martedì 20 marzo 2018

TRAMONTATA L'ETA' DELLA SICUREZZA

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Giornate dedicate ancora ai commenti post voto, che a distanza di due settimane restano l'evento politico  inevitabilmente più rilevante.
Abbiamo pubblicato in altro post una ficcante intervista di Luca Ricolfi ( https://ultimocamerlengo.blogspot.com/2018/03/ricolfi-m5stelle-e-pd-organismi.html  ), che vi consigliamo assolutamente.
Qui propongo l'intervento di Belardelli sul Corsera, più pacato ma anch'esso acuto, con un'angolazione  storica, e decisamente non consolante (personalmente peraltro non solo la condivido, ma da tempo ne sono convinto, rassegnato, assertore) : l'età del benessere, come conosciuta in occidente dalla ricostruzione post guerra e fino al nuovo secolo, non tornerà più.
L'avvento di economie importanti, come Cina, soprattutto, e India, con centinaia di milioni di abitanti, nessun costo di welfare, costituiscono una concorrenza spietata contro la quale solo le eccellenze riescono ancora a competere e vincere, mentre i prodotti medi e piccoli, quelli destinati al mercato interno, sono inevitabilmente battuti da offerte a prezzi inarrivabili. 
Non a caso Trump ha deciso di riscoprire i dazi, ed arginare la globalizzazione anche nei confronti dell'Europa.
Su La Stampa di ieri era peraltro pubblicato un interessante, e per certi versi sorprendente, servizio sui numeri della crescita occupazionale registrata nell'ultimo anno, e leggevo per esempio che a Roma veniva registrato un clamoroso + 189.000 occupati ! Ora, se c'è una cosa che nella Capitale NON si respira è proprio la brezza (vento proprio non direi) della ripresa : sulla via Appia, la mia zona, molto commerciale e popolata, ci sono saracinesche abbassate e diminuzione della qualità degli esercizi aperti, e ovunque i commercianti, così come la maggioranza dei lavoratori autonomi, professionisti compresi, lamentano una generale riduzione del reddito della persone, con conseguente ripercussione negativa sugli affari. Come mai se ben 190.000 persone, una piccola città, ha finalmente uno stipendio ?
La spiegazione sembra essere  nella natura dei contratti di impiego, per lo più a tempo determinato, e il persistere del timore per un futuro incerto che spinge al risparmio, a restare prudenti, a non spendere in generi di consumo non indispensabili , stando peraltro attenti anche nelle spese necessarie, con scelta dei discount e della distribuzione a buon mercato, con sofferenza dei negozi di livello medio-buono.
In altre parole, chi ha ancora molti soldi, spende di meno, ma se lo fa, continua a privilegiare prodotti firmati di alto prezzo, mentre gli altri, i medi, se comprano, cercano occasioni e prodotti a prezzi più bassi. Risultato : la spina dorsale delle attività medie, commerciali, artigianali, professionali, se la vede brutta.
E così, sentenzia Belardelli, continuerà ad essere.
Di qui la necessità che la classe politica inizi a rivolgere messaggi diversi, e più realistici, alla popolazione. Ma così non avviene, e anzi le parole d'ordine, che hanno fruttato nelle urne, sono state abolizione della legge Fornero, Reddito di cittadinanza (la genialata vincente su tutte), la Flat Tax al 15% (boom !!). 
Questo in un paese che ha il terzo debito pubblico del mondo e che dal 2019 non potrà più contare sull'ombrello di Draghi.
Belardelli dice di non credere che le promesse elettorali siano state prese sul serio dalla maggior parte degli elettori, ma che alla fine Lega e 5Stelle siano stati preferiti perché ALMENO mostravano di capire quali fossero le vere preoccupazioni delle persone, e quindi immigrazione e povertà, laddove la gente della sinistra bene discettava sull'antifascismo (quanto hanno preso Casa Pound e Forza Nuova ??) e sull'antirazzismo.
Forse è ottimista sul primo aspetto - la consapevolezza degli elettori della non realizzabilità di certe promesse, almeno nei termini in cui sono state formulate - ma non si può dargli torto sul secondo, vista la botta di Piddini e Liberi e belli...
Buona Lettura

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 L’età della sicurezza è ormai finita per sempre
Sarà vitale cambiare lessico e modalità della politica, anzitutto imparando ad ascoltare i timori destinati ad accompagnarci negli anni a venire
  di Giovanni Belardelli

 

Nelle analisi del terremoto elettorale del 4 marzo sono state sottolineate soprattutto le ragioni nazionali del risultato uscito dalle urne, a cominciare dal profondo malessere sociale che si è manifestato con il voto alla Lega e ai Cinquestelle. Sarebbe bene invece ampliare lo sguardo oltre i nostri confini, senza limitarci all’usuale, ma alquanto generico, riferimento a una «ondata populista» in atto da tempo. Senza nulla voler togliere alle spiegazioni in chiave nazionale o anche regionale (la crisi delle regioni un tempo rosse o il Sud diventato pentastellato), queste andrebbero inserite in ciò che non è esagerato definire un mutamento storico-epocale: la crisi del modello — insieme economico, politico e culturale — affermatosi in Occidente negli ultimi due secoli.

Ormai non si contano più i libri che ci mettono di fronte, fin dal titolo, alla crisi, alla fine, al fallimento, al naufragio di quel modello e dell’ordine mondiale che esso aveva plasmato. Un modello e un ordine che si erano affermati grazie alla crescita economica dei Paesi occidentali; una crescita che abbiamo a lungo pensato potesse essere continua, nonostante abbia rappresentato un fenomeno circoscritto nella storia dell’umanità: ha caratterizzato infatti il periodo che va all’incirca dal 1750 al 2000. Con la globalizzazione è aumentata sì la ricchezza globale, ma questo aumento non ha toccato che in piccola parte le democrazie occidentali. E per le grandi periferie sociali dell’Occidente — gli operai americani della Rust Belt come i lavoratori disoccupati dell’Emilia un tempo rossa — rappresenta una ben magra consolazione sapere che nei vent’anni successivi alla caduta del Muro di Berlino il reddito delle classi medie emergenti in Cina e in India è aumentato dell’80 per cento, come ricorda Edward Luce in un libro intitolato (neanche a dirlo) Il tramonto del liberalismo occidentale(Einaudi).
Stefan Zweig chiamò l’epoca che precedette la Prima guerra mondiale «l’età d’oro della sicurezza», ma in realtà si sbagliava. La vera età della sicurezza è stata quella iniziata a partire dal 1945 quando, dopo un ventennio che aveva visto affermarsi in Europa una diffusa disaffezione per le istituzioni democratiche, le democrazie liberali si sono stabilizzate anche grazie a decenni di grande sviluppo economico; uno sviluppo attraverso il quale il benessere – inteso come diritto a tutta una serie di beni, servizi e stili di vita — divenne un elemento essenziale del consenso politico. È la fine di questa prospettiva di benessere e di crescita illimitati e continui, e il connesso diverso dislocarsi del potere mondiale, che stanno dietro il senso di precarietà economica, sociale, esistenziale che colpisce anche il nostro Paese. Una precarietà che potevamo sperare si attenuasse al termine della grande crisi del 2008, ma così evidentemente non è stato e dobbiamo invece abituarci a una crescita con ritmi assai inferiori a quelli di qualche decennio fa.

Dobbiamo dunque accettare che l’età della sicurezza sia finita per sempre. E che sempre più avrà importanza in politica la capacità di dare risposta a quei sentimenti di paura che hanno favorito il 4 marzo il successo di Lega e Cinquestelle. Certe loro proposte, si dirà, sono irrealizzabili. Come potrebbe Di Maio distribuire a tutti gli aspiranti un reddito di cittadinanza di 780 euro mensili? E come pensa di far fronte Salvini ai costi dell’eventuale abolizione della legge Fornero? Non credo che gli elettori, non la maggioranza almeno, abbiano creduto fino in fondo a queste promesse. Hanno però percepito in chi le formulava una disponibilità ad ascoltare certi sentimenti popolari — dalla paura di precipitare nella povertà al timore di fronte a un’immigrazione percepita come fuori controllo — che altri invece non avevano.


Non la avevano, ad esempio, quegli storici che sulla Repubblica, nelle settimane precedenti le elezioni, si sono impegnati a denunciare tutt’altra minaccia, quella rappresentata da un pericolo fascista nel quale forse neppure loro credevano. E non aveva questa capacità di ascolto, temo, una presidente della Camera che più volte ha risposto alla domanda di sicurezza con dichiarazioni di antirazzismo che mostravano scarsa attenzione per sentimenti collettivi che andrebbero sempre ascoltati, anche quando si manifestano — come spesso avviene di fronte all’immigrazione — allo stato grezzo e in forme non condivisibili. Ma nella nuova età dell’insicurezza diventerà per tutti vitale cambiare lessico e modalità della politica, anzitutto imparando ad ascoltare le paure e i timori legati a quel senso di precarietà e incertezza che è destinato ad accompagnarci negli anni a venire.

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