidi, furti, violenze sessuali, mostrano una netta tendenza alla diminuzione. Se i delitti calano, come spiegare il crescente senso di insicurezza degli italiani, nonché la conseguente impetuosa crescita della domanda di sicurezza, se non come il risultato di una manipolazione dell’opinione pubblica, scientemente aizzata ad avere paura?
Questa lettura di quel che è successo non è insensata, o puramente autoconsolatoria. Penso anch’io che, senza l’azione combinata della politica e dei media, il senso di insicurezza degli italiani non sarebbe aumentato tanto quanto è aumentato in questi ultimi anni. E tuttavia credo che, da sola, quella spiegazione non funzioni. Quando si parla di insicurezza, e si imputa la sua crescita essenzialmente agli “imprenditori della paura”, a mio parere si dimenticano due importantissimi fattori che, in questi anni, hanno contribuito non poco ad alimentare insicurezza e domanda di protezione.
Per illustrare il primo fattore riporto qualche passaggio di una mail, alquanto cruda, che ho ricevuto qualche tempo fa da un giovane studioso italiano che ha avuto la ventura di entrare per la prima volta negli Stati Uniti per un convegno. Parlando degli “sbarchi via aereo”, comincia con il farmi notare la ingombrante burocrazia dei visti d’ingresso, le domande cui tutti – bianchi e non bianchi – devono rispondere (tipo: cosa vieni a fare? quando te ne vai? a che indirizzo pernotti? quanti soldi hai?). Per poi concludere: “la mera esistenza di questa procedura di selezione degli ingressi (che fa anche un po’ paura, ci sono stemmi della polizia intimidatori ecc.) dà l’impressione che per lo meno gli USA cercano di proteggere i loro cittadini, mentre in Italia questo è l’ultimo dei problemi. C’è anche questo modo di vederla: se gli accessi fossero regolati e avessero un aspetto meno selvaggio di un barcone pieno di africani, i cittadini italiani avrebbero forse più l’impressione che allo Stato importa qualcosa di loro, cosa di cui l’americano medio non dubita”.
Naturalmente so bene che le situazioni dell’Italia e degli Stati Uniti sono molto diverse, anzi speculari (là il problema è la frontiera con il Messico, qui è il Mediterraneo), però la domanda fondamentale resta la stessa: in questi anni i nostri governi hanno dato l’impressione che allo Stato interessasse proteggere i propri cittadini filtrando rigorosamente gli ingressi?
La risposta è: assolutamente no. 
Per anni il messaggio è stato esattamente quello contrario: non dovete preoccuparvi, e se lo fate è perché siete preda di paure irrazionali; la nostra missione, e quindi la nostra priorità, è salvare vite umane. C’è voluto l’approssimarsi delle elezioni, e l’avvento di Minniti, per cambiare registro, ma era troppo tardi, e comunque non poteva bastare. Perché la gente non si basa sulle statistiche, ma su quel che vede: 100 mila ingressi regolari e controllati creano meno inquietudine di un solo barcone con 100 migranti che non si potranno mai respingere, anche quando risultasse che non hanno diritto ad alcuna forma di protezione. E dire che, anche a sinistra, qualcuno aveva provato a dirlo, che non c’è dialogo senza sicurezza: “la sensazione di sicurezza da entrambi i lati della barricata è una condizione essenziale per il dialogo fra le culture” scriveva Zygmunt Bauman nel 2011, giusto prima dell’inizio delle primavere arabe (Per tutti i gusti, Laterza 2011).
La rinuncia di chi ha il dovere di proteggere a prendere sul serio il proprio ruolo non è però l’unico fattore che ha fatto lievitare il senso di insicurezza. Ce n’ è anche un altro, molto più subdolo e sottile. Anche in questo caso preferisco spiegarmi con un esempio: qualche giorno fa, guardando un telegiornale, apprendo che, in vista di qualche giornata un po’ calda, le autorità stanno predisponendo una gigantesca campagna di sorveglianza e protezione denominata “estate sicura”, come se un gravissimo pericolo incombesse sulle nostre vite. Lungi da me criticare una simile lodevole iniziativa, ma non posso non notare che una campagna simile era inconcepibile anche solo un paio di decenni fa, e che sono ormai centinaia le iniziative, le pubblicità, gli eventi nei quali siamo implacabilmente avvertiti dei pericoli che corriamo, nonché dei rimedi che, per lo più a pagamento, sono a nostra disposizione purché prendiamo atto della nostra vulnerabilità. Non so se lo avete notato, ma è da anni e anni che sia la pubblicità commerciale, sia la pubblicità progresso, ci terrorizzano con quello che ci potrebbe succedere se non stiamo attenti alla placca dentaria, se non stipuliamo un’assicurazione, se non installiamo impianti di allarme nella nostra casa, se non disinfettiamo la stanza in cui gioca il bambino, se non ci sottoponiamo a controlli medici periodici, se non ci vacciniamo contro l’influenza, se non portiamo il cane e il gatto dal veterinario, se non mettiamo la mascherina anti-smog, se non scegliamo un’auto con 9 airbag (salvo aggiungere: “ma gli airbag non bastano più”, e giù dispositivi elettronici che ci avvertono di tutto e ci proteggono in ogni situazione). E questo martellamento, come stanno documentando molti studi di psicologia (specie negli Stati Uniti), non sta solo impaurendo le generazioni più anziane, ma sta forgiando una generazione di ragazzi sempre più insicura, intimorita, iperprotetta, e proprio per questo non attrezzata ad affrontare le difficoltà della vita adulta. Già una quindicina di anni fa, parlando dell’evoluzione della società americana, Hara Estroff Marano ebbe a coniare l’espressione Nation of Wimps (una “nazione di schiappe”), mentre un’altra psicologa, Jean Twenge, da poco ha pubblicato un libro (iGen, in italiano Iperconnessi, Einaudi 2018) nel cui sottotitolo i ragazzi della generazione internet sono descritti come “del tutto impreparati a diventare adulti”, proprio per l’eccesso di attenzioni protettive da parte di genitori e docenti.
E’ il progresso, ovviamente. Come si fa a non compiacersi degli standard sempre più elevati di sicurezza? Tuttavia forse sfugge l’altra faccia della medaglia: una società bombardata dall’imperativo della sicurezza, ossessivamente invitata a proteggersi da ogni sorta di minaccia, non diventa soggettivamente sempre più sicura, bensì sempre più vigile, e inevitabilmente sempre più sensibile ai problemi della sicurezza. Avete notato quanto è aumentato l’uso, soprattutto nei media, di espressioni come “sicuro”, “sicurezza”? e l’uso ossessivo, nelle situazioni più disparate, dell’espressione “mettere in sicurezza”?
Il paradosso delle campagne per la sicurezza è che il loro effetto collaterale è di aumentare il sentimento di insicurezza. Ma tutto questo non può non avere effetti anche sul modo in cui viene percepito il problema dei migranti. Più una società è impegnata in una ricerca ossessiva della sicurezza, più è destinata a mal digerire qualsiasi evento che appaia fuori controllo.
E’ la dialettica della protezione. Nella società italiana la paura dello straniero è stata certamente alimentata dalle campagne politiche anti-sbarchi e anti-Ong, ma non possiamo dimenticare che il terreno della paura era stato scrupolosamente concimato da due meccanismi, per certi versi opposti, che con Salvini nulla hanno a che fare. Il primo si ha quando chi deve proteggerti (governo) cerca di convincerti che le tue preoccupazioni sono infondate. Il secondo si ha quando chi vuole offrirti un prodotto o un servizio (pubblicità) cerca di convincerti che ti devi preoccupare. Il cocktail fra questi due grandi meccanismi della psicologia sociale, entrambi assai rigogliosi negli anni della crisi, ha reso altamente infiammabili le anime dei cittadini: è forse per questo che è bastato Salvini a farle prendere fuoco.

L'ITALIA NON E' E NON SARA' MAI UN PAESE LIBERALE. AMEN

Risultati immagini per DESTRA E SINISTRA SUPERATE

Da quando è nato il blog, nell'ormai abbastanza lontano maggio del 2011, non era mai accaduto che per un intero mese non venisse postato alcunché. A dire il vero non era mai passata nemmeno una settimana.
Segnali di stanchezza ce ce sono stati molti, ultimamente, e ho provato anche a darmi e dare una spiegazione.
Ma un silenzio così fitto, assoluto, mai.
C'è qualche amico che mi sprona, e tra questi uno che mi ha dato anche un suggerimento che  proverò a seguire.
Negli ultimi anni, il Camerlengo ha preso la dimensione di una sorta di piccola rassegna stampa, di fatto suggerendo la lettura di editoriali ed opinioni di giornalisti ed esperti noti, introdotti da un più o meno articolata sintesi/commento.
Una formula che pare sia piaciuta, e che ha fatto sì che alcuni conoscessero opinionisti non presenti sui quotidiani in genere prescelti. Chi compra Repubblica, non sempre legge Panebianco e Della Loggia, figuriamoci Giacalone o Facci.
Ricolfi, attualmente il mio preferito, non ha mai scritto finora sui giornaloni di testa (lo seguo nel suo peregrinare, da La Stampa al Sole ora al Messaggero ), mentre Fugnoli è l'esperto di finanza che scrive sulla rubrica Rosso e Nero di Kaos, una pagina per "esperti"  gestita da gruppi di promozione finanziaria. 
Ecco, a molti questa cosa piaceva, per cui Andrea, l'amico di cui sopra, mi ha proposto di limitarmi, in questo perdurante periodo di stanchezza personale, a continuare a selezionare i contributi che comunque ritenevo più interessanti, senza introdurli.
Un modo per tenere in vita il Blog, in attesa di tempi migliori.
Proviamo.

Prima di lasciarvi al buon Ricolfi (non potevo non ricominciare da lui) , vorrei però dare conto di un ulteriore disagio che si è andato ad aggiungere all'inedia in passato descritta, e che era principalmente determinata da un senso di inanità. 
Questo disagio è dato dalla mia difficoltà ad interpretare il "nuovo" sopraggiunto in Italia.
Nato negli anni 60 del secolo scorso, sono figlio del dualismo sinistra-destra, liberalismo contrapposto al comunismo (prima) e socialismo poi (post disintegrazione dell'Unione Sovietica e crollo del muro di Berlino).  Queste contrapposizioni col tempo erano sempre più forzate, con grossi annacquamenti reciproci, e sopraggiungeva la crescente consapevolezza che se gli italiani non erano (per la maggioranza) di sinistra ( se ne doleva, con anche una certa fine ironia, un compianto e bravo giornalista-scrittore, Edmondo Berselli ) ancor meno potevano essere liberali.
Per gli italiani il libero mercato, la meritocrazia, la responsabilità individuale e personale, l'uomo che si fa da solo...., sono tutte scemenze. Certo, vogliono essere liberi di fare come gli pare, e mal sopportano uno stato etico (che piace invece ai sinistri) che li vorrebbe educare e dire loro cosa si deve fare e cosa no, però gli piace assai uno stato assistenziale,che fornisca tutto il possibile (e quindi non solo sanità, scuola, strade, infrastrutture varie, ma anche casa e lavoro ) e gratis.
Nei paesi dove questo avviene, o quasi (la solita Svezia, e i vicini paesi del nord Europa), tutti pagano fior di tasse, mentre da noi ovviamente no.
Oddio la tassazione è altissima, e c'è chi non può sfuggire, almeno non del tutto, ma le esenzioni e l'evasione sono altissime.
Ad ogni modo, sono convinto e rassegnato : l'Italia non è tante cose (da un po' va di moda dire che non è un paese per  giovani, e temo sia vero) e tra queste non è e non può essere un paese liberale.
Amen.
Ma siccome non può essere nemmeno un paese socialista, non del tutto, per lo spirito anarcoide (termine eufemista e nobilitante) dei suoi abitanti, ecco la terza via, sorta sulle ceneri del sogno europeista e del mondo senza confini.
Gli avversari indicano gli uomini nuovi come "barbari", e usano per individuarli termini dall'accezione dispregiativa : populisti, o sovranisti.
Io, ben vaccinato dal disprezzo pseudo intellettuale dei sinistri per la "destra", non farò lo stesso errore loro, e non riuscendo a comprendere chiaramente il loro disegno di società, mi fermo e osservo.
Certo, il vago sospetto che una strategia chiara, e soprattutto efficace, non ci sia proprio, in Di Maio e soci, ce l'ho.
Ma per il bene del ramo su cui siedo, spero di sbagliarmi.
AL momento non sembrerebbe, ma aspettiamo, è presto...




Parole di nebbia

Risultati immagini per PAROLE DI NEBBIA

Sul piano dei contenuti, questo governo non somiglia granché a nessun governo del passato. I governi del passato, infatti, o guardavano a sinistra, o guardavano a destra, o si barcamenavano fra destra e sinistra, alla ricerca di un compromesso, di un punto di equilibrio. Ora no: a giudicare dai programmi e dai primi atti questo governo cerca di essere, al tempo stesso, molto di destra e molto di sinistra, a settimane alterne. Ora un colpo inferto ai migranti (blocco dei porti alle Ong), ora un colpo inferto alle imprese (decreto dignità). In attesa del colpo definitivo, quello ai conti dello Stato (flat tax e reddito di cittadinanza).
Se sul piano dei contenuti tutto è cambiato, sul piano del metodo, dello stile di governo, dei modi di comunicazione, la continuità con il passato è perfetta. Come i governi che l’hanno preceduto, anche l’esecutivo Conte non esita ad abusare dello strumento del decreto legge, contando sul fatto che la prassi ormai è quella, e nessuno può impedire a un governo di fare ciò che è sempre stato concesso ai governi precedenti. Il cosiddetto “decreto dignità”, ad esempio, viola due principi fondamentali, l’uno stabilito dalla Costituzione, l’altro dalla legge 400 del 1988. Secondo il primo lo strumento del decreto può essere utilizzato solo “in casi straordinari di necessità e urgenza”. Quanto al secondo, la legge stabilisce che “i decreti devono contenere misure di immediata applicazione e il loro contenuto deve essere specifico, omogeneo e corrispondente al titolo”. Basta dare una scorsa all’accozzaglia di materie di cui si occupano i 15 articoli del cosiddetto decreto dignità per rendersi conto che il loro contenuto non è omogeneo, e che per nessuna di esse sussistono condizioni di necessità e urgenza, tantomeno di “straordinaria” necessità e urgenza (a meno di considerare straordinariamente necessaria e urgente l’esigenza di Di Maio di recuperare consenso e togliere spazio a Salvini).
Quel che più mi colpisce, però, non è la somiglianza con il passato nell’abuso dei decreti legge; quel che mi colpisce è l’abuso manipolatorio delle parole, accuratamente scelte per indorare la pillola che viene somministrata ai cittadini, nascondendo la sostanza di cui è fatta. Faccio tre esempi.

Pensioni d’oro. Nell’immaginario collettivo una pensione d’oro è una pensione di importo altissimo, non giustificata dal lavoro e dai meriti del beneficiario, tipicamente percepita da un membro della “casta”. Nelle dichiarazioni dei Cinque Stelle, e nel discorso di insediamento del presidente Conte, il concetto è stato esteso a chiunque percepisca una pensione alta con una componente retributiva. Ma alta quanto? Ancora a giugno Di Maio e Conte assicuravano che il taglio dei compensi avrebbe riguardato solo le pensioni sopra i 5000 euro netti. Poi, qualche settimana fa si è cominciato a parlare di 4-5000 euro, senza specificare se netti o lordi. Negli ultimi giorni la soglia è scesa a 4000 euro. Così un provvedimento, più o meno condivisibile, che colpisce (retroattivamente) i ceti medio-alti, viene presentato come sacrosanto intervento contro gli ingiustificati e intollerabili privilegi della “casta”.

Decreto dignità. Se si vara un decreto “a tutela della dignità dei lavoratori e delle imprese” ci si aspetta che esso intervenga con urgenza per impedire violazioni della dignità di questi due soggetti. Ma se mi si parla di “dignità”, e per di più si aggiunge che l’intervento ha carattere di “straordinaria necessità e urgenza”, a me vengono in mente fenomeni come la richiesta del pizzo (che offende la dignità delle imprese), e il caporalato nelle campagne (che offende la dignità dei lavoratori). In questo secondo caso, data la stagione estiva, sussisterebbe anche il requisito di urgenza. Pensate che bello: dopo anni in cui tutti i governi hanno preferito chiudere un occhio, il governo giallo-verde decide di stroncare il caporalato, ispezionare i campi e le baraccopoli, garantire ai lavoratori (spesso immigrati dall’Africa, quasi sempre privi di contratto) condizioni di lavoro e di salario umane. E invece no: se andate a leggere il decreto dignità, in mezzo a un guazzabuglio di norme che con il lavoro nulla hanno a che fare, quel che trovate sono soprattutto norme che rendono un po’ più difficile e costoso per le imprese attivare alcuni tipi di contratto perfettamente regolari, e che certo non offendono la dignità del lavoratore.

Reddito di cittadinanza. Non sappiamo ancora che forma prenderà il reddito di cittadinanza, se e quando verrà varato. Ma già sappiamo, perché esistono progetti e disegni di legge, che non sarà un reddito di cittadinanza, ma una normalissima misura di reddito minimo per le famiglie povere. Per reddito di cittadinanza si intende un reddito dato a ogni individuo (anche ai ricchi) senza alcuna condizione. Per reddito minimo si intende un reddito dato esclusivamente alle famiglie povere, sotto condizioni stringenti: ricerca attiva di un lavoro, corsi di formazione, prestazioni di lavoro gratuite, disponibilità ad accettare offerte di lavoro. 
Le proposte dei Cinque stelle sono proposte di reddito minimo, camuffate da reddito di cittadinanza. 
La loro filosofia è molto simile a quella del reddito di inclusione varato dal Pd, con due sole differenze: tante nuove assunzioni nei centri per l’impiego, molti più soldi (se troveranno le coperture) ai beneficiari. Ed è curioso che il Pd continui a dire che reddito di cittadinanza significa “dare i soldi alla gente perché non lavori”, anziché andare a vedere che cosa effettivamente c’è scritto nei progetti del Movimento Cinque Stelle.
A che serve chiamare reddito di cittadinanza quello che ovunque, in Europa e nella letteratura scientifica, si chiama reddito minimo?
Dal punto di vista del Pd serve a differenziare il Pd stesso dai Cinque Stelle (noi vogliamo creare posti di lavoro, voi volete tenere la gente a casa). Dal punto di vista dei Cinque stelle serve a nascondere la sostanza economica della loro proposta, che peraltro è la medesima del reddito di inclusione del Pd: sussidiare il Mezzogiorno. Chiamandolo “reddito di cittadinanza” se ne sottolinea il carattere universalistico, di provvedimento equo in quanto rivolto a tutti i cittadini. Eppure i dati dicono chiaramente che, a parità di condizione economica, la possibilità di beneficiare di misure come il reddito di inclusione o il cosiddetto reddito di cittadinanza, sarà sensibilmente maggiore per un cittadino del Sud che per uno del Nord e, a parità di zona geografica, per un abitante di un piccolo comune che per uno di una grande città.
La ragione è assai semplice: nonostante il livello dei prezzi sia diversissimo da Nord a Sud, nonché fra grandi e piccoli centri, la soglia di accesso è definita in termini nominali anziché in termini reali. Così può accadere che, a parità di potere di acquisto, due famiglie siano l’una inclusa e l’altra esclusa solo a causa del luogo in cui risiedono (zona del paese, ma anche comune grande o piccolo). E infatti, secondo gli ultimi dati disponibili, il Nord ha il 37% dei poveri assoluti ma solo il 18% dei beneficiari (in gran parte immigrati). Il Centro ha il 15% dei poveri, ma solo il 12% dei beneficiari. Il Sud ha il 48% dei poveri ma il 70% dei beneficiari. Questo tipo di iniquità territoriale è il difetto comune di tutte le misure di sostegno delle famiglie povere, dalla social card di Tremonti al Sia di Letta, dal Rei di Renzi al cosiddetto reddito di cittadinanza di Di Maio (l’unica proposta che non ha questo difetto è il minimo vitale dell’Istituto Bruno Leoni, ovviamente ignorato dalla politica). Ed è anche uno dei più grandi errori delle politiche di sostegno alle zone svantaggiate del passato, che troppo spesso hanno preferito elargire sussidi impropri e dunque iniqui (qualcuno ricorda le false pensioni di invalidità?) piuttosto che fare investimenti e creare posti di lavoro.
Dunque: si parla di pensioni d’oro per non riconoscere che si tagliano le pensioni alte, si parla di dignità per non dire che si irrigidisce (un pochino) il mercato del lavoro, si parla di cittadinanza per nascondere i clamorosi squilibri nell’accesso al sussidio. Non è una novità: già nel 1981, parlando della comunicazione pubblica, Natalia Ginzburg denunciava con sgomento: “il fine è dare della nebbia, e ottenere, con la nebbia, rispetto e venerazione”. Sono passati quasi 40 anni, ma siamo sempre lì: le parole della politica sono solo nebbia che circonda le cose, le indora, o semplicemente le traveste, le maschera, le camuffa. Parole che, in ogni caso, non dicono la verità.


sabato 7 aprile 2018

RICOLFI : NESSUN VERO VINCITORE , IN COMPENSO UNO SCONFITTO SICURO, IL PD CON LA SINISTRA TUTTA

Risultati immagini per la sconfitta della sinistra

Bersani nel 2013 non aveva vinto, nonostante il porcellum gli avesse regalato, col solo 30% dei voti alla coalizione (il Pd si era fermato al 25%, che oggi sarebbe stato vissuto come un trionfo,,,) il dominio di Montecitorio e l'ipoteca sul Senato.
Oggi i grillini, pur primo partito col 32% dei voti, sono lontanissimi dalla maggioranza solitaria in entrambe le camere.
La stessa cosa vale per il centro destra, dove la crescita della Lega è stata fatta a spese dell'alleato, Forza Italia, e quindi la coalizione, col 37%, si trova in una situazione analoga ai 5 stelle : primi, se uniti, ma lontani dalla maggioranza in Parlamento.
Questo fa dire a Luca Ricolfi che, in realtà, nessuno ha veramente vinto il 4 marzo .
In compenso, se non ci sono veri vincitori, uno sconfitto senza se e senza ma esiste, ed è il PD.
Anzi, precisa correttamente Ricolfi, la sinistra tutta.
Parliamo però di quella storica, diremmo tradizionale. E' quella che è in crisi, perché un certo elettorato di sinistra, centralista ed assistenzialista, con l'idea che lo Stato debba provvedere ai suoi "figli", resiste spostandosi nelle file magari un po' rozze ma viste come "pure", non contaminate dal potere, dei pentastellati.
In un altro intervento, Luca Ricolfi identifica il successo nettissimo dei 5 Stelle al Sud con la resistenza democristiana del 1992, anno delle ultime elezioni della prima repubblica dove appunto la DC resistette molto bene grazie proprio alle roccaforti sudiste.
Ecco i 5 Stelle sono la nuova DC, che raccoglieva elettori un po' ovunque. Certo ci sono anche le differenze : la DC aveva il suo bacino principale nell'elettorato moderato, mentre i 5 Stelle nei sinistrosi delusi. 
Ecco, mi piacerebbe che gli elettori di centro destra, che costituiscono una minoranza , però ancora folta, della congregazione ortottera, si rendano conto di questa realtà : i loro voti vanno a rafforzare uno schieramento politico che sui temi di libertà individuali ed economiche non la vede come loro, che continuano a sognare uno Stato meno presente e allo stesso tempo più efficiente (magari anche grazie alla minora ingerenza in tutto l'orbe terracqueo del paese). 
Dicono che la sinistra e la destra sono concetti superati, e sicuramente è vero che essi non riflettono più le forze politiche principali del secolo scorso (liberali e socialisti), ormai in forte e probabilmente irreversibile crisi. 
Però c'è ancora una differenza nel modo di concepire la società, sulla prevalenza dei principi di libertà o uguaglianza (prevalenza, badate, non esclusione). 
Moderati, conservatori, liberali delusi, sappiatelo : quando votare 5 Stelle, votate a sinistra. 
Liberi di farlo, ma consapevoli. 




Due Sinistre
25 marzo 2018 - di Luca Ricolfi
 Immagine correlata

Checché ne pensino i presunti vincitori, non esistono vincitori di queste elezioni. Solo mezze vittorie, o se preferite mezze sconfitte, perché sia il centro-destra sia i Cinque Stelle sono riusciti a raccogliere appena un terzo dei voti, e sono dunque lontanissimi sia dal 50% dei consensi, sia dal 50% dei seggi parlamentari. 
Se di vincitori non ce ne sono, in compenso uno sconfitto c’è, ed è il Pd, anzi è la sinistra tutta. 
Perché se è vero che il Pd ha più che dimezzato i voti del 2014, è altrettanto vero che le altre formazioni di sinistra sono andate decisamente male: malissimo i fuorusciti di Liberi e Uguali, che si sono dovuti accontentare di un misero 3.4% (più o meno il risultato di Sel nel 2013); male la Lista più Europa di Emma Bonino, che non è riuscita a raggiungere la soglia del 3%; penosamente i due cespugli alleati del Pd, che sono rimasti abbondantemente al di sotto della soglia dell’1%.

Ma il risultato più importante di questa tornata elettorale, a mio parere, è il cataclisma che ha investito l’elettorato della sinistra. Fino a ieri, per la maggior parte degli elettori esistevano il centro-destra, i Cinque stelle e la sinistra, con le sue varie anime e fazioni. Dopo il 4 marzo non è più così. Per molti è difficile ammetterlo, ma ormai la realtà è questa: una persona che si sente di sinistra si trova di fronte non una, ma almeno tre opzioni politiche fondamentalmente diverse: la sinistra riformista del Pd e di Più Europa, la sinistra conservatrice e nostalgica di Leu, la pseudo-sinistra o neo-sinistra dei Cinque Stelle. In parte era già così, perché molti elettori di sinistra da tempo avevano cominciato a votare Cinque Stelle, o a vedere con una certa simpatia chi lo faceva. Sono anni che, in una parte dell’elettorato progressista, i Cinque Stelle sono visti come una sorta di sinistra più pura, magari un po’ingenua e rozza, ma comunque meno compromessa con le logiche del Palazzo. E’ come se, agli occhi di una parte non piccola dell’elettorato progressista, ci fossero almeno due sinistre: quella tradizionale (Pd e fuorusciti), sostanzialmente identificata con l’establishment, e quella anti-establishment, più o meno adeguatamente rappresentata dai Cinque Stelle.

Questa doppia rappresentanza, riformista e populista, dell’elettorato progressista può non piacere a molti. Però bisogna rendersi conto che non è un’anomalia italiana. Una sinistra populista, che contende il primato alla sinistra tradizionale, esiste anche in altri paesi mediterranei, in particolare in Grecia (con Syriza) e in Spagna (con Podemos). La particolarità dei Cinque Stelle è di essere riusciti, finora, a nascondere la loro matrice principale che, secondo la stragrande maggioranza dei sondaggi degli ultimi anni, è più di sinistra che di destra. Le elezioni del 4 marzo hanno semplicemente reso evidente, per non dire plateale, l’esistenza in Italia di (almeno) due sinistre, fra le quali, che lo voglia o non lo voglia, l’elettorato progressista è chiamato a scegliere.

Questo disvelamento non disturba i Cinque Stelle, che non perdono certo il loro elettorato di destra per il solo fatto di attirare sempre più voti da sinistra: l’adattività del movimento di Grillo, il suo camaleontismo ideologico, sono oramai leggendari. Disturba invece profondamente il Pd, che credeva di avere solo il manipolo di Liberi e Uguali alla propria sinistra, e si trova improvvisamente con un vicino scomodo, molto scomodo, come i Cinque Stelle, una formazione che non si lascia facilmente descrivere in termini di destra e sinistra, ma indubbiamente compete con il Pd per attirare il voto dell’elettorato che “si sente” di sinistra.

Il Pd sembrava, fino a pochi anni fa, essere rimasto l’unico vero partito, organizzato e radicato in tutto il territorio nazionale. Ora che i Cinque Stelle hanno sfondato in tutta la penisola, e la stessa Lega è sbarcata in forze nelle regioni del centro-sud, si trova completamente spiazzato.

Che cosa lo ha ridotto a quello che oggi è? Come è stato possibile, nel volgere di meno di 4 anni, passare dal 40.8% dei consensi alle Europee (2014) al 18.7% delle Politiche?

La risposta facile è: Renzi, solo Renzi, nient’altro che Renzi. E c’è del vero in questa risposta. E’ stato Renzi, in un solo anno, a portare il Pd dal deludente 25.4% di Bersani al 40.8% del trionfo europeo. Ed è stato il medesimo Renzi, da allora, a commettere una serie impressionante di errori politici e comunicativi, a partire dal bullismo mediatico con cui ha condotto la campagna referendaria.

Però sarebbe riduttivo, e alquanto ingiusto, caricare il solo Renzi del disastro del 4 marzo. Non tanto perché, scissionisti a parte, sono stati ben pochi coloro che alle scelte di Renzi si sono opposti, ma perché la crisi del Pd fa parte di una storia molto più grande, e più incisiva, della mera stagione renziana. La crisi del Pd, a mio parere, ha almeno due grandi e lontane radici.

La prima è la progressiva trasformazione del Pci, “partito della classe operaia”, in una sorta di “partito radicale di massa”, un processo che il grande filosofo cattolico Augusto del Noce intravide già una quarantina di anni fa. In questi decenni il partito comunista e i suoi eredi sono divenuti sempre più i rappresentanti dei ceti medi riflessivi, istruiti e urbanizzati, affascinati dalle grandi battaglie sui diritti civili e ben poco interessati ai problemi che angustiano i ceti popolari: povertà, sicurezza, criminalità, immigrazione. Fra le ragioni dell’insuccesso della lista Bonino c’è anche, molto semplicemente, il fatto che un partito radicale ed europeista esisteva già, ed era il Pd renzizzato, imbevuto di retorica dell’accoglienza e di “grandi battaglie di civiltà”.

La seconda radice della crisi del Pd ha a che fare, invece, con l’evaporazione della forma partito. I dirigenti di quel partito paiono non essersi resi conto che, oggi, la rappresentanza politica è sempre meno di classe e di ceto, e sempre di più, semplicemente, di interessi e pretese forti, non importa quanto integrate in un disegno organico, non importa quanto espressione di blocchi sociali omogenei: flat tax, abolizione della legge Fornero, reddito di cittadinanza, reintroduzione dell’articolo 18, stop all’immigrazione irregolare. Questo è il tipo di cose che gli elettori comprendono, questo è il tipo di cose per cui sono pronti a concedere una chance a chi li governerà, senza andare troppo per il sottile riguardo alle alleanze e alle ascendenze ideologiche.

Del Pd si può apprezzare la (relativa) sobrietà dei programmi, anch’essi costosi e irrealistici ma non quanto quelli dei suoi avversari. Ma non si può non notare due tratti inconfondibili, che hanno informato tutta la campagna elettorale: la mancanza di una meta significativa specifica, e un racconto dell’Italia autocelebrativo e iper-ottimistico, del tutto sganciato dalla realtà, specie per i territori e i ceti più periferici.

Questo doppio limite, mancanza di idee e scarso contatto con la realtà, non è certo un’esclusiva della gestione di Renzi: è il marchio di fabbrica della rottamazione, un’operazione che ha portato alla sostituzione di un ceto dirigente mediocre e attempato con un esercito di modesti apprendisti dell’arte politica.

E’ successo, così, che anche il Pd di Renzi finisse per offrire alla sua base la stessa cosa che, da alcuni decenni, il maggior partito della sinistra offre a chi lo vota: identità, autostima, considerazione di sé. Basate sulle certezza di essere la parte migliore del paese, quella che è aperta, razionale, moderna, non teme l’Europa e la globalizzazione, vuole l’accoglienza e si batte per le grandi questioni civili. Una bella offerta, indubbiamente. Che tuttavia, dopo un decennio di crisi, pare interessare ancora intellettuali, artisti, docenti, giornalisti, dipendenti pubblici, “ceti medi riflessivi” in genere, ma a quanto pare non scalda più il cuore dei ceti popolari.

Articolo pubblicato su Il Messaggero del 24 marzo 2018

I DUE STATI D'ITALIA

Immagine correlata

Riflessione di Luca Ricolfi su un tema ben noto : la spaccatura italiana in due realtà assolutamente opposte, Nord e Sud.  La questione meridionale ha occupato libri e convegni per decenni, ma dagli anni 90 in poi anche quella settentrionale, con la crescita dei fan del federalismo ( i leghisti allora veramente accarezzavano l'idea della Secessione...), ha avuto dignità di una qualche attenzione.
Le recenti elezioni, con una divisione degli elettori che ripropone in qualche modo quelle della prima repubblica, dimostrano come nulla sia cambiato, anzi la frattura delle due Italie è vieppiù marcata.
Tutti i dati raccolti e proposti dalla Fondazione David Hume presieduta da Ricolfi, attingendo a dati proposti tanto dai ministeri competenti quanto da istituti stimati come il Cattaneo, il Leoni e  la CGIA di Mestre, confermano che in tutte le materie economiche e sociali, il Sud è indietro : " un abisso le divide in termini di reddito, occupazione, povertà, evasione fiscale, peso dei dipendenti pubblici, infrastrutture, funzionamento della giustizia, partecipazione elettorale, istruzione, asili nido, percentuale di Neet (giovani che non studiano, non lavorano, non stanno imparando un lavoro). Solo su una variabile, l’accesso alla banda larga, il Mezzogiorno appare più avanti del resto del Paese. "
Questo spiega bene perché a Nord la flat tax, vale a dire la riduzione delle tasse, ha decisamente più seduzione rispetto al Sud dove il problema, grazie alla disoccupazione e ai bassi redditi, il problema è risolto a monte : le tasse proprio non si pagano. 
E viceversa, per il cd. reddito di cittadinanza, che più giusto sarebbe chiamare, come all'estero, reddito minimo. 
Nel Nord dove il lavoro è problema meno assillante, la gente è meno interessata, mentre a sud abbiamo avuto i desolanti episodi di file di persone che all'indomani delle elezioni già stavano fuori dai Caf per presentare domanda per l'accesso alla nuova forma di assistenza di Stato. 
Se l'Italia è divisa così nettamente, osserva Ricolfi, forse è il caso di rassegnarsi ed immaginare due diverse politiche economiche sociali, da portare avanti almeno fino a quando la forbice non si sarà ridotta. Il maxi job sarebbe una delle strade da percorrere, con completa decontribuzione sociale per quelle imprese che a sud veramente creano nuovi posti di lavoro. 
L'idea è semplice buon senso, ma ve li immaginate gli strilli dei benpensanti alla proposta di un Def che esplicitamente prevede due diverse politiche economiche, ufficializzando la diarchia esistente ? La retorica e la demagogia da noi sono assolutamente trasversali.
Buona Lettura 




Due stati
20 marzo 2018 - di Luca Ricolfi

Risultati immagini per I DUE STATI RICOLFI

EconomiaPolitica
Di una frattura fra Nord e Sud si parla da quando esiste lo Stato italiano, dunque dal 1861. Il modo in cui se ne parla, le modalità con cui la si declina, le linee lungo le quali se ne tracciano i confini, sono invece piuttosto mutevoli.

Fino agli anni ’50 del Novecento, fondamentalmente, il problema è stato pensato come “questione meridionale”, una grande sfida politica che ha appassionato legioni di meridionalisti, fin dalla fine dell’800: da Giustino Fortunato a Francesco Saverio Nitti, da Antonio Gramsci a Pasquale Villari, da Gaetano Salvemini a Pasquale Saraceno. Nel meridionalismo classico il Sud da sostenere e sviluppare coincideva con l’intero Mezzogiorno statistico (inclusi Abruzzo e Sardegna), e arrivava talora ad includere le aree più depresse del Lazio, oggetto anch’esse di attenzione da parte della Cassa del Mezzogiorno. Questo confine fra le due italie sarà poi ribadito e precisato dagli studiosi di scienza politica, che sulla scorta del famoso libro di Robert Putnam sulla “tradizione civica” delle regioni italiane (1993), fisseranno la linea di demarcazione fra l’Italia arretrata, che non ha avuto la civiltà comunale e perciò scarseggia di fiducia interpersonale, e l’Italia civica, in cui la civiltà comunale ha creato le condizioni dello sviluppo, lungo la linea che va dalla foce della Fiora (sud della Toscana) alla foce del Tronto (sud delle Marche). E sarà un politologo italiano, Roberto Cartocci, a mostrare che quel confine coincide con impressionante precisione con quello del voto di scambio, o clientelare, che si concentra a Sud di quella linea ideale.

Questa visione di un’Italia divisa in due, con il Sud (più o meno allargato) da un lato, e il Centro-Nord (più o meno ristretto) dall’altro non è mai venuta meno. Il problema, per gli studiosi, riguardava solo la questione dei confini esatti fra le due italie, perché due regioni, Lazio e Marche, si venivano spesso a trovare “a cavallo” fra il Centro-Nord e il Sud.

Accanto a questo filone di pensiero, sostanzialmente dualista, a partire dagli anni ’60 si è sempre più irrobustito un altro modo di descrivere l’Italia, più legato agli esiti elettorali. Secondo questo modo di vedere l’Italia elettorale era suddivisa in più di due aree relativamente omogenee: almeno quattro secondo alcuni, tre secondo altri. L’elemento comune di queste analisi, dovute soprattutto all’Istituto Cattaneo, ad Arnaldo Bagnasco e a Giorgio Fuà, era di vedere il centro-Nord come un luogo relativamente eterogeneo, suddiviso fra regioni di antica industrializzazione (Piemonte, Lombardia, Liguria), dominate dalla grande impresa, e regioni della terza Italia, dominate dalla piccola impresa, e divise quasi esclusivamente dalla cultura politica, con il Triveneto cattolico contrapposto alle Regioni rosse.

Nel 1992-1994, con la fine della prima Repubblica e la netta vittoria del centro-destra nelle regioni settentrionali, lo schema delle molte italie subisce una nuova e ulteriore torsione: ora la frattura fondamentale pare innanzitutto fra il Nord, produttivo e insofferente per l’oppressione fiscale, e il resto del Paese. E infatti da allora, e per molti anni, si parlerà di “questione settentrionale”, e il federalismo fiscale diventerà nel giro di pochi anni una specie di tema fisso della politica italiana.

Ma che cosa accade il 4 marzo 2018? Che tipo di paese è quello che esce dalle urne?

A mio parere è un paese che torna ad essere spaccato essenzialmente in due, fra il Sud e il resto della penisola, come era risultato nitidamente nel 1992, ultime elezioni della prima Repubblica. Allora il Sud si distingueva dal resto d’Italia perché vi resisteva la Democrazia cristiana, esattamente come oggi il Sud si distingue dal resto d’Italia per l’insediamento dei Cinque Stelle. Ed è impressionante la precisione con cui la carta geopolitica di oggi riflette quella di allora, regione per regione, provincia per provincia: i Cinque Stelle hanno sfondato là dove maggiore era la forza della Dc. L’unica differenza significativa è che oggi le Marche sono, per così dire, annesse al Mezzogiorno grillino, mentre il Lazio è annesso al centro-nord presidiato dal centro-destra e dal Pd.

Abbiamo provato a metterle a confronto, queste due italie che il voto del cinque marzo ci ha consegnato, e l’esito non potrebbe essere più nitido: un abisso le divide in termini di reddito, occupazione, povertà, evasione fiscale, peso dei dipendenti pubblici, infrastrutture, funzionamento della giustizia, partecipazione elettorale, istruzione, asili nido, percentuale di Neet (giovani che non studiano, non lavorano, non stanno imparando un lavoro). Solo su una variabile, l’accesso alla banda larga, il Mezzogiorno appare più avanti del resto del Paese.

È come se, in Italia, coesistessero due Stati, che in oltre 150 anni non sono riusciti in alcun modo a raggiungere un accettabile livello di convergenza.

Ma se siamo di fronte a due Stati, con economie e strutture sociali radicalmente diverse, forse sarebbe giunto il momento di prenderne atto nel solo modo conseguente, ovvero pensando a due politiche economiche radicalmente diverse per queste due italie. Proprio perché tutto è profondamente diverso, risulta difficile pensare che un’unica ricetta vada bene per tutto il paese
Prendiamo il tema delle tasse. Qualcuno si può stupire che la flat tax non abbia sedotto gli elettori meridionali? Quel problema il Mezzogiorno l’ha risolto da sempre autoriducendosele, le tasse. Il problema, semmai, sono le “condizioni al contorno” dell’attività economica: infrastrutture precarie o incomplete, mancanza di asili nido, una sanità disastrata, una scuola di bassa qualità, una burocrazia inefficiente nonostante l’eccesso di personale. Forse è di qui che una politica per il Mezzogiorno dovrebbe prendere le mosse. Naturalmente il Mezzogiorno ha anche bisogno, e da subito, di più posti di lavoro, proprio per far sì che il reddito minimo (impropriamente chiamato reddito di cittadinanza) sia l’unica prospettiva. Ma come fare?

Un’idea potrebbe essere di riprendere, magari solo per il Mezzogiorno, la proposta del maxi-job che la Fondazione David Hume aveva lanciato nel 2014, e che era stata raccolta sia da Susanna Camusso sia da Giorgia Meloni: azzerare tutti i contributi sociali non già per chi, genericamente, assume, ma per quelle imprese che aumentano l’occupazione e lo fanno con lavori veri, a tempo pieno o quasi pieno (di qui il prefisso maxi, che si contrappone ai mini-job della Germania). Un’altra idea, e in un certo senso una misura complementare ai maxi-job, potrebbe essere di favorire l’occupazione femminile nel Mezzogiorno (dove è a livelli bassissimi) con un grande piano di costruzione di asili nido, che oggi sono drammaticamente scarsi (1 bambino su 9).

Un ragionamento analogo e speculare, probabilmente, meriterebbe di essere fatto per il Centro-Nord. Qui una misura chiave sarebbe disboscare la selva degli adempimenti burocratici, e rendere più rapido il rilascio di permessi e autorizzazioni, specie in ambito edilizio e nel commercio. Quanto ai bilanci delle imprese, più che sul contenimento del costo del lavoro, forse sarebbe meglio puntare direttamente sulla riduzione dell’imposta societaria (Ires e Irap). L’evidenza econometrica suggerisce che, se si vuol accelerare la crescita del Pil, è molto più efficiente puntare sulla riduzione delle tasse sui profitti che ridurre la pressione contributiva, o la pressione fiscale in generale.

Con le risorse degli 80 euro e della decontribuzione (circa 20 miliardi l’anno), anziché sostenere gli stipendi di chi un lavoro già ce l’ha, forse sarebbe stato meglio pensare a una più drastica riduzione dell’imposta societaria, e a un sostegno ai veri poveri, ossia a chi guadagna così poco da non poter usufruire di alcuno sgravio fiscale. Certo, lo si sarebbe dovuto fare mirando alla povertà assoluta, anziché alla povertà relativa, e tenendo conto del livello dei prezzi, come proposto a suo tempo dall’Istituto Bruno Leoni: un sussidio di 500 euro a Caltanissetta pesa molto di più, in termini di potere di acquisto, di un sussidio di 500 euro a Milano.

Se il Pd lo avesse fatto, probabilmente l’economia italiana e l’occupazione avrebbero ricevuto una spinta maggiore, e il Sud, in cui si concentrano la maggior parte dei poveri assoluti, si sarebbe sentito meno solo. Il successo dei Cinque Stelle è anche il frutto di anni di superficialità, omissioni, e slogan vuoti nelle politiche per il Mezzogiorno.

Immagine correlata



mercoledì 21 marzo 2018

PER PANEBIANCO GOVERNO 5STELLE PD MALE MINORE RISPETTO AD UNO GRILLINI LEGA

Risultati immagini per alleanza lega m5s

Per il professor Panebianco, che non può certo essere accusato di essere persona di simpatie sinistresi (solidamente occidentale, atlantico e liberale) , un governo 5Stelle-PD sarebbe male minore rispetto ad uno 5Stelle- Lega, che pure pare prendere corpo sullo sfondo.
I motivi li spiega con chiarezza nell'editoriale odierno del Corsera.
In sintesi, per quanto il noto politologo non condivida la visione di un 5 Stelle "costola della sinistra",  ancorché indubbiamente una consistente parte (nel 2013 un terzo abbondante, oggi aspetto che i soloni dei flussi ci dicano se e quanto quella percentuale sia cresciuta ) degli elettori vengano da quell'area, il saldarsi coi piddini, forza politica comunque "sistemica", sarebbe meno dirompente rispetto alla coalizione, pure numericamente più salda in Parlamento, tra grillini e leghisti (tra l'altro con Forza Italia e anche la Meloni non più pregiudizialmente esclusi o auto).
Panebianco riprende un concetto proposto anche da altri osservatori, tra cui il mio prediletto Luca Ricolfi, secondo il quale lo storico dualismo tra destra sinistra, conservatori e progressisti, statalisti e anti, sarebbe superato da quello tra "chiusi" ed "aperti" alla società di tipo globale che abbiamo conosciuto negli ultimi lustri. 
In questo senso nota che se da una parte è vero che Lega e 5 Stelle , i "chiusi", (dovrebbe aggiungere però anche Fratelli d'Italia) rappresentano il 50% dell'elettorato votante, c'è un corpo altrettanto (quasi) consistente, di "aperti".
La differenza è che questo fronte è più frastagliato e quindi debole.
Ci vorrebbe un leader nuovo - lui cita un Berlusconi o un Renzi degli inizi - per provare a dare unità ed organizzazione a questa parte di Italia , che però all'orizzonte non si vede.
Cita come esempio il solito Macron, ricordando giustamente peraltro che se l'uomo è oggi Presidente dei francesi lo si deve anche al sistema elettorale di quel paese.
Verissimo, ma proprio questa considerazione rivela i limiti del ragionamento proposto.
Macron ha approfittato di una serie di diverse congiunture favorevoli, tre  principali :
1) la catastrofe del partito socialista
2) lo scandalo della moglie del repubblicano Fillon, favorito fino a quel momento da tutti i sondaggi
3) il ballottaggio con la Le Pen, con il consueto compattamento del fronte anti lepenista, già verificatosi a suo tempo favorendo Chirac. 
Con tutto ciò, Macron è stato votato solo dal 24% dei francesi recatisi alle urne ( il 22% è restato a casa) al primo turno, e quindi è espressione identitaria di un francese su 5. Pochino, e infatti le sue riforme, che in larga parte condiviso, sono fortemente osteggiate da parti consistenti della popolazione (pensionati e sindacati in testa). 
Certo, siccome ci piace ( a me e a Panebianco, ma all'altra 80% dei francesi ?) , ci va bene. 
Ma se col consenso del 20% fosse stata eletta la Le Pen, o Malenchon , ci sarebbe andato bene lo stesso ?
Discorso fatto più volte.
In democrazia può vincere chi non ci piace, e avrà diritto di governare, però NON solo per il fatto di essere arrivato primo, ma per poter contare su un consenso minimo adeguato. 
Quindi ben venga la riforma - ennesima - della legge elettorale, con la reintroduzione del premio di maggioranza, ma, come richiesto dalla Corte Costituzionale, a condizione che si raggiunga un livello minimo di consenso, senza il quale, al massimo si può prevedere un premio al vincitore, che però non garantisca il 51% dei seggi, e il resto sia distribuito proporzionalmente. 
Buona Lettura 


DUE ITALIE E LA SFIDA CHE VERRÀ
Consideriamo due scenari alternativi: un governo 5Stelle sostenuto dal Pd e un governo 5Stelle-Lega. Le differenze non sarebbero solo programmatiche

  di Angelo Panebianco

Risultati immagini per alleanza lega m5s

In politica i simboli contano quanto gli interessi. E qualche volta di più. Tra le ipotesi di governo che si fanno ce n’è qualcuna simbolicamente neutrale(ad esempio,un «governo del Presidente» sostenuto dalla non-sfiducia delle forze parlamentari)e qualcuna ad alto contenuto simbolico. Consideriamo due scenari alternativi: un governo 5Stelle sostenuto dal Pd e un governo 5Stelle-Lega. Le differenze non sarebbero solo programmatiche. Perché nel primo caso (governo 5 Stelle-Pd) per molti, per tanti, verrebbe per lo meno salvaguardata l’illusione di una certa continuità con il passato, con le tradizioni politiche del Paese. Nel secondo caso, invece, il passato verrebbe brutalmente archiviato e i più si troverebbero di fronte a quello che riterrebbero un «mostro», una rottura radicale con abitudini, con schemi mentali collaudati, si troverebbero a fronteggiare l’ignoto senza possedere gli strumenti intellettuali per decifrarlo e comprenderlo.

Paolo Mieli (Corriere della Sera, 15 marzo) ha documentato quanto sia ampio il fronte di coloro — appartenenti all’area che un tempo si sarebbe detta degli «intellettuali di sinistra» — che premono sul Pd per spingerlo ad accordarsi con i 5 Stelle. Poiché non tutti costoro sono degli sprovveduti incapaci di capire quanti danni un simile governo potrebbe arrecare al Paese, si deve forse concludere che a spiegarne gli atteggiamenti non sia la politica ma la psicologia.

Proporre un governo 5 Stelle-Pd è un modo per tenersi fedeli (o credere di tenersi fedeli) al proprio passato di «uomini e donne di sinistra». Un governo 5 Stelle-Pd — essi pensano — potrebbe essere, almeno in teoria, ricondotto entro binari collaudati, interpretato alla luce delle categorie del passato: sarebbe — secondo loro — un «governo di sinistra» (l’opposto, comunque, di un governo di centrodestra sostenuto dal Pd). Si noti che questa rassicurante interpretazione di un governo 5 Stelle-Pd non circolerebbe solo nella cosiddetta opinione pubblica di sinistra. Gli elettori della destra lo considererebbero allo stesso modo, ossia come un governo di sinistra. Insomma, lo scenario 5 Stelle-Pd è il più tranquillizzante per tutti: si tratterebbe di una esperienza riconducibile — con qualche sforzo — al tradizionale mondo simbolico a una sola dimensione: la dimensione sinistra-destra.

Di tutt’altra fatta sarebbe un governo 5 Stelle-Lega. La sua nascita scardinerebbe quel mondo simbolico, renderebbe obsolete le tradizionali categorie interpretative. Per questo si tratta di una ipotesi simbolicamente eversiva. Un governo 5 Stelle-Lega obbligherebbe tutti a constatare che la frattura politica fondamentale, non solo in Italia, non è più quella sinistra-destra(socialisti vs. conservatori) dei bei tempi in cui il mondo occidentale era sufficientemente stabile e ordinato da consentire che la politica si dividesse fra più Stato e meno Stato, più o meno welfare, eccetera.

La frattura fondamentale ora è fra le forze che contrastano e le forze che difendono la società aperta. E poiché la società aperta, fondata sulla democrazia rappresentativa e l’economia di mercato, è un portato della nostra appartenenza al mondo occidentale, chi la contrasta deve contrastare anche quella appartenenza, deve indebolire i legami con l’Europa e con gli Stati Uniti, deve spostare progressivamente il Paese verso una alleanza con la Russia (fra società chiuse ci si intende). Poiché viviamo nell’epoca di Donald Trump, purtroppo, un siffatto progetto, pur richiedendo un certo tempo per essere attuato, non è velleitario, non è irrealizzabile. Ma il prezzo che il Paese pagherebbe sarebbe altissimo.

Poiché non tutto il male vien per nuocere il fatto stesso che se ne parli, ossia che l’eventualità di un governo 5 Stelle-Lega non sia considerata del tutto campata in aria, può consentire ai molti che non lo hanno ancora messo a fuoco, di comprendere quale sia oggi il vero problema italiano. Il vero problema italiano è che, a fronte di una vittoria dei fautori della società chiusa che ha ottenuto, fra 5Stelle e Lega, la metà circa dei consensi espressi dal corpo elettorale, c’è dall’altro lato una percentuale amplissima di elettori che non ci stanno, che non intendono seguire quella strada. È una frazione assai grande dell’elettorato che è però divisa, dispersa, frazionata. E dunque, al momento, debolissima. 
Si tratta di un’area in cerca di rappresentanza. È la parte del Paese che non ha oggi un leader in cui riconoscersi. Le servirebbe un Renzi dei suoi dì migliori o un Berlusconi con trenta anni di meno. Forse quest’area, anche a causa di un sistema proporzionale che frammenta la rappresentanza, resterà debole e dispersa. E se sarà così, essa uscirà sconfitta dal confronto/scontro in atto .

Ma se agli amici della società aperta serve oggi un leader in cui riconoscersi e da cui farsi rappresentare/organizzare, è certo che un tale leader non potrà essere «fabbricato» da nessuno, non potrà emergere attraverso una qualche forma di cooptazione. Dovrà affermarsi con le sue sole forze. Dovrà essere un lupo, un predatore, aduso alle durezze della lotta politica ma anche in grado di proporre al Paese una visione del futuro alternativa a quella sostenuta dai nemici della società aperta. Dovrà essere capace di articolare una proposta che possa aggregare le membra sparse di un elettorato oggi ancora diviso fra formazioni riconducibili alla tradizionale frattura destra-sinistra. Grosso modo, è l’operazione realizzata da Macron in Francia. È vero, naturalmente, che egli ha potuto sfruttare a proprio vantaggio le istituzioni politiche del suo Paese. In Italia non ci sono istituzioni simili e tutto è sempre più difficile.

martedì 20 marzo 2018

TRAMONTATA L'ETA' DELLA SICUREZZA

Risultati immagini per crisi dell'occidente

Giornate dedicate ancora ai commenti post voto, che a distanza di due settimane restano l'evento politico  inevitabilmente più rilevante.
Abbiamo pubblicato in altro post una ficcante intervista di Luca Ricolfi ( https://ultimocamerlengo.blogspot.com/2018/03/ricolfi-m5stelle-e-pd-organismi.html  ), che vi consigliamo assolutamente.
Qui propongo l'intervento di Belardelli sul Corsera, più pacato ma anch'esso acuto, con un'angolazione  storica, e decisamente non consolante (personalmente peraltro non solo la condivido, ma da tempo ne sono convinto, rassegnato, assertore) : l'età del benessere, come conosciuta in occidente dalla ricostruzione post guerra e fino al nuovo secolo, non tornerà più.
L'avvento di economie importanti, come Cina, soprattutto, e India, con centinaia di milioni di abitanti, nessun costo di welfare, costituiscono una concorrenza spietata contro la quale solo le eccellenze riescono ancora a competere e vincere, mentre i prodotti medi e piccoli, quelli destinati al mercato interno, sono inevitabilmente battuti da offerte a prezzi inarrivabili. 
Non a caso Trump ha deciso di riscoprire i dazi, ed arginare la globalizzazione anche nei confronti dell'Europa.
Su La Stampa di ieri era peraltro pubblicato un interessante, e per certi versi sorprendente, servizio sui numeri della crescita occupazionale registrata nell'ultimo anno, e leggevo per esempio che a Roma veniva registrato un clamoroso + 189.000 occupati ! Ora, se c'è una cosa che nella Capitale NON si respira è proprio la brezza (vento proprio non direi) della ripresa : sulla via Appia, la mia zona, molto commerciale e popolata, ci sono saracinesche abbassate e diminuzione della qualità degli esercizi aperti, e ovunque i commercianti, così come la maggioranza dei lavoratori autonomi, professionisti compresi, lamentano una generale riduzione del reddito della persone, con conseguente ripercussione negativa sugli affari. Come mai se ben 190.000 persone, una piccola città, ha finalmente uno stipendio ?
La spiegazione sembra essere  nella natura dei contratti di impiego, per lo più a tempo determinato, e il persistere del timore per un futuro incerto che spinge al risparmio, a restare prudenti, a non spendere in generi di consumo non indispensabili , stando peraltro attenti anche nelle spese necessarie, con scelta dei discount e della distribuzione a buon mercato, con sofferenza dei negozi di livello medio-buono.
In altre parole, chi ha ancora molti soldi, spende di meno, ma se lo fa, continua a privilegiare prodotti firmati di alto prezzo, mentre gli altri, i medi, se comprano, cercano occasioni e prodotti a prezzi più bassi. Risultato : la spina dorsale delle attività medie, commerciali, artigianali, professionali, se la vede brutta.
E così, sentenzia Belardelli, continuerà ad essere.
Di qui la necessità che la classe politica inizi a rivolgere messaggi diversi, e più realistici, alla popolazione. Ma così non avviene, e anzi le parole d'ordine, che hanno fruttato nelle urne, sono state abolizione della legge Fornero, Reddito di cittadinanza (la genialata vincente su tutte), la Flat Tax al 15% (boom !!). 
Questo in un paese che ha il terzo debito pubblico del mondo e che dal 2019 non potrà più contare sull'ombrello di Draghi.
Belardelli dice di non credere che le promesse elettorali siano state prese sul serio dalla maggior parte degli elettori, ma che alla fine Lega e 5Stelle siano stati preferiti perché ALMENO mostravano di capire quali fossero le vere preoccupazioni delle persone, e quindi immigrazione e povertà, laddove la gente della sinistra bene discettava sull'antifascismo (quanto hanno preso Casa Pound e Forza Nuova ??) e sull'antirazzismo.
Forse è ottimista sul primo aspetto - la consapevolezza degli elettori della non realizzabilità di certe promesse, almeno nei termini in cui sono state formulate - ma non si può dargli torto sul secondo, vista la botta di Piddini e Liberi e belli...
Buona Lettura

Risultati immagini per corriere logo
 L’età della sicurezza è ormai finita per sempre
Sarà vitale cambiare lessico e modalità della politica, anzitutto imparando ad ascoltare i timori destinati ad accompagnarci negli anni a venire
  di Giovanni Belardelli

 

Nelle analisi del terremoto elettorale del 4 marzo sono state sottolineate soprattutto le ragioni nazionali del risultato uscito dalle urne, a cominciare dal profondo malessere sociale che si è manifestato con il voto alla Lega e ai Cinquestelle. Sarebbe bene invece ampliare lo sguardo oltre i nostri confini, senza limitarci all’usuale, ma alquanto generico, riferimento a una «ondata populista» in atto da tempo. Senza nulla voler togliere alle spiegazioni in chiave nazionale o anche regionale (la crisi delle regioni un tempo rosse o il Sud diventato pentastellato), queste andrebbero inserite in ciò che non è esagerato definire un mutamento storico-epocale: la crisi del modello — insieme economico, politico e culturale — affermatosi in Occidente negli ultimi due secoli.

Ormai non si contano più i libri che ci mettono di fronte, fin dal titolo, alla crisi, alla fine, al fallimento, al naufragio di quel modello e dell’ordine mondiale che esso aveva plasmato. Un modello e un ordine che si erano affermati grazie alla crescita economica dei Paesi occidentali; una crescita che abbiamo a lungo pensato potesse essere continua, nonostante abbia rappresentato un fenomeno circoscritto nella storia dell’umanità: ha caratterizzato infatti il periodo che va all’incirca dal 1750 al 2000. Con la globalizzazione è aumentata sì la ricchezza globale, ma questo aumento non ha toccato che in piccola parte le democrazie occidentali. E per le grandi periferie sociali dell’Occidente — gli operai americani della Rust Belt come i lavoratori disoccupati dell’Emilia un tempo rossa — rappresenta una ben magra consolazione sapere che nei vent’anni successivi alla caduta del Muro di Berlino il reddito delle classi medie emergenti in Cina e in India è aumentato dell’80 per cento, come ricorda Edward Luce in un libro intitolato (neanche a dirlo) Il tramonto del liberalismo occidentale(Einaudi).
Stefan Zweig chiamò l’epoca che precedette la Prima guerra mondiale «l’età d’oro della sicurezza», ma in realtà si sbagliava. La vera età della sicurezza è stata quella iniziata a partire dal 1945 quando, dopo un ventennio che aveva visto affermarsi in Europa una diffusa disaffezione per le istituzioni democratiche, le democrazie liberali si sono stabilizzate anche grazie a decenni di grande sviluppo economico; uno sviluppo attraverso il quale il benessere – inteso come diritto a tutta una serie di beni, servizi e stili di vita — divenne un elemento essenziale del consenso politico. È la fine di questa prospettiva di benessere e di crescita illimitati e continui, e il connesso diverso dislocarsi del potere mondiale, che stanno dietro il senso di precarietà economica, sociale, esistenziale che colpisce anche il nostro Paese. Una precarietà che potevamo sperare si attenuasse al termine della grande crisi del 2008, ma così evidentemente non è stato e dobbiamo invece abituarci a una crescita con ritmi assai inferiori a quelli di qualche decennio fa.

Dobbiamo dunque accettare che l’età della sicurezza sia finita per sempre. E che sempre più avrà importanza in politica la capacità di dare risposta a quei sentimenti di paura che hanno favorito il 4 marzo il successo di Lega e Cinquestelle. Certe loro proposte, si dirà, sono irrealizzabili. Come potrebbe Di Maio distribuire a tutti gli aspiranti un reddito di cittadinanza di 780 euro mensili? E come pensa di far fronte Salvini ai costi dell’eventuale abolizione della legge Fornero? Non credo che gli elettori, non la maggioranza almeno, abbiano creduto fino in fondo a queste promesse. Hanno però percepito in chi le formulava una disponibilità ad ascoltare certi sentimenti popolari — dalla paura di precipitare nella povertà al timore di fronte a un’immigrazione percepita come fuori controllo — che altri invece non avevano.


Non la avevano, ad esempio, quegli storici che sulla Repubblica, nelle settimane precedenti le elezioni, si sono impegnati a denunciare tutt’altra minaccia, quella rappresentata da un pericolo fascista nel quale forse neppure loro credevano. E non aveva questa capacità di ascolto, temo, una presidente della Camera che più volte ha risposto alla domanda di sicurezza con dichiarazioni di antirazzismo che mostravano scarsa attenzione per sentimenti collettivi che andrebbero sempre ascoltati, anche quando si manifestano — come spesso avviene di fronte all’immigrazione — allo stato grezzo e in forme non condivisibili. Ma nella nuova età dell’insicurezza diventerà per tutti vitale cambiare lessico e modalità della politica, anzitutto imparando ad ascoltare le paure e i timori legati a quel senso di precarietà e incertezza che è destinato ad accompagnarci negli anni a venire.

mercoledì 14 marzo 2018

PICCOLE MISERIE POST VOTO

Risultati immagini per VINCOLO DI MANDATO

Ho scritto, in varie occasioni, la mia contrarietà alla libertà di mandato degli eletti, pure previsto dalla nostra Costituzione.
Pur conoscendone le nobili ragioni storiche, non posso non rilevare la degenerazione occorsa nel tempo, specie oggi dove il rapporto tra elettori ed eletti è quasi inesistente, e chi va in Parlamento ci va, per lo più, per l'appartenenza ad un partito o ad una coalizione, non certo per la fiducia ottenuta sulla propria persona. 
Negli ultimi lustri si è assistito ad una accentuazione esponenziale del fenomeno della cd. transumanza, con parlamentari che cambiavano casacca, in quanto "responsabili" - o traditori, a seconda dell'angolatura di chi guarda - e nell'ultima legislatura si è battuto ogni record storico con più di un terzo degli eletti in mobilità.
Questo ha portato vari partiti, Cinque Stelle in testa, a invocare l'introduzione del vincolo di mandato.
Bene, fatte le elezioni, preso atto che le vittorie, pur politicamente nette, non sono sufficienti a costituire una maggioranza autonoma in Parlamento, ecco che i demonizzatori di ieri diventano corteggiatori di oggi. 
La contraddizione è evidenziata argutamente da Mattia Feltri, su La Stampa, che tra l'altro ironizza su altri aspetti desolanti del post elezioni, come le file a sud per richiedere i moduli di domanda per accedere al reddito di cittadinanza (come se la vittoria dei 5 Stelle potesse mai significare l'immediata realizzazione della più grande promessa elettorale partorita nella storia repubblicana, diminuzione delle tasse a parte) e le parole d'ordine sclerotiche dei democratici dopo la scoppola del voto.
Si può ridere, per un attimo
Ma proprio solo per un attimo





IL LATTE VERSATO
  
MATTIA FELTRI

Risultati immagini per IL LATTE VERSATO      MATTIA FELTRI Notizie in Sicilia e in Puglia di gente, soprattutto giovani, in fila ai Caf (centri di assistenza fiscale) per compilare i moduli con cui accedere al reddito di cittadinanza. È vero, fa un po’ ridere. Ma non tanto. Fa soprattutto dispiacere. Specialmente se si pensa ai molti che crederanno nell’arrivo di un reddito di cittadinanza che non arriverà mai, al massimo un ampliamento del reddito d’inclusione. Al massimo.      Nel Pd, mentre litigano su chi di loro ha preso i voti e chi non li ha presi, affrontano il tracollo con riflessioni rivoluzionarie: «Dobbiamo ripartire dai territori», «non sappiamo più parlare al nostro popolo». Ecco, anche questo fa dispiacere, ma fa già più ridere. Molto di più . Il Movimento Cinque Stelle (come ha segnalato Jacopo Iacoboni) vuole reintrodurre il vincolo di mandato - chi tradisce il mandato degli elettori deve dimettersi - e cerca qualcuno che voti la fiducia al governo di Di Maio, e cioè tradisca il mandato dei cittadini, e dunque si debba poi dimettere facendo mancare la fiducia al governo di Di Maio.       Questo fa decisamente ridere. Però non si può ridere dei cinquestelle perché dopo prendono ancora più voti, dicono. Allora ridiamo di altro. Renato Brunetta, Forza Italia, vuole un mandato esplorativo per il centrodestra sulla base dell’innovativo progetto di Salvini: chiedere il sostegno non a un partito o all’altro, ma ai singoli parlamentari. Speriamo vadano in coppia a proporlo a Mattarella di modo che si faccia una bella risata anche lui. Diceva uno saggio: ridiamo sul latte versato.  NCOLO DI MANDATO

Notizie in Sicilia e in Puglia di gente, soprattutto giovani, in fila ai Caf (centri di assistenza fiscale) per compilare i moduli con cui accedere al reddito di cittadinanza. È vero, fa un po’ ridere. Ma non tanto. Fa soprattutto dispiacere. Specialmente se si pensa ai molti che crederanno nell’arrivo di un reddito di cittadinanza che non arriverà mai, al massimo un ampliamento del reddito d’inclusione. Al massimo. 

Nel Pd, mentre litigano su chi di loro ha preso i voti e chi non li ha presi, affrontano il tracollo con riflessioni rivoluzionarie: «Dobbiamo ripartire dai territori», «non sappiamo più parlare al nostro popolo». Ecco, anche questo fa dispiacere, ma fa già più ridere. Molto di più .
Il Movimento Cinque Stelle (come ha segnalato Jacopo Iacoboni) vuole reintrodurre il vincolo di mandato - chi tradisce il mandato degli elettori deve dimettersi - e cerca qualcuno che voti la fiducia al governo di Di Maio, e cioè tradisca il mandato dei cittadini, e dunque si debba poi dimettere facendo mancare la fiducia al governo di Di Maio.  

Questo fa decisamente ridere. Però non si può ridere dei cinquestelle perché dopo prendono ancora più voti, dicono. Allora ridiamo di altro. Renato Brunetta, Forza Italia, vuole un mandato esplorativo per il centrodestra sulla base dell’innovativo progetto di Salvini: chiedere il sostegno non a un partito o all’altro, ma ai singoli parlamentari. Speriamo vadano in coppia a proporlo a Mattarella di modo che si faccia una bella risata anche lui. Diceva uno saggio: ridiamo sul latte versato.