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martedì 10 aprile 2018

IN GUERRA CHI ATTACCA PER PRIMO E' CONVINTO DI VINCERE. POI MAGARI PERDE

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Come sempre argute e brillanti le divagazioni storiche di Alessandro Fugnoli utilizzate per cercare di rendere più chiare le dinamiche economiche.
Stavolta l'oggetto dell'approfondimento è la "guerra" dei dazi, mossa da Trump essenzialmente contro la Cina, con rimbalzi sull'Europa. 
L'offensiva parte dagli USA, e chi muove per primo in genere lo fa convinto di avere in mano gli assi vincenti.
Il problema, osserva Fugnoli, è che, prestando sola attenzione ai fattori esterni, ritenuti "obiettivi", si sottovalutino quelli "interni".
E cita ad esempio casi classici della storia dove proprio il crollo del fronte interno ha comportato la sconfitta : la Francia di Napoleone III nella guerra contro la Prussia, la Germania nella prima guerra mondiale (finì con la sconfitta del Kaiser con le truppe tedesche ancora in territorio francese...), fino ai tempi più recenti, con gli esempi noti del Vietnam e anche dell'Afghanistan (anche se il ritiro dell'Armata Rossa lo vedo più come un' ultima spallata, ché il collasso dell'URSS fu economico, non certo militare). 
Nel caso della guerra commerciale tra USA e Cina, Fugnoli rileva come i secondi potranno contare su un fronte interno ben solido, e questo per la semplice ragione che in Cina vige un'autocrazia, se proprio non vogliamo chiamarla dittatura, e le categorie che saranno penalizzate dai dazi americani, se la prenderanno col diavolo statunitense, non certo col proprio governo.
In Occidente non va così, lo sappiamo molto bene. 
Fugnoli, come sempre, è ottimista, e conclude che alla fine Trump e il suo collega cinese troveranno un compromesso.
Confidiamo che sia così.
Concludo con una provocazione.
Siamo sicuri che se la spina dorsale dei popoli "liberi", quelli che vivono nelle democrazie,fosse l'attuale, la seconda guerra mondiale sarebbe finita come sappiamo ?
Io qualche dubbio ormai ce l'ho.
Ma la storia non si fa coi se, e spesso è meglio così.
Buona Lettura 


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IL FRONTE INTERNO

 Commercio e tecnologia, vincitori e perdenti

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di  Alessandro Fugnoli 

Chi muove guerra a qualcuno è sempre convinto di poter vincere, altrimenti se ne starebbe calmo e penserebbe semmai a difendersi. Alla resa dei conti, tuttavia, capita spesso che chi muove guerra finisca sconfitto. È evidente, in questi casi, la sopravvalutazione delle proprie forze e la sottovalutazione di quelle dell’avversario.
Se il calcolo delle forze in campo si rivela ex post frequentemente sbagliato è perché viene effettuato quasi esclusivamente sul fronte esterno. Se si hanno più uomini, carri armati e aerei del nemico, se si hanno una tecnica di combattimento migliore e un terreno di scontro favorevole, allora la vittoria è considerata altamente probabile. Raramente si tiene conto del fronte interno ed è qui, la maggior parte delle volte, che casca l’asino.
La guerra franco-prussiana del 1870-71, i due conflitti mondiali, la guerra fredda e la guerra del Vietnam sono stati persi dagli attaccanti per un calcolo sbagliato sulla tenuta dei fronti interni, il proprio, quello avversario e quello dei paesi terzi.
Napoleone III mosse guerra alla Germania cavalcando l’ondata nazionalista, ma alle prime difficoltà il suo fronte interno si sfaldò e la Francia, con la Comune di Parigi, precipitò nella guerra civile. Nella prima guerra mondiale la Germania sottovalutò il fronte interno americano, ritenuto isolazionista a oltranza, e fu gravemente  indebolita dal pacifismo rivoluzionario interno. Nella seconda guerra mondiale il fronte interno tedesco tenne fino all’ultimo, ma la Germania sottovalutò di nuovo il fronte interno americano e la sua disponibilità a tornare a combattere in Europa, non comprese l’incredibile tenuta del fronte interno russo e sopravvalutò la tenuta interna dell’alleato fascista.
La guerra del Vietnam fu persa dall’America attaccante tanto sul fronte interno quanto per una sottovalutazione della tenuta del fronte interno nordvietnamita. Il blocco sovietico iniziò a collassare, dopo una lunga fase di espansione nel Terzo Mondo, quando il consenso interno all’occupazione dell’Afghanistan venne meno.
Quando Trump ha deciso di muovere i primi passi di una guerra commerciale alla Cina il tweet di annuncio ha tenuto a presentarla come destinata a una vittoria facile e sicura. Come esportatori netti hanno da perdere molto più di noi, ha scritto. Questo, in termini economici, è assolutamente vero, ma equivale a un’analisi del solo fronte esterno. Quanto al fronte interno, Trump ha pensato di rafforzare i suoi consensi negli stati manifatturieri del Midwest e in effetti, stando ai sondaggi, la sua popolarità è migliorata e ha raggiunto quella di Obama dopo lo stesso numero di mesi alla Casa Bianca.
Trump potrebbe però avere commesso tre errori di valutazione, di cui due sui rispettivi fronti interni.
Il primo è che in un conflitto non esce necessariamente vincitore chi ha meno da perdere ma chi è più disposto a perdere quello che ha, anche se è tanto. E qui la Cina, paese autoritario, parte molto avvantaggiata. Mentri gli importatori americani di acciaio o tecnologia cinese si sono subito stracciati le vesti all’annuncio dei dazi di Trump e mentre la Cnbc ha presentato mercoledì un ribasso di borsa dell’uno per cento come un drammatico esempio del danno che il protezionismo sta già facendo all’America, in Cina ne s suna as soc iaz ione di importatori di soia o di allevatori di maiali si è levata a criticare i dazi cinesi sui prodotti americani e tutti gli organi di informazione e i blog si sono stretti intorno al governo.
Il secondo è che la Cina non è il Giappone degli anni Ottanta e Novanta, un paese che si lasciò strapazzare commercialmente dagli Stati Uniti nel nome di  un’alleanza politica e militare. La Cina è perfettamente consapevole dalla sua forza, esibisce in tutti i modi la sua volontà di superare tecnologicamente (e quindi militarmente) gli Stati Uniti e ha un fronte interno che, quanto meno ufficialmente, è pronto a uno scontro duro.
Il terzo è che la Cina è stata perfidamente mirata nella sua risposta a Trump. I dazi sui prodotti agricoli colpiscono stati agricoli tutti trumpiani. I dazi sulle auto americane non colpiscono Detroit, che alla Cina non fa nessuna paura, ma Tesla, che a una Cina che vuole diventare rapidamente leader globale nelle auto elettriche dà fastidio. I dazi sugli aerei, per ora quelli piccoli, accelerano la corsa cinese a diventare produttore mondiale di aerei accanto a Boeing e Airbus.
È ancora presto per dire come evolverà il conflitto commerciale con la Cina, ma dai primi segnali appare che Trump e Xi , uomini pragmatici, si tengano pronti a frenare l’escalation. La Cina concederà qualcosa sulla propr ietà intel let tuale, l’America renderà più difficile l’esportazione di tecnologia e qualche dazio rimarrà qua e là. Meglio che niente per Trump, meglio di una guerra conclamata per Xi. E in più, per calmare i mercati, Trump accelererà al massimo la conclusione dei negoziati con Canada e Messico per il nuovo Nafta.
Se così sarà, si tratterà di un successo tattico per gli Stati Uniti, ma il problema strategico dello squilibrio tra la crescita tecnologica americana e quella cinese resterà intatto. Da una parte la Cina intende diventare leader globale nell’intelligenza artificiale entro il 2025 e sta aprendo alla periferia di Pechino un grande polo interamente dedicato al settore. Sono evidenti, qui, le implicazioni militari e quelle legate alla sicurezza interna. E perché sia chiaro chi comanda, il governo acquista quote e il partito comunista acquisisce seggi nei consigli d’amministrazione delle società tecnologiche.
Dall’altra parte negli Stati Uniti è in corso un conflitto civile sempre più aspro (ancora una volta risulta decisivo il fronte interno) sulla questione dello strapotere di Silicon Valley. La nuova tecnologia (soprattutto la sua componente pop) è fieramente politicizzata e usa aggressivamente le sue piattaforme, dai social network alla stampa controllata, per esercitare influenza politica e fare passare i suoi valori, dalle frontiere aperte al salario di cittadinanza pagato dalla fiscalità generale (cui ben poco contribuisce). Le nuove grandi piattaforme commerciali on line, dal canto loro, assumuno sempre di più un profilo di monopsonio e di monopolio. A questo punto la nuova tecnologia si ritrova all’improvviso politicamente isolata, viene attaccata non solo dai tweet quotidiani di Trump ma anche dalla sinistra radicale, dalla distribuzione grande e piccola e da un numero crescente di  piccole imprese che si trovano declassate a semplici fornitori delle piattaforme commerciali. È facile pensare che, alla prossima recessione, questo settore sarà al centro degli attacchi populisti di ogni provenienza (anche di establishment) e verrà passato, regolato e multato esattamente come capitò alle banche dopo il 2008.
L’Europa, dal canto suo, risulta non pervenuta. La Commissione europea ha appena stanziato un’elemosina di 50 milioni per sostenere l’intelligenza artificiale e ha pubblicato 14 paginette di strategia, di cui 12 dedicate a come combattere l’attacco dell’intelligenza artificiale alle libertà civili. Macron, avendo capito che dall’Europa non verrà fuori niente, ha commissionato al matematico macroniano Cédric Villani un piano francese piuttosto articolato e ci investirà un miliardo e mezzo, una cifra dignitosa che però scompare di fronte agli stanziamenti cinesi.




venerdì 19 gennaio 2018

MERCATI 2018 ? A GO GO !!

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In 30 anni (con questo 32...) di onesta (almeno questo !) professione forense qualche risparmio, in epoche passate - ora sarebbe impossibile, vista la contrazione - l'ho racimolato e quindi prudentemente investito.  A differenza di persone che conosco e che tutti i giorni - anche più volte lo stesso dì...- controllano lo stato del proprio gruzzolo, io lo faccio una volta l'anno, e quindi a gennaio. 
In genere poi lascio tutto com'è, a volte modifico, ma insomma, sono un semplice risparmiatore, non certo un amante del trading (non avrei la pompa, oltre che le risorse). 
Leggo comunque con curiosità le analisi di Alessandro Fugnoli, che ormai i lettori del Camerlengo conoscono.
Quella di questa settimana parte decisamente colorata di rosa, con tutti i "sistemi" economici positivi e quindi con nulla che sembri ostacolare un perfetto decollo dell'anno appena iniziato.
Ciononostante, numeri troppo brillanti, mercati troppo "gonfi" suggeriscono prudenza, e per me è facile seguire un consiglio similare.
Per altri che conosco molto meno.
Auguri a loro e buona lettura 

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ALL SYSTEMS GO

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di ALESSANDRO FUGNOLI 

Affidarsi alla forza d’inerzia o alla forza di gravità?
Chi è cresciuto negli anni d’oro dell’esplorazione spaziale ha bene in mente l’emozionante  sequenza del lungo conto alla rovescia che precede una missione. Nella grande sala del centro di controllo il direttore di lancio interroga uno dopo l’altro i responsabili di sistema (motori, software, combustibile, meteo, astrodinamica e molti altri) e se da tutti riceve il via libera (go) si rivolge al direttore di missione dichiarando All systems go e attendendo da lui il fatidico Go for launch.
Se immaginiamo qualcosa di simile nella ipotetica sala di controllo dei mercati finanziari globali abbiamo oggi una sequenza di questo tipo.

-Sottosistema economia America?
-Crescita superiore al tre per cento. Go.
-Sottosistema economia Europa?
-Crescita vicina al tre per cento. Go.
-Sottosistema economia Asia?
-Crescita al cinque per cento. Go.
-Sottosistema economia emergenti?
-Crescita sopra il tre per cento. Go.
-Ok, il sistema economia è go.

Qui Houston.

-Sistema inflazione?
-Sotto il 2 per cento ma vicina al 2 per cento in tutti i sottosistemi avanzati, incluso il Pce Usa. Al 5 per cento nei sottosistemi emergenti, stabile e nei limiti di tolleranza programmati. Aumento lento
della dispersione tra gli indicatori, ma mediana stabile.
Inflazione è go.

-Grazie inflazione. Sistema liquidità?
-Base monetaria globale in decelerazione come da programma ma comunque in aumento di un ultimo trilione nel 2018. Possibile ulteriore modesta decelerazione in Europa e Giappone, ma nei limiti di tolleranza.
Liquidità è go.

-Ottimo. Sistema tassi?
-Tassi reali a breve negativi in tutti i sottosistemi. Tassi reali a lungo fortemente negativi in Giappone, negativi in Europa e moderatamente positivi in Cina e America. Possibili criticità su tassi
a lungo America e Germania, ma allo stato tutto è nei limiti di tolleranza.
 Tassi è go.

-Bene tassi. Sistema cambi?
-Deprezzamento controllato del dollaro nei parametri e assorbibile dal resto del mondo.
Cambi è go.

-Grazie cambi. Sistema utili?
-Crescita prevista del 15 per cento in Asia e America, vicina al 10 in Europa.
Modesto downside in caso di inflazione salariale sopra le previsioni. Probabile diminuzione dei buyback compensata dall’aumento dei dividendi.
Utili è go.

-Valutazioni & flussi?
-Nei limiti di tolleranza le valutazioni, anche se nella parte alta del range. Flussi verso l’azionario in vivace ripresa ma storicamente nella norma.
Valutazioni & flussi è go.

-Ok ottimo. Sistema geopolitica?
-Corea del Nord nuclearizzata ormai accettata. Iran e Arabia Saudita
assorbiti dai problemi interni. Nafta sotto revisione ma non in pericolo.
Geopolitica è go.

-Grazie geopolitica. Tutti i sistemi sono go. Il lancio è go.


Che il lancio sia go lo abbiamo già visto in questo inizio d’anno. È trascorso
un ventesimo del 2018 e l’SP 500 è già cresciuto del 4.82 per cento.
Continuando così, il 2018 vedrebbe un apprezzamento del 96 per cento
ovvero, composto, del 156 per cento.
Come si vede, c’è qualche problema di rotta. Se la borsa sale del 96 e gli
utili, in America, del 14, vuol dire che il multiplo sale da 18 a 35. È
ragionevole questo in un contesto di ciclo maturo, di tassi in rialzo e con una
metà dall’aumento degli utili dovuta a un abbassamento di aliquote fiscali
che il prossimo Congresso potrà cancellare quando vorrà? No, non è
ragionevole. In una fase come questa è giusto partire dall’ipotesi di un
multiplo stabile, se non in leggera contrazione.
In pratica, a guardare le stime di consenso delle case, in un ventesimo di
2018 ci siamo già giocata la metà del potenziale rialzo di tutto l’anno. E
ammesso che questo sia vero, che cosa facciamo nei restanti diciannove
ventesimi di anno? Cresciamo dello 0.5 al mese? Ovvero dello 0.02 a seduta?
Certo, chi si occupa di bond venderebbe l’anima per avere lo 0.02 al giorno
(con un decennale giapponese ci vogliono tre mesi per portarsi a casa un
rendimento così) ma per chi sta in borsa questo può significare solo due cose,
in alternativa fra loro.
La prima è che il 2018 sia un anno ancora più noioso del 2017. Possibile, ma
molto improbabile.
La seconda è che si salga per inerzia ancora per qualche tempo grazie ai
flussi di chi solo ora si è mette in contatto con il rialzo azionario iniziato nel
2009 e poi si corregga.
Accade del resto un fatto curioso. Sulla Cnbc o su Bloomberg Tv sfilano
ogni giorno gestori e strategist che
 1) si dichiarano molto ottimisti sulla possibilità di raggiungere quest’anno 2850-2900 e
2) si dicono certi che ci saranno correzioni verso 2500-2600.
Oggi, a 2800, siamo molto più vicini al limite superiore che non a quello
inferiore. Se fossimo fredde macchine, di fronte a questi numeri, in questo
momento venderemmo (naturalmente per ricomprare più avanti). Poiché
siamo umani, e quindi estrapolativi, siamo invece propensi a tenere e,
magari, a comprare ancora. È troppo bello e dolce essere trasportati dal
rialzo, specialmente quando non è intervallato da fastidiose correzioni.
Che cosa vogliamo dire? Che in un anno che si profila nel complesso ancora
positivo ma più volatile bisogna guardarsi dentro e prendere una decisione.
O si mette a fuoco il 31 dicembre 2018 e si decide serenamente di rimanere
sostanzialmente fermi tutto l’anno oppure ci si attrezza per un anno volatile.
Attrezzarsi significa a sua volta due cose. La prima è dichiararsi disposti ad
aumentare la quota di azionario su ribasso (facile a dirsi, ex ante, più difficile
a farsi se la correzione è causata, come probabile, da una paura sui tassi
d’interesse o sulla crescita). La seconda, in alternativa, è creare liquidità
adesso (o comunque nei primi mesi di quest’anno) per potere reinvestirla su
livelli più convenienti.
Sono tutte alternative ragionevoli. L’importante è avere consapevolezza e

dotarsi di una strategia.

venerdì 3 novembre 2017

FUGNOLI TORNA OTTIMISTA E PER IL 2018 PREVEDE CHE "TUTTO VA BEN, MADAMA LA MARCHESA"

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Dopo diverse settimane di umore sorprendentemente mesto, direi quasi incline ad un certo pessimismo, ecco ritornato il solare Fugnoli di sempre ! 
Chissà, magari sulla mestizia accennata c'entrava qualcosa anche una qual certa simpatia del "nostro" per l'indipendentismo catalano, che sta vivendo obiettivamente giorni non facili...
Ma illazioni a parte, è un fatto che il Fugnoli odierno sprizza buon umore e manda messaggi colorati di rosa.
Certo, gli incontentabili potrebbero sempre augurarsi e anche aspettarsi di più, ma insomma, "sazi e soddisfatti", come titola l'esperto di finanza, è una gran bella prospettiva.
Uno che vive a Roma, che vede la città triste e sporca, negozi chiusi anche in vie commerciali, cittadini brontoloni se non arrabbiati, penserà : ma de che parla Fugnoli ??
Ecco, leggete e saprete ! 



SAZI E SODDISFATTI
  
Quando non c’è più niente da sognare
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Bene, ora sappiamo praticamente tutto quello che volevamo sapere. Sappiamo come si comporterà la Bce nei prossimi 18 -20 mesi (30 miliardi al mese di Qe fino a settembre, poi quasi sicuramente 10-15 per altri tre mesi e alla fine il primo rialzo dei tassi a metà 2019). Sappiamo che l’euro, grazie al permanere di un atteggiamento espansivo da parte della Bce, resterà tranquillo non lontano dai valori attuali per i prossimi mesi, con grande sollievo delle borse europee e in particolare di quella tedesca.
Sappiamo chi sarà il nuovo governatore della Fed (la colomba Powell, quasi certamente). Sappiamo che lo stock della base monetaria americana scenderà molto dolcemente e resterà comunque sopra i tre trilioni alla fine del Quantitative tightening nel 2021.
Conosciamo inoltre non solo i contorni, ma anche molti dettagli di quella riforma fiscale americana che i mercati invocano da un anno nella speranza di vedere gli utili 2018 crescere di 8-10 dollari per azione dell’SP 500. Sappiamo che in cambio dell’aliquota per le società abbassata al 20 (e non al 25-26 come si era cominciato a pensare) ci sarà un taglio in alcune detrazioni e deduzioni per fare tornare i conti e solo un piatto di lenticchie per le persone fisiche, ma ci sarà comunque un sistema fiscale un po’ più razionale e 1.5 trilioni in meno di tasse nell’arco dei prossimi 10 anni. Sappiamo che il senato peggiorerà e diluirà la proposta della camera, ma l’impianto generale resterà in piedi. Soprattutto sappiamo che la riforma fiscale ci sarà sul serio, a questo punto con un 85-90 per cento di probabilità, quando ancora un mese fa la si dava al 40-50 per cento.
Non bastasse, accanto a queste quasi certezze, ci siamo fatti l’idea (questa tutta da verificare) che avremo crescita senza inflazione per tutto l’orizzonte prevedibile, che la curva di Phillips è un’anticaglia buona solo per l’accademia, che l’inflazione salariale, grazie ai robot e all’intelligenza artificiale, non si farà viva mai più e che il rischio, se così lo vogliamo  chiamare, è di avere ancora più crescita e ancora meno inflazione di quella che ci immaginiamo oggi.
Non solo, quindi, sappiamo tutto quello che volevamo sapere. Abbiamo anche tutto quello che volevamo ottenere e ci siamo formati l’intima convinzione che, se sorprese ci saranno, saranno positive. E non dimentichiamo che, oltre al sopraggiungere di certezze e attese positive, abbiamo visto anche il ridimensionamento drastico, giustificato o meno, delle preoccupazioni geopolitiche in Asia e di quelle politiche in Europa e in America.
A questo punto che cosa possiamo ancora sognare? Quali sorprese positive ulteriori potremmo immaginare? La manna dal cielo? Sarebbe deflazionistica, perché aggraverebbe l’eccesso di offerta. I soldi dal cielo? Rischierebbero di essere inflazionistici.

Il massimo che possiamo sperare è che il futuro sia come ce lo stiamo immaginando. Se non sarà così rimarremo delusi. Se sarà così dovremo comunque scalare una marcia e passare dall’euforia di un momento magico al benessere di una crescita ordinata e duratura.

Nel primo caso, la delusione, avremo un’inversione di tendenza in borsa, non necessariamente drammatica ma netta e percepibile. Nel secondo caso potremmo invece avere una correzione dovuta a prese di profitto, in particolare in gennaio, quando i venditori potenziali corporate di oggi, bloccati dall’attesa di aliquote più basse sui capital gain, potranno finalmente sfruttare il nuovo regime fiscale. Qualcosa di più, dunque, di un normale sell the news.
Al termine della correzione, che interesserà ovviamente i titoli e i settori saliti di più in questi due anni, i mercati azionari potranno riprendere a salire in linea con gli utili senza trarre benefici ulteriori da sogni e fantasie.
Quello di oggi non è forse il migliore dei mondi possibili per chi investe ma ci si avvicina. Le banche centrali intendono mantenere i tassi reali a zero in America e negativi in Europa. Ancora una volta i possessori di bond ottengono un rinvio del bear market tante volte minacciato. La Fed sarà guidata da un uomo equilibrato e ragionevole. L’Europa ha un ritardo di quattro anni rispetto al ciclo americano e ha quindi la possibilità di assorbire abbastanza bene un’eventuale recessione negli Stati Uniti.
  
È giusto celebrare questo robusto quadro di fondo, ma non bisogna dimenticare che la storia non si ferma qui. Nulla vieta che i repubblicani perdano la maggioranza in Congresso tra 12 mesi. Nulla vieta che, già all’inizio del 2019, si profili all’orizzonte un’America inquieta pronta a cambiare di nuovo e a scegliere Sanders o la Warren come futuro presidente. Nulla vieta che i grandi monopoli della tecnologia vengano attaccati sul piano fiscale e su quello della legislazione antitrust. Nulla vieta che la Cina inciampi di nuovo, come capitò due anni fa.
Dopo nove anni di ciclo espansivo e due anni di sottociclo positivo premiati da una spettacolare rivalutazione degli asset finanziari e reali non vediamo nulla di male nel portare a casa qualcosa e nel concedersi una pausa di qualche settimana, pronti magari a rientrare più avanti.
Potrebbe essere diverso per l’Europa? La riforma fiscale americana, in teoria, è negativa per le imprese europee che vedono i loro concorrenti d’oltreoceano improvvisamente più profittevoli e competitivi, ma i mercati non ragionano così. L’arresto del rialzo dell’euro è un fattore di sollievo che compensa pienamente la modesta perdita di competitività e nulla vieta che l’Europa abbassi anch’essa, nei prossimi anni, le aliquote per le imprese.
Per le borse europee, quindi, proponiamo un alleggerimento modesto, accompagnato da una rotazione parziale e temporanea dall’Italia alla Germania.




Alessandro Fugnoli

martedì 10 ottobre 2017

"IL TUNNEL IN FONDO ALLA LUCE " : LA NUOVA SUGGESTIVA RIFLESSIONE DI FUGNOLI SULL'ECONOMIA CHE VERRA'

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Fugnoli non si fida, e se non lo fa lui, un invidiabile ottimista di natura, figuriamoci noi...
Di cosa non si fida l'apprezzato analista finanziario - nonché uomo di ammirevole cultura variegata - esattamente ? 
Del pressoché costante, ancorché moderato, rialzo borsistico, con un perdurante equilibrio tra inflazione e livello di crescita. 
Una cosa del genere, ricorda il nostro, era avvenuto nei miracolosi anni '60 del secolo scorso, il boom economico, la ricostruzione, avviata nel dopo guerra, che iniziava a portare i suoi fertili frutti. 
Anzi, sottolinea Fugnoli, all'epoca la crescita era ben più vigorosa dell'attuale.
A quel punto i politici, per aumentare o quantomeno conservare il consenso dei rispettivi popoli, pensarono bene di sfruttare la marea positiva per aumentare la spesa pubblica, elargendo generosamente posti di lavoro - e stipendi - in realtà improduttivi, allargando a dismisura il welfare.
Vennero fatte anche cose buone, ma molti più sprechi e ingiustizie ( queste ultime a carico delle generazioni future, ma tanto, non conta solo il presente ? ), e l'inflazione iniziò a salire e poi a scappare di mano. 
Oggi, con l'economia ripartita e sostenuta dalla crescita esponenziale dell'elargizione monetaria tramite banche centrali ( in America la Fed, in Europa la BCE, ma anche il Giappone, la Cina...), c'è chi fa la Cassandra, presagendo che prima o poi tutto questo oceano di denaro farà esplodere di nuovo i tassi inflazionistici per una nuova virulenta crisi mondiale.
Fugnoli certo una Cassandra non è, anzi.
Però da un po' lo avvertiamo un minimo preoccupato. Questi indici che rimangono sostanzialmente positivi - inflazione bassa, crescita debole ma costante, disoccupazione controllata - al netto di quello che accade nel mondo (Corea del Nord, Terrorismo, Immigrazione incontrollata, Nazionalismi in fermento) e della dimensione gigantesca di molti, troppi debiti pubblici, sembrano non convincerlo del tutto, e chiaro e forte è l'invito alla prudenza.
Il mondo non finirà domani, è sempre stato il suo motto, ma da un po' ci sembra dire : però non pensate nemmeno che questa primavera finanziaria durerà per sempre.
Insomma, c'è un tunnel in fondo alla luce...
Titolo estremamente suggestivo, ancorché direi che in Italia non siano poi un molti quelli che si siano accorti di vivere una dimensione del genere (anzi, la maggior parte pensa che dal tunnel non è mai uscita...).
Posto quindi che a livello di economia generale, in Italia almeno sono assai pochi quelli che pensano di vivere una stagione felice, d'accordo a non investire in borsa senza criterio.
Ma l'alternativa, volendo difendere i propri risparmi, qual è, visto che obbligazioni e titoli di stato sono costantemente depressi e il mercato immobiliare continua a languire ?
Intanto però ci sarebbe una data a cui guardare per capirne di più, suggerisce il "nostro", ed è quella in cui Trump designerà il successore della Fed.
Non dovrebbe mancare molto. 
In attesa, Buona Lettura



IL TUNNEL IN FONDO ALLA LUCE

Fra non molto sapremo dove sarà

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Nella filosofia greca tutto ciò che è bello è per questo stesso fatto anche buono. Allo stesso modo tutto ciò che è buono è anche bello. Tutto ciò che è buono e bello è anche giusto e viceversa. Tutto ciò che è buono, bello e giusto è anche vero e viceversa. Tutto ciò che è bello, buono, giusto e vero partecipa del divino ed è quindi eterno.
La parte finale di un bull market è la visione beatifica di un equilibrio perfetto tra crescita e inflazione. Questo equilibrio può variare da un ciclo all’altro. Due decenni fa poteva essere il 3 di inflazione e il 4 di crescita, oggi è poco sotto il 2 per l’inflazione e vicino al 3 per la crescita. In ogni caso in ogni ciclo esiste un allineamento che appare ottimale non solo per i numeri in gioco, ma anche e soprattutto perché questi numeri appaiono improvvisamente sostenibili per tutto l’orizzonte prevedibile.
Quando il buono e il bello vengono scoperti non come il fuggevole allineamento di un’eclissi ma come nuove stelle fisse da cui promana luce eterna, la mente viene folgorata e rinasce a nuova vita. Quotazioni che fino a ieri sembravano care e insostenibili appaiono improvvisamente naturali. Comprare a un prezzo doppio o triplo rispetto a quello che qualche tempo prima ci rifiutavamo di pagare diventa facile e non richiede più particolari riflessioni.
Il fatto che non si vedano le manifestazioni pittoresche di entusiasmo dei cicli passati non deve trarre in inganno. 
Non compriamo più i junk bond in prima persona, ma le emissioni obbligazionarie a cento anni di debitori dubbi vengono assorbite senza problemi da fondi pensione e assicurazioni cui affidiamo il nostro futuro. Non compriamo più a leva come nei cicli passati, ma compriamo Etf a leva che fanno la stessa cosa per noi. Paghiamo le macchine per comprare senza riflettere e senza emozionarsi e queste comprano perché vedono altre macchine che comprano. 
La bassa volatilità rende noioso il rialzo ma lo fa apparire invulnerabile. E d’altra parte il piccolo rialzo azionario quotidiano è pur sempre più grande del rendimento annuale di un bond e quindi restiamo investiti.
Tutto è ordinato, asettico, lento e composto. E inerziale. E tutto si regge su banche centrali che procedono con il pilota automatico, economie che crescono bene in tutti gli angoli del mondo e un’inflazione talmente bene educata che la si vorrebbe perfino un po’ più vivace.
Per carità, i problemi ci sono e li vediamo tutti, ma non si manifestano in modo rumoroso. Il debito aumenta ogni giorno (in particolare quello cinese), ma finché i tassi rimangono bassi e finché le banche centrali lo sostengono possiamo non farci troppo caso. Fallisce Puerto Rico? E chi ha mai pensato che non sarebbe fallito un debitore che ha sempre venduto tutta la carta che voleva, fino ai limiti del ridicolo, per il solo fatto che era fiscalmente esente? È il secondo segnale, dopo Detroit, del marcio che dilaga in buona parte del debito locale americano? Fa niente, finché scoppia un bubbone all’anno lo possiamo assorbire senza problemi.
Kim? Fa salire i titoli legati alla difesa. La Catalogna? Tiene basso l’euro e quindi fa salire la borsa. Il populista Babis sta per salire al potere a Praga e per allearsi con Budapest e Varsavia contro Berlino, Parigi e Bruxelles? Problema locale. L’Europa francotedesca comincia a somigliare a quell’impero austroungarico in cui tutti dicevano di volersi bene salvo poi scoprire alla fine che tutti si detestavano? Fa niente, finché ci sono i soldi di mezzo e uscire dall’euro fa diventare poveri tutti resteranno insieme.
Attenzione, però. L’equilibrio attuale è perfetto e potrebbe anche essere duraturo, sulla carta, se non fosse che questi allineamenti, in particolare quello tra crescita e inflazione, sono storicamente difficili da mantenere a lungo.
Pensiamo alla Fed. Trump ha tre possibilità. Lasciarla come è oggi, confermando la Yellen. Renderla più aggressiva, scegliendo Warsh o Taylor. Renderla più morbida, nominando Powell o addirittura, come dice Gundlach, l’ultracolomba Kashkari.
Una Fed più aggressiva alzerebbe i tassi fino a provocare inevitabilmente, se non una recessione, un rallentamento della crescita. Una Fed più morbida lascerebbe salire l’inflazione fino a mettere in imbarazzo la parte lunga della curva e i multipli di borsa. Una Fed confermata cercherebbe di stare in equilibrio, ma si troverebbe a fare i conti con una bolla azionaria e con il suo inevitabile scoppio.
Quando una cosa è (o appare) perfetta, prima o poi arriva sempre qualcuno che la vuole rendere ancora più perfetta. Negli anni Sessanta tutto sembrava perfetto. C’era crescita, molta più di oggi, e piena occupazione. A qualcuno venne in mente che, con un po’ più di spesa pubblica, ci sarebbe stata ancora più crescita. Ci fu invece più inflazione. 
Oggi Trump morde il freno. Vuole più crescita e più occupazione. Avrà alla fine, quasi sicuramente, una riforma fiscale espansiva ma non è da escludere che vorrà lasciare un segno ancora più forte nella storia con una Fed anch’essa più espansiva.
Se così sarà, anche le altre banche centrali si dovranno adeguare, pena una rivalutazione eccessiva delle loro monete.
Il 2018 sarà allora un anno turbo ma anche un anno in cui si andrà a vedere davvero se l’inflazione è morta, come si usa dire oggi, o se, a furia di stuzzicarla, è pronta a tornare tra noi.
Test di questo tipo vanno magari a finire bene, ma danno comunque momenti di volatilità e paura.
Godiamoci il presente (sempre con moderazione, come avrebbe detto Epicuro) e restiamo investiti finché la riforma fiscale è una speranza su cui sognare e non una realtà che avrà comunque i suoi limiti e non ci aprirà le porte del paradiso. Prepariamoci ad alleggerire perché il mondo l’anno prossimo, anche nel migliore dei casi, sarà più instabile. Quanto al lungo termine, ignoramus et ignorabimus. Quanta inflazione ci sarà nel 2100, quando i nostri bond centenari avranno ancora 17 anni di vita residua? Ce ne sarà poca perché la tecnologia avrà dispiegato nel frattempo tutto il suo impatto deflazionistico o ce ne sarà di più perché (come dice una recente analisi del Fondo Monetario) l’invecchiamento della popolazione, dopo due-tre decenni di disinflazione, comincia a provocare inflazione? Quando la Cina, nel 2100, avrà 400 milioni di persone in meno nella sua forza lavoro, dovrà pagare stipendi più alti o penseranno a tutto i robot?

Cerchiamo insomma di riflettere sul fatto che alla fine della luce, per abbagliante che sia, c’è sempre un tunnel in cui bisogna infilarsi. Che sia confortevole come il nuovo Basistunnel del Gottardo o stretto e tortuoso come quello costruito dai nostri bisnonni lo vedremo a suo tempo. Fra due-tre settimane, il tempo che Trump si è riservato per decidere della nuova Fed, ne sapremo di più.

venerdì 26 maggio 2017

NEL 2019 DRAGHI ANDRA' VIA, E AL SUO POSTO CI SARà UN TEDESCO...POVERI NOI !

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Nel leggere il contributo settimanale di Fugnoli, saranno contenti - ma la contentezza durerà poco - gli amici che conosco che hanno sostenuto per anni la necessità di politiche europee finanziariamente espansive, sullo stile americano - con Bernanke, ai tempi presidente della FED, e i suoi famosi elicotteri che lanciavano dollari - contro i rigoristi, nemici del debito pubblico, di politiche che salvano il presente compromettendo irrimediabilmente il futuro.
Fugnoli, dicevamo, tesse le lodi della ricetta americana adottata per affrontare la grande crisi del 2008, rilevando come gli europei, che si sono sempre eletti virtuosi e migliori dei cittadini statunitensi scialacquoni e predisposti ad indebitarsi all'infinito, alla fine per uscirne fuori si sono dovuti piegare alla logica del Quantitative Easing ( prestiti a tassi bassissimi pur di inondare di liquidità l'economia e farla ripartire a forza).
Fa anche presente, ed è questo  l'aspetto non gradito a cui facevo prima riferimento, che nel 2019 Draghi cesserà il mandato di presidente della BCE e il suo posto verrà preso dal tedesco Weidmann...
Per gli "espansionisti" ma soprattutto per la nostra italietta non sarà un gran momento...
Buona Lettura



MACRON TRADE
  
Qualcosa di più della solita falsa partenza europea

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Non occorre avere chissà quanti anni per ricordare situazioni in cui la vecchia Europa, in un soprassalto di orgoglio, si è sentita divergere in positivo dall’America. Queste situazioni sono state storicamente di tre tipi.

Il primo tipo è stato quando è capitato di constatare compiaciuti che noi non avevamo qualche loro grosso problema. Dagli anni Settanta fino al 2008, per esempio, si è sempre detto che gli americani vivevano sopra i loro mezzi accumulando debiti con l’estero mentre noi europei, moralmente superiori, mantenevamo un tenore di vita sobrio e una sana autodisciplina, essendone poi premiati da un marco e poi da un euro in costante apprezzamento strutturale nei confronti del dollaro.

Allo stesso modo noi ci siamo spesso raccontati di non avere i loro comportamenti patologicamente arrischiati nelle fasi di bolla azionaria o immobiliare perché non eravamo avidi come loro. Salvo poi scoprire che, pur non avendo creato bolle delle stesse dimensioni a casa nostra, avevamo però dato un grosso contributo a finanziare le loro, prendendocene poi in faccia l’esplosione.

Il secondo tipo di discorso autocelebrativo ha messo in contrasto la serietà delle nostre politiche monetarie con il lassismo delle loro. Quando sentono aria di fine ciclo e recessione in arrivo gli americani sono velocissimi nell’abbassare i tassi e nel buttare giù il dollaro e non si curano minimamente dell’inflazione, che in una recessione si cura da sola. Noi (in particolare se tedeschi) guardiamo moltissimo l’inflazione (quella passata ancora di più di quella futura) e a fine ciclo, quando l’inflazione è tipicamente più alta, non abbassiamo la guardia, ma combattiamo con ancora maggiore vigore il nemico che sta per morire da solo.   

E così alziamo i tassi nel luglio 2008, poche settimane prima che crolli tutto. Poi li alziamo di nuovo non una ma due volte nel 2011, non appena sembra che le cose vadano meglio. Tutto questo mentre l’America passa da un Quantitative easing all’altro, sotto lo sguardo critico e severo dell’Europa, che si guarda bene dal fare queste cose da Terzo Mondo. Salvo poi ricadere in recessione, noi e non l’America, riabbassare precipitosamente i tassi tre mesi dopo averli alzati e adottare il Qe tanto disprezzato con una foga tale da avere oggi, come Bce, uno stato patrimoniale ancora più gonfio di quello della Fed (e fra un anno il nostro sarà ancora più grosso mentre il loro sarà più piccolo di oggi).

Il terzo tipo di discorso compiaciuto ce lo facciamo quel mese all’anno in cui capita che l’Europa si comporti in borsa meglio dell’America. È iniziata una fase di divergenza, ci chiediamo eccitati, forse che questa è la volta buona che ci sganciamo da loro? In passato, a dire il vero, non si è mai andati al di là di qualche settimana di performance più brillante o meno opaca della loro. Questa volta, però, potrebbe essere diverso.

Il Macron trade sta di fatto dando il cambio all’esausto Trump trade. Il Trump trade, la cui ultima eco è ancora udibile nella borsa americana al massimo storico (ma non più nel dollaro o nei tassi), è durato cinque mesi (negli ultimi due solo pochi titoli sono saliti e molti sono scesi). Il Macron trade potrebbe durarne altrettanti.

L’Europa ha dalla sua due fattori, il primo politico e il secondo economico. Sul piano politico non ci aspettiamo miracoli o svolte clamorose, ma una riforma del lavoro e qualche taglio della spesa pubblica in Francia, uniti a un prudente rilancio del processo di integrazione europeo saranno comunque una grossa differenza rispetto al passato prossimo. Non sarà difficile fare meglio di Hollande e non sarà difficile fare di più di Juncker. Resta l’Italia, certo, ma a ottobre avremo qualche forma di grande coalizione che manterrà il paese incollato. Insomma, non sarà necessariamente una vita esaltante quella dell’Europa, ma sarà meglio, molto meglio, dell’ibernazione che precede la decomposizione cui ci stavamo abituando.

Sul piano economico l’Europa sta godendo dei benefici derivanti dall’avere abbandonato la sua ricetta, l’austerità, e dall’avere adottato, con due-tre  anni di ritardo, la strada americana.
La migliore performance relativa dell’Europa quest’anno (e probabilmente anche il prossimo) non deriva dalla superiorità del suo modello ma dall’avere adottato quello che ha avuto successo in America. Chi è sano fa fatica a essere ancora più sano, chi è malato può invece migliorare molto se si cura come si deve.

Gli spazi per il Macron trade sono buoni, ma, esattamente come abbiamo visto con il Trump trade quando tassi e dollaro a un certo punto sono entrati in collisione con la borsa, euro e borsa saranno in competizione tra loro per chi si accaparrerà la fetta più grossa, mentre l’obbligazionario di qualità soffrirà, anche se non drammaticamente.

In ogni caso l’euro è sottovalutato rispetto al dollaro, lo spread tra Bund e Treasuries è eccessivo e una borsa europea che capitalizza 11 trilioni non si concilia con una borsa americana che ne capitalizza 26. Tutto si dovrà normalizzare, con un euro più forte, Bund più deboli e borsa più alta.

Per chi sta sui mercati il problema sarà quello di capire se e quando lo scorpione che aveva promesso di non mordere la rana inizierà di nuovo a morderla. Se e quando, cioè, la politica fiscale e monetaria dell’Europa tornerà ad essere europea, ovvero tedesca. Se e quando, in altre parole, torneremo a sentire parlare di austerità e troika (riverniciate da ministro unico delle finanze e Esm) sul piano fiscale, di euro forte sul piano valutario e di tassi più alti, a Qe terminato, quando nel 2019 Weidmann prenderà il posto di Draghi.

È su questi terreni che si combatterà nei prossimi mesi e anni nelle stanze ovattate di Berlino, Francoforte e Bruxelles. Fino a settembre non succederà quasi nulla. Poi, dopo la chiusura del ciclo elettorale europeo in ottobre, avremo una prima sterzata verbale su tassi e Qe. Nel 2018 avremo prima la riduzione e poi la fine del Qe. Nel 2019 avremo i primi rialzi dei tassi, con l’euro già intorno a 1.20.

Oltre a se stessa in versione troppo tedesca, l’Europa avrà da temere incidenti di percorso eventuali in America, in Cina o nei paesi emergenti. L’Europa non ha mai esportato come oggi e la vitalità dei suoi mercati di sbocco è essenziale per mantenere la sua crescita ai livelli attuali. Il problema è che America e Cina sono in una fase matura del ciclo, anche se non ancora terminale.