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lunedì 30 luglio 2018

CINA THE FIRST ? FORSE ANCORA NO. E MAGARI TRUMP LO RIELEGGONO PURE...

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Trump è matto, e l'America in inarrestabile declino. La seconda cosa si legge da decenni, la prima è inevitabilmente più recente, essendo l'uomo stato eletto solo un paio d'anni fa.
Il bravo Fugnoli ci spiega che forse queste certezze diffuse non sono esattamente tali, più spesso percezioni piuttosto distanti dalla realtà. 
Nella sua consueta, gustosissima prefazione di un post centrato sul confronto America - Cina (dove la percezione diffusa è che la seconda sta sopravanzando gli USA , la realtà mostra come ancora si guadagni di più, e parecchio, ad investire nella prima piuttosto che nella seconda) , ci sono due considerazioni da stralciare e conservare con cura :

1) la superficialità e stupidità di tanti  (suoi) contemporanei superinformati e sottoacculturati. 

2) il chiacchiericco pretenzioso e approssimativo , ottima rappresentazione del pensiero non alto, bensì delle credenze diffuse 

Non vi viene in mente proprio nessuno ? 
Sono certo di sì

Buona Lettura 




PERCEZIONI E REALTA’


Dieci anni di spettacolare outperformance dell’America

di Alessandro FUGNOLI  

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Negli ultimi anni della sua vita, tra il 1870 e il 1880, Gustave Flaubert lavorò al Dictionnaire des idées reçues, un dizionario dei luoghi comuni che completava il Bouvard et Pécuchet, a sua volta studio tragicomico della superficialità e stupidità di tanti suoi contemporanei superinformati e sottoacculturati. Flaubert era affascinato e ossessionato dal chiacchiericcio pretenzioso e approssimativo e la sua perversione lo portò a leggere avidamente 1500 libri a suo stesso dire insulsi e insignificanti per riuscire a immergersi in quel modo di pensare. In questo senso Flaubert può ben essere considerato un anticipatore dell’histoire des mentalités proposta dalla scuola storiografica delle Annales. Non una storia del pensiero alto, ma un’analisi delle credenze diffuse.
Non c’è dubbio che tra le idee fatte dei nostri giorni cui Flaubert dedicherebbe attenzione c’è quella per cui la Cina ha già vinto (o è a un passo dal vincere). Ha già vinto nella tecnologia (5G, intelligenza artificiale, fintech), nell’economia (crescita doppia rispetto all’America e tripla rispetto all’Europa), nella politica (il modello neoconfuciano è più stabile ed efficace), nel soft power (la conquista dell’Africa, la nuova via della seta, l’unificazione dell’Eurasia) e nella capacità di visione strategica. Basta scorrere i siti internazionali di novità librarie e si noterà che non c’è un giorno in cui non esca un libro che ci spiega come la Cina sia il paese del futuro.
Altrettanto ampia, d’altra parte, è la bibliografia sul declino americano, sulla Finis Europae, su Silicon Valley che dorme sugli allori e non inventa più niente, sulla produttività in declino strutturale, su Trump che sfascia l’Occidente, sulle derive populiste (Is Democracy Dying? si chiede con angoscia la copertina di Foreign Affairs di giugno), sul debito che continua a crescere, sulle montanti malatttie dello spirito (xenofobia, nazionalismo,  atomizzazione) che spariscono miracolosamente dall’orizzonte se si riprende a parlare di Cina.
Poi capita che, giusto per verificare, si vada a guardare come le grandi borse del mondo abbiano reagito in questi anni alla grande trasformazione in corso e ci si aspetta che, nella loro sapienza collettiva, i mercati non abbiano potuto che confermare e festeggiare il sorpasso cinese. E qui cominciano le sorprese.
Si va a confrontare la chiusura delle borse di un giorno qualunque come oggi con quella del 12 luglio 2015, tre anni fa. La borsa americana è cresciuta da allora del 32.1 per cento. Il Dax dell’Europa in brillante ripresa è salito di un quarto, il 7.8 per cento. L’indice della borsa di Shanghai è sceso dell’11.8 per cento. Chi avesse investito 100 su New York si ritroverebbe con 132.1, se l’avesse fatto su Shanghai avrebbe oggi 88.2, una differenza di 43.9 punti. Qualcuno dirà, sì, ma il cambio? Niente, il cambio peggiora solo le cose dal momento che il dollaro si è apprezzato del 7.9 per cento in questi tre anni rispetto al renminbi, innalzando l’outperformance dell’America sulla Cina al livello piuttosto impressionante di 51.8 punti.
Si dirà che non vale, nel 2015 la borsa cinese è andata in bolla e poi è crollata, un anno disordinato, insomma, e poco rappresentativo. Andiamo allora indietro non di tre ma di cinque anni, al 12 luglio 2013, una fase abbastanza tranquilla per tutti. Lo Standard and Poor’s chiuse a 1680, ora è a 2787, un aumento del 65.9 per cento. Il Dax è cresciuto nel frattempo del 51.7 e Shanghai del 37.3.
Bella forza, si obietterà, le borse occidentali hanno avuto un forte rimbalzo dopo il disastro del 2008-2009 e questo falsa il confronto con la Cina, che durante la Grande Recessione non subì danni. Andiamo allora indietro di 10 anni, al 12 luglio 2008, giusto qualche settimana prima del crollo. Bene, da quel giorno fino a oggi Shanghai è salita dell’1.2 per cento, il Dax del 93.9 e New York del 121.2 per cento, esattamente cento volte di più della Cina (il cambio tra dollaro e renminbi era praticamente lo stesso di oggi).
Va bene, dirà ancora qualcuno, ma solo i pigri (e quelli che volevano evitare le commissioni di gestione) che hanno comprato gli Etf cinesi agganciati all’indice sono rimasti al palo. I fondi attivi, concentrandosi sui titoli cinesi legati ai consumi interni ed evitando i grandi carrozzoni a partecipazione pubblica, hanno dato buoni risultati, a volte ottimi. È vero, ma è un altro discorso.
Se consideriamo le borse come rappresentative delle economie sottostanti è più che giusto, in Cina, includere le società a partecipazione pubblica, un  ampio settore dell’economia cinese che in questi anni ha continuato e continua tuttora a distruggere valore.
In pratica possiamo dire che la Cina ha oggi un’economia di dimensioni quasi triple rispetto a dieci anni fa (13 trilioni di dollari contro i 4.6 del 2007), ma la sua capitalizzazione di borsa (funzione della sua redditività di sistema) è rimasta invariata.
Alcuni traggono da questo l’idea di comprare oggi la Cina e vendere un’America sopravvalutata e a fine ciclo. Può essere, ma ricordiamoci del Giappone, un altro paese che a metà degli anni Ottanta veniva considerato il futuro padrone del mondo e un’altra borsa che per i due decenni successivi continuò a deludere.
La Cina ha imparato molte cose dal Giappone e ha finora evitato errori strategici che il Giappone commise, come il permettere bolle finanziarie e immobiliari prolungate, l’accumulare eccessivi surplus commerciali e il tollerare livelli di cambio disallineati con i fondamentali.
La Cina rischia oggi però di ripetere un altro errore giapponese, quello di sentirsi ormai superiore su tutti i piani rispetto all’America e, di conseguenza, di sottovalutarla. Come nota il sinologo Christopher Balding su Bloomberg, con la sua azione Trump sta prendendo a cannonate le fondamenta del modello economico della Cina, privandola di esportazioni e quindi di dollari. Certo, in teoria la Cina potrebbe rispondere svalutando (un po’ l’ha già fatto), ma andare oltre un certo limite significherebbe entrare in guerra non solo con l’America ma anche con l’Europa e, cosa ancora più pericolosa, rischierebbe di rimettere in moto su larga scala la fuga di capitali che abbiamo visto nel 2015 e che è costata un trilione di dollari di riserve (mai più recuperate) in poche settimane.
È per questo che, dietro la facciata compattamente nazionalista, cresce la pressione interna per trattare con l’America. È lo stesso fenomeno che abbiamo cominciato a vedere in Europa sulle auto. Se Europa (prima) e Cina (dopo) accetteranno di rendere più equilibrati i commerci Trump passerà alla storia non come un pr o t e z i oni s t a ma c ome un globalizzatore di nuova generazione. Con meno disavanzo americano, in compenso, il mondo avrà meno dollari e questo rischierà di aggravare la riduzione della liquidità globale di cui già stiamo avvertendo i primi segnali.

Nei prossimi mesi i mercati globali saranno ancora sostenuti dagli utili americani. Al netto delle guerre commerciali la borsa americana rimarrà la più solida. Solo se Europa e Cina andranno incontro all’America e faranno concessioni sui dazi le loro borse potranno fare meglio dell’America. Se prevarrà invece la linea del colpo su colpo altri danni saranno inevitabili.


sabato 14 aprile 2018

TRUMP NON E' OBAMA, PUTIN LO SA

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Ricordate la "linea rossa" di Obama ? Quella che Assad non doveva varcare pena la punizione americana ? Per chi no, era costituita dall'uso di armi chimiche.
Assad, che al tempo era molto più nei guai rispetto ad ora, pensò di poter ignorare l'ultimatum, forte anche della protezione russa. 
Ebbe ragione, perché Obama ripiegò, accontentandosi della promessa di smantellamento dell'arsenale chimico siriano, garantito da Mosca...
Tu pensa...
Ma che Obama sia stato uno dei più pavidi presidenti USA dell'intera storia americana ormai è chiaro a tutti, e verrà ricordato solo per essere stato il primo presidente nero.
Ora c'è Trump, un uomo il cui temperamento preoccupa molti, me compreso, e la musica non poteva non essere diversa.
Già l'anno scorso, sempre per questa cosa dell'uso delle armi chimiche, fece attaccare alcune basi dell'aeronautica militare siriana. Assad s'infuriò, i russi pure, e fecero due fatiche.
Adesso la storia si è ripetuta.
Francamente non comprendo la strategia del dittatore siriano. Ormai la guerra volge a suo favore, grazie a iraniani e russi, ancorché alla fine si troverà con una Siria un po' più piccola, con le regioni curde o scisse o autonome fino alla separazione di fatto, e sempre insofferente al suo regime. 
Un prezzo tutto sommato non impossibile da pagare da chi ad un certo momento vedeva come massimo obiettivo salvarsi la vita in esilio a Mosca o Teheran. 
Allora perché sfidare il presidente USA che ti ha già fatto capire che, a differenza del suo predecessore, la faccia su questa cosa non la perde ?
Non trovo una logica, e non essendo specializzato in complottismo, non ho abbastanza fantasia creativa per trovarne una suggestiva e verosimile (specialità assoluta dei leoni da tastiera). 
Magari è vero che gli attacchi chimici sono delle fakes news, notizie false, ma perché anche Francia e Gran Bretagna, autonomamente, dicono di averne le prove ? Non mi pare che Macron sia un valletto di Trump, anzi.
Le frasi di Trump riportate dal Corriere della Sera nell'artico di Sarcina che segue mi sembrano condivisibili e non  sono quelle di un folle guerrafondaio.
Un uomo fermo semmai, che agisce con forza graduata (l'attacco è stato limitato ed è già finito, una missione dimostrativa diciamo).  Fu molto più pesante Reagan quando bombardò Gheddafi, puntando proprio ad eliminare il rais, che la scampò restando seriamente ferito, mentre perse una delle mogli e non ricordo se anche un figlio e invece di cercare vendetta cessò da allora di essere un foraggiatore del terrorismo anti occidentale . 
Insomma, con certi soggetti la forza serve.
In conclusione, solita figura di alleato pavido ed imbelle (oddio , a dire il vero, durante la seconda repubblica qualcosina di diverso l'avevamo fatta vedere, nella ex Jugoslavia, in Afghanistan ed in Iraq...) dell'Italia, con Gentiloni - che effettivamente non ha l'aspetto di uno coraggioso - che promette lealtà e allo stesso tempo invoca l'ONU come coperta di Linus per giustificare una non collaborazione di fatto. 
Per decenni abbiamo goduto di pace, sicurezza e risparmio (delle spese di difesa) grazie allo scudo americano. Oggi c'è chi vorrebbe cambiare "padrone", affascinato dal celodurismo di Putin. 
Io ci penserei mille volte, e alla milleunesima, resterei dove sono. 


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ATTACCO IN SIRIA, LE TRE MOSSE DI TRUMP

Il presidente vuole colpire il regime di Assad e dare un messaggio forte a Russia e Iran, ma esclude una presenza a tempo indeterminato sul territorio

di Giuseppe Sarcina 



Tre obiettivi colpiti, nella periferia di Damasco e di Homs, tutti e tre strettamente collegati all’uso delle armi chimiche. Stati Uniti, Francia e Regno Unito sono passati all’azione nella notte siriana. E’ stato il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, ad annunciare lo strike intorno alle 21, ora americana di venerdì 13 aprile (le 3 del 14 mattina in Italia). Un discorso in diretta tv, incardinato su tre concetti chiave. Primo: «L’anno scorso gli Stati Uniti hanno risposto al bombardamento chimico ordinato da Bashar al Assad, distruggendo il 20% dell’aviazione siriana.  
Sabato scorso (7 aprile ndr) il regime di Assad ha fatto strage ancora con armi chimiche nel villaggio di Douma: un’escalation significativa di questo regime davvero terribile». La risposta degli Usa e degli alleati Francia e Regno Unito è quindi «più dura», rispetto al 2017, perché modulata sulle «atrocità e crimini» del «mostro» Assad. Secondo punto, fondamentale sul piano politico: il blitz non è diretto contro Russia e Iran, però Trump ha «una domanda» per questi due Paesi: «Che tipo di nazione vuole essere associata all’uccisione in massa di uomini, donne e bambini innocenti? La Russia può decidere se continuare a scendere lungo questo oscuro sentiero o se invece vuole unirsi alle nazioni civili come una forza per la pace e la stabilità. Un giorno, speriamo, potremo andare d’accordo con la Russia e forse anche con l’Iran. Oppure no».
  
Infine l’indicazione strategica: «Gli Stati Uniti hanno una piccola forza militare in Siria, concentrata sull’eliminazione dell’Isis. L’America non è interessata a una presenza indefinita in Siria, a nessuna condizione. L’America non ha illusioni. Non possiamo purificare il mondo dal male. Faremo del nostro meglio per contribuire alla pace nel Medio Oriente. Ma il destino di quella regione e nelle mani dei suoi popoli». Un’ora dopo, alle 22 (le 4 in Italia), il Segretario alla Difesa, James Mattis, ha tenuto una conferenza stampa al Pentagono. Mattis e il generale Joseph Dunford, il coordinatore dello Stato maggiore delle forze armate, hanno fornito i primi dettagli sull’incursione, durata circa un’ora. Sono stati colpiti tre obiettivi: un centro di ricerca scientifico sullo sviluppo delle armi chimiche nell’area suburbana di Damasco e due depositi, uno di Sarin, ad ovest di Homs. Il capo del Pentagono ha insistito sulla scelta dei target: «Abbiamo puntato sulle infrastrutture del regime siriano, senza coinvolgere la popolazione e personale straniero».


Attacco circoscritto, dunque, anche se «i danni collaterali», cioè le perdite di civili non si possono «escludere al 100%». Nella giornata di oggi, 14 aprile, intorno alle 15 ore italiana, il Pentagono comunicherà altre notizie. Per il momento Mattis e il generale Dunford hanno detto che «le operazioni si sono concluse». Un colpo secco.«Non ce ne sono altre in programma. A meno che Assad non usi ancora le armi chimiche». Altro aspetto importante: il Pentagono ha preavvertito i russi, usando quello che Dunford ha definito il “canale di comunicazione per evitare il conflitto aereo”. Né Mosca né Teheran, a quanto riferito dal Pentagono, hanno reagito attivando le batterie antimissili. Questo significa che Stati Uniti da una parte e Russia-Iran dall’altra sono stati molto attenti a evitare il confronto militare diretto. Ma certo da oggi la tensione politica salirà al massimo.

martedì 20 marzo 2018

SALVA DELLE VITE, INCRIMINATO PER VIOLAZIONE DELLE LEGGI SULL'IMMIGRAZIONE

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Un guida alpina soccorre degli immigrati spersi sulla neve delle montagne al passo del Monginevro, salvandoli dall' assideramento , e rischia fino a 5 anni per complicità nel reato di immigrazione clandestina.
La notizia l'avevo orecchiata sul canale delle news di sky (però pago il canone..., così contribuisco a finanziare trasmissioni come quelle di Fazio, Vespa, Sciarelli...) ma ho pensato - sperato - di aver capito male.
Invece è vero. Succede in Francia, e giustamente Feltri, nel riportare la cosa nella sua rubrica su La Stampa di Torino, la biasima come testimonianza dell'inverno umano che ci avvolge.
Ha ragione. Però poi fa un altro esempio, e forse qui ha un po'meno ragione. 
A Venezia sarebbe stato stabilito uno strano protocollo, tra Tribunale ed avvocati, secondo il quale se all'udienza in cui si discute sulla concessione o meno dell'asilo politico ad un immigrato, l'avvocato non si presenta, si procede in sua assenza.
Non discuto certo io l'essenzialità del diritto ad un difensore, e non credo lo discutano i colleghi di Venezia. 
Quindi al posto di Feltri approfondirei la questione. Io lo farò, con il collega Bortolotto, che mi fa il piacere ogni tanto di leggermi. 
Questo nel particolare. In generale, Feltri è chiaramente pro accoglienza, non dico sempre e comunque, ma per lo più.
Io no. E gli italiani, per la grande maggioranza, nemmeno. 
Da qui, ad una cosa disumana come quella della guida alpina francese, ci passa un mare, e confido che non ci sarà seguito all'improvvida iniziativa della polizia francese. 

LaStampa.it

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Un lungo inverno

MATTIA FELTRI

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Prima notizia, Francia. Una guida alpina si imbatte in una famiglia nigeriana che cammina nella neve vicino al passo del Monginevro, 1900 metri. Ci sono il padre, la madre incinta di otto mesi e due bambini di quattro e due anni. Li carica in macchina per portarli all’ospedale di Briançon ma è fermato dalla polizia che lo incrimina per violazione delle leggi sull’immigrazione: rischia fino a cinque anni di carcere. La donna viene condotta in ospedale e lì partorisce. Seconda notizia, Italia. Il presidente del tribunale e quello dell’Ordine degli avvocati di Venezia hanno sottoscritto un protocollo secondo cui, se l’avvocato non si presenta all’udienza per la concessione a un immigrato dell’asilo politico, l’udienza si terrà lo stesso, senza avvocato.  

«Stante la natura urgente dei procedimenti», l’immigrato difenderà la sua causa da solo. In un periodo in cui ci si chiede, con comprensibile allarme, quanto l’immigrazione cambierà il nostro modo di vivere, le due notizie forniscono una risposta. È già successo. Non è stato imposto alla donna europea il velo, né il divieto di bere alcolici agli uomini: siamo cambiati da soli. La legge prevarica il diritto naturale, cioè umanamente, intrinsecamente giusto di soccorrere chi rischia la morte; l’urgenza e l’emergenza eliminano uno dei due piatti della bilancia, cancellando il diritto scolpito nel marmo, da secoli, di essere assistiti da un avvocato. Nei nostri codici sono entrati uomini un po’ meno uomini. Domani comincia la primavera, ma sarà un lungo inverno.  

lunedì 2 ottobre 2017

QUANTO ACCADE IN SPAGNA CONFERMA : NON CI SONO LEGGI SENZA CONSENSO

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Sulla questione Catalana non ho le idee chiare, al di là di un istinto essenzialmente conservatore che mi porta a guardare con sfavore le rivoluzioni.
Ho letto le ragioni di entrambe le parti, e non è servito a granché.
Sicuramente, questi sommovimenti indipendentisti all'interno della cd. unione europea, accompagnati per lo più dal silenzio assordante di Bruxelles, una cosa la confermano : l'UE è un fantoccio, capace di rompere le balle su mille cose della vita quotidiana dei cittadini, ma MAI, e dico MAI, prendere una posizione politica su cose importanti.
Si parla tanto di Stati Uniti d'Europa...ve la immaginate Washington che resta silente di fronte ad una parte del Texas che decide di dividersi che so, per costituire un nuovo stato federale a sé ? 
Da un punto di vista "legalitario" sarebbe evidente la ragione di Madrid ed il torto di Barcellona : la Costituzione spagnola, come quella italiana e in generale credo tutte le carte fondamentali degli stati moderni, prevede l'indissolubile unione del paese. La Secessione non è prevista, nemmeno tramite "voto democratico". 
Del resto, Lincoln non legittimò la guerra civile americana sulla base della illegittimità della secessione, proclamata e popolarmente sentitissima, degli stati del Sud ? 
Mica gli fece guerra per liberare i neri, cosa che avvenne dopo con il proclama di emancipazione del 1863 (la guerra era in corso già da due anni), ma perché quelli si erano separati. 
Poi certo, alla base della secessione sudista c'erano le leggi federali che limitavano l'estensione della schiavitù ed in prospettiva si proponevano di ridurla fino ad eliminarla (cosa inaccettabile per l'economia sudista, fondata sulla produzione e il commercio del cotone, e quindi sui campi pieni di schiavi impegnati nella raccolta). 
Resta che nel 1861 13 stati decisero "democraticamente", votando all'interno dei rispettivi parlamenti, di staccarsi dall'Unione, e Lincoln non poteva accettare questa dissoluzione degli Stati Uniti.
Sono passati 150 anni da allora, si dirà, però il dilemma è lo stesso : è giusto imporre a dei popoli che non vogliono più stare insieme ad una unione federata la conservazione dello status quo, per altro previsto ed imposto dalla Legge ?
In Yugoslavia abbiamo visto com'è andata, con i massacri orribili di una guerra durata 5 anni. 
Ma in Cecoslovacchia invece le cose andarono tranquillamente, con la divisione in repubblica Ceca ( capitale Praga, 10 milioni di abitanti) e repubblica della Slovacchia ( 5 milioni di abitanti, capitale Bratislavia), e magari andrà così prima o poi in Belgio, tra valloni e fiamminghi. 
Ma nella stessa Spagna ci stanno altre pulsioni indipendentiste, parliamo di Galizia e Paesi Baschi ( il terrorismo basco depose le armi non tanti anni fa). 
Sappiamo della Scozia - che ha potuto fare il suo referendum, con il 55% degli scozzesi favorevoli a rimanere nell'Unione, ma adesso ne vogliono un altro...
E poi da noi abbiamo la Padania, con Lombardia e Veneto che guardano con noto favore a Barcellona, vista come un possibile precedente da cavalcare...
Alla base, più che ragioni storico etniche, che pure vengono evocate, ci sono prevalenti ragioni economiche. Molti dei secessionisti pensano che, separandosi, andrebbero a stare meglio perché vivono in regioni ricche, fiscalmente sfruttate dallo stato centrale.
Problema reale, che in altre nazioni si cerca di risolvere con un efficiente   federalismo, che da noi non ha mai attecchito seriamente. 
In questa confusione generale, trovo peraltro la conferma di una cosa che vado scrivendo da molto tempo : perché una comunità viva insieme pacificamente non sono sufficienti le leggi, è necessario un consenso esteso e diffuso.
Se le leggi, addirittura quelle costituzionali, non vengono più percepite come "giuste", ecco che la loro violazione appare giusta e doverosa.
E i poliziotti mandati per farle rispettare, diventano dei fascisti oppressori, non dei tutori della legalità. 
Non so come andrà a finire in Spagna, non la vedo bene.
Sicuramente al momento gli sconfitti appaiono più certi dei vincitori, e tra questi mettere la pavida UE viene facile.
Dire ad esempio,  a tutti  i fan secessionisti dai loro stati nazionali ma aspiranti membri dell'Unione, che l'adesione non sarebbe automatica ma passerebbe per i tempi lunghi e severi cui vengono sottoposti i nuovi richiedenti, non sarebbe opportuno ?
Invece no, muti. 
Colpevole silenzio, titola la Stampa e mi sembra azzeccato. 

LaStampa.it

Il colpevole silenzio dell’Europa





STEFANO STEFANINI

Si apre, per la Spagna, la crisi più grave dalla fine della dittatura franchista nel 1975. Quello di ieri, in Catalogna, è stato un disastro politico annunciato – ed evitabile – nell’assordante silenzio dell’Europa. L’indomani è il giorno dell’incertezza. Carlos Puigdemont può dichiarare l’indipendenza della «Repubblica catalana» nel giro di 48 ore.  

Come risponderà Mariano Rajoy? L’Ue e le grandi capitali europee possono continuare a restare alla finestra?  

Il 1° ottobre del 2017 è la data che scava un abisso fra Madrid e Barcellona. Non per il voto catalano pro-indipendenza, troppo imperfetto per far testo, ma per il tentativo spagnolo d’impedire ai cittadini, con la forza, di esprimere la propria opinione. Per di più è stato un mezzo fallimento. La maggior parte dei seggi, o comunque molti, sono stati aperti e funzionanti. In compenso Madrid ha pagato un costo altissimo nelle immagini della polizia contro una folla che di violento non aveva nulla. Non erano i «No Global» di Genova. Non volevano sovvertire il sistema. Volevano andare a votare. E sfidavano la polizia, manganelli e pallottole di gomma comprese.  

Quali che fossero le ragioni costituzionali di Madrid, sono naufragate nelle strade e nelle piazze catalane. La Spagna può ancora evitare il precipizio ma solo se entrambe le parti saranno capaci di fare un passo indietro e tornare a far politica. Sembra difficile dopo il confronto di ieri. Gli animi sono riscaldati. Rajoy pretende che l’episodio sia chiuso con un nulla di fatto; se lo pensa veramente non ha capito quanto è successo. Tocca ora anche all’Ue e ai leader europei far capire a Madrid come agli indipendentisti catalani che il muro contro muro conduce a una catastrofe politica. Il silenzio di Bruxelles, forse benintenzionato, diventa indifferenza callosa.  

Con una scelta legalistica e impolitica, il premier spagnolo ha regalato agli indipendentisti catalani un successo a tavolino che avrebbe potuto vincere o pareggiare sul campo. Aveva dalla sua la maggioranza silenziosa dei catalani che non chiedeva la secessione, più la Costituzione che gli permetteva di ignorare il risultato del referendum come esercizio extra legem. Facendone una prova di forza ha costretto i catalani, anche la palude degli indecisi, a schierarsi. I cittadini pacifici che ieri sfidavano la polizia si ribellavano all’idea di non poter pronunciarsi sul proprio futuro. In democrazia non c’è legge che possa spiegarlo, non c’è Costituzione che tenga. 

Non chiamiamolo referendum. La consultazione si è svolta in circostanze quantomeno anomale, con urne aleatorie e conteggi altamente problematici. Si può solo osservare che malgrado gli ostacoli frapposti dalla polizia l’affluenza è stata elevata e che, del tutto prevedibilmente, il voto è stato massicciamente a favore dell’indipendenza. Chi è contro non è certo andato alle urne. Puigdemont ringrazia Rajoy: il risultato sarebbe stato diverso se Madrid avesse chiuso un occhio. Chiamiamola svolta politica che mette le ali al nazionalismo catalano: per Madrid molto peggio di un referendum. 

L’indipendenza di chi non ce l’ha non riscuote molte simpatie nella comunità internazionale. Chiedere al 98% dei curdi che l’hanno votata. L’Onu è ancorata agli Stati esistenti, beati possidenti di sovranità nazionale e tutt’altro che disposti a creare precedenti che la minaccino o la frazionino. Salvo poi arrendersi all’evidenza quando il coperchio salta come in Urss e nell’ex Jugoslavia. 

Dall’Ue ci sarebbe però da aspettarsi di meglio; per rispetto di democrazia sostanziale e per lungimiranza strategica. A Tallinn i leader europei non hanno parlato di Catalogna per non offendere l’assente Rajoy; non hanno parlato di Brexit, dopo l’importante discorso di Theresa May a Firenze, per non invadere il campo della Commissione. Danno l’impressione di evadere i veri problemi sul tappeto fino a che non diventino crisi di cui siano costretti ad occuparsi.  


Le pressioni secessioniste e indipendentistiche, non solo politiche, sono reali; ma non hanno nulla d’irresistibile: sono gestibili e contenibili, se affrontate con la politica – Scozia e Quebec docent. Se l’Ue non lo farà il camion del rilancio e dell’integrazione ripartirà con un carico di cocci anziché di vasi. 

giovedì 6 luglio 2017

ANCHE IL FILANTROPO BILL GATES DICE BASTA AGLI SBARCHI

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Ho una invidia positiva per i ricchi "bravi", cioè quelli che posso pensare che siano tali perché sono capaci, hanno vero talento per l'impresa e gli affari. Non invoco contro di loro né il Vangelo (la famosa storia della cruna dell'ago...) né la Finanza.  Insomma, il mio è un "beato lui", non un "maledetto, chissà come li ha fatti tutti quei soldi". Poi certo, so bene che ci sono paperoni che non hanno meriti nella loro vita di assoluto privilegio, ma nemmeno da piccolo mi illudevo che la vita fosse giusta.
Questa premessa per dire che ho simpatia per Bill Gates, "nonostante" sia sospettato di essere l'uomo più ricco del mondo.
E' famoso anche per la sua generosità e filantropia.
Uno dirà : grazie, con tutti quei soldi, pure io. Però intanto è sicuro che lui lo faccia, e in misura decisamente ingente. La sua fondazione, stanzia, da sola, un quarto delle risorse che l'intera Unione Europea destina alla voce cooperazione e sviluppo, e addirittura il DOPPIO come sostegno ai paesi poveri, come l'Africa : 5 miliardi di dollari contro 2,4.
Quindi Bill Gates non può essere accusato di razzismo e/o cinismo.
Ebbene, anche lui si è reso conto che così non si può andare avanti, e che i migranti, che per nove decimi, giù di lì, sono "economici" e non "rifugiati" non possono essere supportati, in questa dimensione di esodo biblico, dall'Europa.  Bisogna quindi scoraggiare gli imbarchi, come riescono a fare gli spagnoli con gli accordi col Marocco e come riuscivamo a fare anche noi quando in Libia c'era Gheddafi.  Naturalmente Gates non pensa che bisogna solo fermarli, bensì aiutarli, proponendo piani di investimento importanti in Africa e nei paesi disagiati, e, come abbiamo visto, le mani in tasca non esita a mettersele.
Ma così andare avanti non si può, tanto più con un'Europa che mostra more solito tutte le sue divisioni ed egoismi nazionali.




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Migranti, Bill Gates all’Ue: «Mostrarsi generosi li spinge a lasciare l’Africa. Rendete più difficili gli ingressi»

Svolta del fondatore di Microsoft e filantropo: «L’Europa deve rendere più difficile per gli africani raggiungere il continente attraverso le attuali rotte di passaggio»


 
Melinda e Bill Gates  nello Stato indiano del  Bihar (Afp) Melinda e Bill Gates nello Stato indiano del Bihar (Afp)

  
Alla fine è diventato dannoso mostrarsi troppo generosi con i migranti, così come ha fatto Angela Merkel. Il pericolo, ora, è di venire «sommersi» dalle popolazioni disperate in fuga dall’Africa. Bill Gates entra in modo rumoroso nella discussione politica sui flussi migratori, nel momento della nuova emergenza nel Mediterraneo, con l’Italia ancora una volta nella posizione più esposta. Il miliardario americano riflette sul «modello Merkel», in un’intervista con il giornale tedesco Welt am Sonntag: «Da una parte tu puoi mostrare generosità e accogliere i rifugiati, ma più sei generoso, più il mondo se ne accorgerà e alla fine questo motiverà più persone a lasciare l’Africa». Gates suggerisce due linee d’azione. Primo: «L’Europa deve rendere più difficile per gli africani raggiungere il continente attraverso le attuali rotte di passaggio». Secondo: «La tumultuosa crescita demografica in Africa diventerà un’enorme pressione migratoria sull’Europa, a meno che gli Stati decidano di aumentare in modo consistente gli aiuti allo sviluppo alle terre d’oltremare».
   
La Fondazione
Sono idee su cui le forze politiche e i governi del Vecchio Continente si stanno scontrando, spesso in modo aspro, ormai da anni. Gates è coinvolto in modo diretto, concreto nel dibattito. Nel 2000 ha costituito con la moglie la «Bill & Melinda Gates Foundation», l’organizzazione di beneficenza privata più importante nel mondo, con un patrimonio operativo pari a circa 40 miliardi di dollari, più o meno un quarto dell’intero bilancio a disposizione dell’Unione europea (circa 145 miliardi di euro).
Le proporzioni delle cifre, però, si capovolgono se ragioniamo in termini di contributo allo sviluppo dell’Africa e dei Paesi sottosviluppati. Nel 2015 il budget della Ue aveva stanziato 2,4 miliardi alla voce «cooperazione allo sviluppo», mentre nello stesso anno la Fondazione dei Gates spendeva quasi il doppio, 5,1 miliardi di dollari, per una serie di progetti sanitari, sociali, di sostegno all’agricoltura e alla formazione professionale nelle aree più povere del pianeta.     

Il cambio di rotta
Gates, dunque, non solo predica, ma pratica da 17 anni la strategia di sostegno ai luoghi da cui partono le grandi migrazioni. È vero, però, che negli ultimi mesi ha corretto la sua posizione. Ancora nel gennaio 2016, al World Economic Forum di Davos, il fondatore di Microsoft si esprimeva in questi termini: «La Germania e la Svezia sono da elogiare per il modo in cui accolgono i migranti. Gli Stati Uniti dovrebbero seguire il loro esempio». In quel periodo alla Casa Bianca c’era ancora Barack Obama. Il presidente resisteva alle pressioni dei parlamentari democratici che chiedevano di accogliere più rifugiati dalla Siria e dal Medio Oriente. Ora il quadro è cambiato. O meglio, Gates continua a elogiare il governo tedesco, ma per altri motivi. La Germania devolve lo 0,7% del Pil alle nazioni africane e asiatiche in difficoltà: «È fenomenale. Altri Paesi europei dovrebbero fare lo stesso». Finora i vincoli finanziari hanno prevalso sull’idea di far lievitare gli investimenti umanitari e di cooperazione. La Ue ha solo iniziato a discutere di un piano da 62 miliardi. Qualche governo ha messo in campo iniziative mirate. L’Italia, per esempio, a febbraio ha assegnato 200 milioni di euro principalmente a Nigeria, Libia, Tunisia per contrastare «il traffico di esseri umani e l’immigrazione illegale». «Bisogna fare presto — conclude Gates — la Germania e l’Europa non sono in grado di far fronte alle persone che in Africa sono già pronte a partire».

domenica 18 giugno 2017

AMAZON E' TUTTO

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 Magari sono cose che si immaginano, ma leggere certe cifre a me colpisce. Mi riferisco ad Amazon  e alla breve ma ficcante descrizione che ne fa Mattia Feltri nella sua rubrica semi quotidiana su La Stampa. SI parte dal recente acquisto, evidenziato da tutti i media, del colosso Whole Foods Market, la più grande catena di supermercati nel mondo, con la prospettiva, attraverso gli acquisti in rete, della perdita di migliaia e migliaia di posti di lavoro.
Amazon è un impero, e la politica dovrebbe fare i conti con le conseguenze. Non per bloccare il futuro, ma per meglio conviverci. 


LaStampa.it

 Amazon il Leviatano


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MATTIA FELTRI

Sapete che cosa è Amazon? Qualsiasi cosa abbiate risposto è sbagliata. Amazon è tutto. Ieri ha preso Whole Foods Market, la più grande catena di supermercati bio al mondo. L’idea è di togliere casse e dipendenti: si entra, si compra, si paga con un clic. 
A Seattle ci sono due supermercati di Amazon dove non si entra: si fa la spesa in rete e la si ritira nel parcheggio. 

Ricominciamo da capo: Amazon è nota perché è un enorme magazzino online, vi lavorano oltre 200 mila persone e 45 mila robot (un anno fa i robot erano 30 mila).


Su Amazon si comprano scarpe, cosmetici, libri, divani, giocattoli, e si riceve a casa. 
Negli Stati Uniti dopo i piccoli negozi cominciano a chiudere i centri commerciali

Amazon è l’editore del Washington Post. Ha un’emittente tv che trasmette film, fiction, show, e produce fumetti. In sei anni ha erogato prestiti alle piccole e medie imprese per 3 miliardi di dollari: il prestito arriva in 24 ore, e in caso di insolvenza Amazon impegna la merce per rivalersi. Ha una linea di moda, ha ideato un assistente vocale per le auto, finanzia la corsa allo spazio e sta studiando un sistema di consegne sulla Luna. Che fa ridere, ma spiega prospettive e visione. 

Amazon è uno Stato multinazionale. 


Ha potenza economica illimitata e crescente. Come tutti i giganti di Internet, è il motore del bello e dell’inevitabile distruzione di posti di lavoro. 
Sta sconvolgendo il mondo e se ne sono accorti tutti, tranne la politica. Come minimo, servirebbe un ministero. Peccato ci sia tanto da fare con le preferenze e i capilista.  

lunedì 5 giugno 2017

UN PO' PIU' DI CORAGGIO PERSONALE PUò AIUTARE A BATTERE IL TERRORISMO

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Francamente il mantra che gira in Europa e in Occidente per il quale i terroristi non vinceranno costringendoci a rinunciare alle nostre abitudini ludiche - e quindi andare a cena fuori, a ballare, a vedere concerti - non mi convince un granché.
E quanto è accaduto a Torino mi sembra la dimostrazione che la paura è ormai tanta, e basta poco, anche nulla, di fatto, perché si propaghi un pericolosissimo panico.
Poi magari in molti non rinunceranno al prossimo happening, ma non per coraggio, solo nel ragionevole ottimismo che mica toccherà proprio a loro !!
In questo contesto, trovo interessante l'esortazione di Antonio Polito. Oltre a non avere paura - e chissà se è vero che non l'abbiamo, a Torino se n'è vista tanta - forse dovremmo avere più coraggio.  Quello che ha spinto pochi uomini ad affrontare a Londra i tre terroristi armati di coltelli, ma TRE.
Certo, affrontarli da disarmati, come pure qualcuno ha fatto - e se fosse stato aiutato, magari riusciva anche ad avere la meglio - non è semplice, ma così ogni volta sembriamo tante pecore al macello.
Di fronte a gente del genere, che disprezza la vita, a partire dalla propria, non possiamo aspettarci che ci siano poliziotti o soldati ad ogni angolo pronti a salvarci. Dobbiamo, temo, rientrare nell'ottica della difesa personale, magari confidando che, rischiando in molti, riusciremo a sopraffare gli aggressori, accettando anche il rischio che potremmo essere noi quelli che, per salvarne di più,  ci ritroviamo ad essere gravemente feriti o peggio.
Questa insolita ed inaspettata esortazione al coraggio fisico da parte di Antonio Polito mi è piaciuta, e la condivido.


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Non c’è solo la paura per chi deve difendersi. Il coraggio ci salverà

  
Se continua così, tra un po’ basterà fare un botto, urlare un bum, per spaventarci e colpirci. In fin dei conti questo è successo l’altra sera a Torino, migliaia di feriti per una suggestione collettiva e un colpevole tappeto di bottiglie rotte. Ma c’è voluto il terrorismo islamista, questo terrorismo fai-da-te al quale basta un’auto o un coltello per uccidere, per fare del nostro naturale sentimento di paura il più potente amplificatore dei loro attacchi. Eppure non bisogna farsi vincere dalla paura, diciamo come un mantra, ripetiamo come un esorcismo, ogni volta che ci aggrediscono nelle nostre, e spesso anche loro, città europee (una volta ogni quindici giorni, dal 22 marzo a oggi).
Ma siamo proprio sicuri? Sicuri che la migliore risposta sia organizzare un concerto come se nulla fosse, ricominciare da ciò che i terroristi hanno sanguinosamente interrotto, come ieri sera a Manchester con Ariana Grande, come al Bataclan un anno dopo la strage? E soprattutto: siamo sicuri che nel nostro stile di vita, che vogliamo difendere, non ci debba essere spazio anche per il coraggio, oltre che per la paura?

L’altra sera a Londra è successo qualcosa di imprevedibile: diversi episodi di autodifesa, avventori di bar e locali che scagliano sedie e bottiglie contro i tre terroristi armati, un tassista che tenta di investirne uno, un ristorante sushi che distribuisce coltelli ai suoi clienti. Non è l’eroico «let’s roll» del gruppo di passeggeri del volo 93, che la mattina dell’attacco alle Torri di New York si ribellarono al commando che aveva sequestrato il loro aereo e li fermarono, precipitando insieme con i terroristi. Ma è il segno di una reazione, di qualcosa che è scattato nella testa di chi rischiava.
Il segno che anche il coraggio, oltre alla paura, è un sentimento naturale dell’uomo quando è costretto a difendersi, e che anche il coraggio deve far parte del nostro stile di vita.
«Run, hide, and tell», raccomanda Scotland Yard a chi si dovesse trovare in mezzo a un attacco come quello dell’altra notte a London Bridge. Giusto: la nostra civiltà ha delegato allo Stato il monopolio della violenza, e dallo Stato e dai suoi rappresentanti noi ci aspettiamo protezione e sicurezza. Ma non si può sempre fuggire, nascondersi e chiedere aiuto. Né metaforicamente, nella guerra alle centrali del terrore in Medio Oriente dalla quale non possiamo «ritirarci», né concretamente quando ti aggrediscono a casa tua.
Mantenere calma e sangue freddo, usarli per difendersi al meglio, sapere che tra i modi migliori per farlo c’è anche quello di mettere chi ci attacca in condizione di non nuocere, essere consapevoli che insieme siamo una moltitudine in grado di mettere in fuga un assassino, ma in fuga siamo una folla sbandata, un’onda che si abbatte su se stessa; sono tutti sentimenti che forse si fanno strada tra i cittadini delle metropoli più esposte al rischio, e che comunque fanno parte delle nostre opzioni ogni volta che ci chiediamo: ma se ci fossi stato io, lì in mezzo, che avrei potuto fare? Abbiamo diritto a difendere il nostro stile di vita, e lo faremo, non diremo mai a nostro figlio non andare al concerto perché è pericoloso. Ma forse potremmo imparare anche a dirgli, come fa chi vive da anni a Tel Aviv, se c’è un attentato non pensare che sei già morto, pensa che puoi difenderti, che puoi fare cose giuste e cose sbagliate.
Nelle prime immagini di questo ennesimo orrore, abbiamo visto la foto di un ragazzo inglese che scappava con un boccale di birra in mano. L’avrà fatto certamente per non rinunciare al nostro stile di vita (la birra ne fa parte integrante a Londra). Ma anche, ci piace pensare, per avere a portata di mano qualcosa con cui difendersi, «just in case».

mercoledì 31 maggio 2017

TRUMP E' UN PROBLEMA (TEMPORANEO) PER L'EUROPA, MA LA GERMANIA NON E' LA SOLUZIONE

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Danilo Taino è il corrispondente da Berlino del Corriere della Sera. Dunque un esperto di cose tedesche, ed anche un difensore delle posizioni teutoniche in questi anni, cercando, con successo relativo devo dire, di spiegarci le ragioni della severità germanica in Europa.
Stavolta però nemmeno lui è convinto della posizione assunta dalla Merkel, che, dopo l'insuccesso del G7 a Taormina, ha dichiarato che l'Europa deve imparare a fare da sola, ché degli storici alleati, USA e pure GB, non si può far più conto, e critica in modo anche insolitamente duro l'operato della cancelliera (perplessità e critiche le aveva già manifestate Panebianco :  http://ultimocamerlengo.blogspot.com/2017/05/signora-merkel-nonostante-trump-resta.html ).
Ora, vorrei sapere dalla signora Merkel, di quale Europa parla ? E poi da dove le viene la sensazione che le altre nazioni si fidino così tanto della Germania ? A parte Olanda e Finlandia, chi altri ? I paesi dell'Est immagino preferiscano restare sotto l'ombrello NATO, comunque dotato di un partner forzuto (ancorché oggi guidato da un presidente "monello"), che affidarsi ad una Germania che ieri li considerava il proprio "lebensraum", spazio vitale, e oggi non sarebbe in grado di difenderli manco volendo. Non dubito che, cambiando politica e bilanci della difesa nazionale, la Germania in poco tempo tornerebbe ad essere una potenza militare di tutto rispetto. Non so quanto questo, visto i precedenti, rassicurerebbe il Mondo, e l'Europa in primis...
Insomma, fermo restando che se l'Unione vuole diventare una cosa seria e credibile, sull'argomento della propria difesa dovrà ragionare seriamente, non ci sembra da statista lungimirante minare un'alleanza settantennale per la stizza suscitata da un Presidente Usa che sarà già tanto se riesce a restare in carica 4 anni.
Maglio sarebbe stringere i denti, e aspettare che gli USA cambino rotta, reputando che anche per loro i paesi europei restano gli alleati più affini e in fondo leali.
Buona Lettura



Il rischio dello strappo di Merkel con Trump

La frattura della Cancelliera con il presidente Usa rischia di far rivivere una divisione in blocchi e di indebolire l’Occidente

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Pare che abbiamo una Nuova Merkel. Sotto la tenda di una birreria di Monaco, domenica scorsa ha detto che alla Germania e all’Europa sono venuti a mancare due alleati. E che alleati: gli Stati Uniti e la Gran Bretagna. Nel Vecchio Continente dobbiamo renderci conto che «i tempi in cui potevamo contare pienamente su altri sono in una certa misura finiti», ha spiegato: «Dobbiamo essere noi stessi a combattere per il nostro futuro». È la cancelliera tedesca che si carica della responsabilità di guidare i partner della Ue affinché reagiscano a Donald Trump e alla Brexit, si è detto. Finalmente leader senza remore. O no? È vera leadership quella della nuova, assertiva e militante Angela Merkel? Le tappe europee del viaggio di Trump in Europa, alla Nato di Bruxelles e al G7 di Taormina, sono state un disastro, per contenuti e comportamenti.
È però sensato, oppure è un’avventura, mettere in questione all’improvviso, come ha fatto la cancelliera, un’alleanza di settant’anni che ha portato pace, enorme benessere in Occidente e ordine internazionale?
 
Il presidente americano dà spesso l’impressione di essere il primo a mettere in dubbio la relazione transatlantica. Ma non basta un presidente confuso, impolitico e qualche volta volgare per annunciare la quasi morte dell’alleanza occidentale. E non è una buona idea, soprattutto non è nell’interesse dell’Europa, prenderlo in parola (ne dice tante) e assecondarlo nelle tendenze distruttive.
La «frattura di Monaco» di Frau Merkel sta allargando l’Atlantico e rafforzando chi, sulle due sponde, spinge per un indebolimento dell’Occidente e per un mondo organizzato per blocchi.
 
Qui si apre il problema dei problemi. Cosa sarebbe l’Europa lontana dall’America? Ha la forza per affrontare crisi e sfide da sola? Può vivere e prosperare in una posizione equidistante da Washington, da Mosca o da Pechino (nel suo discorso Merkel ha messo sullo stesso piano la necessità di avere comunque «relazioni amichevoli» con gli Stati Uniti e la Gran Bretagna così come con la Russia)? Da sola non sarebbe in grado di affrontare le tensioni in Siria, in Libia, in Ucraina, in Iran, in Turchia, di resistere alle pressioni di Vladimir Putin. Ha registrato finora l’incapacità di gestire la crisi dei rifugiati e dei migranti. Certo, il disinteresse e l’ostilità di Trump per la Ue sono un’occasione per rafforzare le politiche europee e per integrare la gestione della sicurezza, della Difesa, dell’economia continentali. Andare da soli sarebbe però un’altra cosa, viste anche le debolezze strutturali dell’Europa. L’equidistanza darebbe piuttosto al Cremlino la chance di aumentare la sua influenza nella Ue: le sanzioni contro la Russia per l’annessione della Crimea, per dire, durerebbero poco.
Lunedì scorso, Merkel ha precisato che lei rimane filo-atlantica. Ma considerare l’alleanza con l’America (e con il Regno Unito) così profondamente deteriorata, agonizzante, invece di difenderla, la indebolisce non meno di quanto abbia fatto Trump quando definì «obsoleta» la Nato. Non solo: mettere all’indice, assieme, le anglosassoni Washington e Londra, come la cancelliera ha fatto, significa «regalare» la Gran Bretagna a Trump, anche se Theresa May sta dalla parte dell’Europa su commercio internazionale, Nato, Trattato di Parigi sul clima. Merkel è stata mossa, nel suo discorso alla birreria di Monaco (paralleli storici non sono ammessi), anche, forse soprattutto, da considerazioni di campagna elettorale tedesca. Inammissibile, su una questione di portata storica, per chi dovrebbe svolgere un ruolo di leadership europea. Irresponsabile, hanno commentato alcuni osservatori. Come minimo, avventurista. Ce l’ha un piano, Frau Kanzlerin?

domenica 28 maggio 2017

SIGNORA MERKEL, NONOSTANTE TRUMP, RESTA PIU' FACILE FIDARSI DELL'AMERICA CHE DELLA GERMANIA



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La signora Merkel ci spiega che non c'è da fidarsi dell'America di Trump e magari ha ragione.  Noi europei del sud è almeno un lustro che ci chiediamo se è possibile fidarci della Germania.

In generale, guardando alla storia del secolo scorso, direi che è più fondata la nostra diffidenza che quella della Cancelliera.
E anche limitandoci a questi ultimi due lustri, non mi pare che la fiducia in Berlino sia a grandi livelli.
La Germania che s'impanca a maestra dell'Europa, è quella che, dopo l'unificazione tedesca, ebbe necessità di sforare varie volte i parametri finanziari (insieme alla Francia, che continua a farlo); è quella che, sempre insieme ai cugini parigini, si è per prima cosa preoccupata che i prestiti europei e mondiali alla Grecia andassero a ripianare i prestiti troppo allegramente concessi ad Atene dalle loro banche, Deutsche in testa ; è quella che viola costantemente le regole sul surplus commerciale. 
E,  dal punto di vista degli USA, è il paese che, come e più degli altri europei, ha vissuto sotto l'ombrello difensivo americano, risparmiando, tra l'altro, vagonate di miliardi nei decenni.
Trump, ma Obama prima l'aveva fatto ben capire, ha detto col poco garbo che lo distingue, che gli yankee si sono stufati e che gli europei, nei loro già traballanti bilanci pubblici, dovranno seriamente prendere in considerazione la spesa per difendersi.
Capisco che poco ci piaccia ma non la vedo come una grossa ingiustizia. Come il professor Panebianco, sono e resto un filo americano. Non considero Trump una benedizione, ma comprendo il suo obiettivo : America First.
E poi l'alternativa a buoni rapporti con gli USA quale sarebbe ? 
Buona Lettura




Il Corriere della Sera - Digital Edition

   le lezioni sbagliate agli usa 

di Angelo Panebianco

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L a rinuncia di Trump e Merkel alla tradizionale conferenza stampa per la chiusura dei lavori del G7 segnala che non c’è stato nemmeno un timido tentativo di incollare i cocci. Le relazioni transatlantiche hanno toccato il punto più basso. È la democrazia: Trump ha rispettato il suo mandato elettorale, ha dimostrato ai suoi elettori che è capace, almeno a parole, di onorare le promesse .
In coerenza con il principio-manifesto «America First» ha detto agli europei che devono spendere di più per la difesa comune, smetterla di consumare sicurezza a spese dei contribuenti americani, ha mandato in cavalleria l’accordo sul clima, ha polemizzato con la Germania per la sua politica commerciale, ha rigettato sull’Europa (la quale,a sua volta, ha simpaticamente lasciato il cerino acceso in mano all’Italia) il peso di fronteggiare la questione immigrazione. La posizione comune sul terrorismo è poco più di un atto dovuto, una specie di minimo sindacale. Lotta comune, peraltro, che rischia di essere alquanto compromessa se le intelligence dei vari Paesi, cominciando a dubitare dell’affidabilità americana (dalle confidenze «riservate» di Trump ai russi al caso Manchester) ridurranno sensibilmente la disponibilità allo scambio di informazioni. Il governo del mondo occidentale, al momento, sta attraversando una crisi grave per il fatto che il leader, la potenza che ha guidato quel mondo ininterrottamente dalla fine della Seconda guerra mondiale, sta abdicando, ci sta dicendo che gli oneri della leadership superano ormai gli onori e che occorre rinegoziare tutto.

Ciò nonostante, certe letture eccessivamente deterministe di quanto sta accadendo dovrebbero essere rifiutate. Non c’è nulla di già scritto. Non è vero che i cambiamenti in atto da tempo nella distribuzione del potere mondiale (a danno del mondo occidentale e a beneficio di potenze extraoccidentali) debbano necessariamente comportare, insieme, una accelerazione del declino occidentale accompagnata da una fine rapida della egemonia statunitense. Sono gli uomini e le donne a fare la storia, e non il contrario. Trump non era «inevitabile» . E non è affatto detto che l’America non possa, in un tempo ragionevole, fare gli aggiustamenti necessari per riprendersi quel ruolo di leadership che ora, con Trump (ma questa propensione si era già manifestata ai tempi di Obama), rifiuta.

La storia ha sempre la capacità di sorprenderci. È per questo che le letture deterministe degli eventi non funzionano. Per anni e anni ci siamo sentiti dire, ad esempio, che la globalizzazione era irreversibile. Nulla di più falso. Il mondo ha conosciuto varie ondate di globalizzazione (che apparivano sempre ai contemporanei come irreversibili) seguite da fasi di ripiegamento e di chiusura. 

L’idea che possa essere la Cina a prendere la guida dei processi di globalizzazione al posto di un’America neo-protezionista e chiusa in se stessa, è , oltre che umoristica, altrettanto bislacca dell’idea secondo cui la globalizzazione sarebbe irreversibile. La globalizzazione come l’abbiamo conosciuta parla inglese con accento americano (così come la precedente ondata, quella ottocentesca, parlava british ), è il parto di società aperte (quelle occidentali) a lungo guidate dalla più aperta di tutte. La Cina, con il suo regime chiuso e autoritario, e le sue dure politiche neo-mercantiliste, può godere dei frutti di una globalizzazione che ha il motore nelle società aperte occidentali, ma di sicuro non può assumerne la guida.

Vero è invece che se gli Stati Uniti confermeranno nei prossimi anni la volontà di abbandonare il ruolo svolto dopo il 1945 si determineranno conseguenze negative sia sul piano economico che su quello politico. Ci sarà una frenata della globalizzazione economica, alla lunga con conseguenze economiche negative per molti Paesi. E ci sarà un aumento, anche molto forte, del disordine mondiale. Coloro che per decenni, qui da noi, in Europa, hanno contestato la leadership americana si accorgeranno di quanta instabilità e quanta insicurezza si accompagnerà al vuoto di potere generato dalla fine di quella leadership.

Qualcuno dice: è arrivato il momento dell’Europa. Ma la vittoria di Macron , sbarrando il passo a Le Pen, ha solo permesso alla Ue di schivare un colpo mortale. I gravi problemi europei sono tutti lì, intatti. Delle due scuole di pensiero, quella che dice che l’Europa può fare il salto dell’integrazione politica liberandosi dal legame con gli Stati Uniti, e quella che pensa che l’integrazione europea necessiti di forti legami transatlantici, la seconda sembra, alla luce dell’esperienza storica, la più attendibile. Certamente gli europei, date le loro tante magagne, non possono oggi fare la lezione agli americani. Devono prima correggere errori e storture. Solo così conquisteranno il diritto di poter ricordare all’America che tutte le società aperte, persino quelle dotate della maggiore forza economica e militare, hanno necessità di fare parte di più ampie «comunità»: aggregati umani fondati sulla fiducia e nei quali circolano liberamente merci, persone, idee.