domenica 28 maggio 2017

SIGNORA MERKEL, NONOSTANTE TRUMP, RESTA PIU' FACILE FIDARSI DELL'AMERICA CHE DELLA GERMANIA



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La signora Merkel ci spiega che non c'è da fidarsi dell'America di Trump e magari ha ragione.  Noi europei del sud è almeno un lustro che ci chiediamo se è possibile fidarci della Germania.

In generale, guardando alla storia del secolo scorso, direi che è più fondata la nostra diffidenza che quella della Cancelliera.
E anche limitandoci a questi ultimi due lustri, non mi pare che la fiducia in Berlino sia a grandi livelli.
La Germania che s'impanca a maestra dell'Europa, è quella che, dopo l'unificazione tedesca, ebbe necessità di sforare varie volte i parametri finanziari (insieme alla Francia, che continua a farlo); è quella che, sempre insieme ai cugini parigini, si è per prima cosa preoccupata che i prestiti europei e mondiali alla Grecia andassero a ripianare i prestiti troppo allegramente concessi ad Atene dalle loro banche, Deutsche in testa ; è quella che viola costantemente le regole sul surplus commerciale. 
E,  dal punto di vista degli USA, è il paese che, come e più degli altri europei, ha vissuto sotto l'ombrello difensivo americano, risparmiando, tra l'altro, vagonate di miliardi nei decenni.
Trump, ma Obama prima l'aveva fatto ben capire, ha detto col poco garbo che lo distingue, che gli yankee si sono stufati e che gli europei, nei loro già traballanti bilanci pubblici, dovranno seriamente prendere in considerazione la spesa per difendersi.
Capisco che poco ci piaccia ma non la vedo come una grossa ingiustizia. Come il professor Panebianco, sono e resto un filo americano. Non considero Trump una benedizione, ma comprendo il suo obiettivo : America First.
E poi l'alternativa a buoni rapporti con gli USA quale sarebbe ? 
Buona Lettura




Il Corriere della Sera - Digital Edition

   le lezioni sbagliate agli usa 

di Angelo Panebianco

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L a rinuncia di Trump e Merkel alla tradizionale conferenza stampa per la chiusura dei lavori del G7 segnala che non c’è stato nemmeno un timido tentativo di incollare i cocci. Le relazioni transatlantiche hanno toccato il punto più basso. È la democrazia: Trump ha rispettato il suo mandato elettorale, ha dimostrato ai suoi elettori che è capace, almeno a parole, di onorare le promesse .
In coerenza con il principio-manifesto «America First» ha detto agli europei che devono spendere di più per la difesa comune, smetterla di consumare sicurezza a spese dei contribuenti americani, ha mandato in cavalleria l’accordo sul clima, ha polemizzato con la Germania per la sua politica commerciale, ha rigettato sull’Europa (la quale,a sua volta, ha simpaticamente lasciato il cerino acceso in mano all’Italia) il peso di fronteggiare la questione immigrazione. La posizione comune sul terrorismo è poco più di un atto dovuto, una specie di minimo sindacale. Lotta comune, peraltro, che rischia di essere alquanto compromessa se le intelligence dei vari Paesi, cominciando a dubitare dell’affidabilità americana (dalle confidenze «riservate» di Trump ai russi al caso Manchester) ridurranno sensibilmente la disponibilità allo scambio di informazioni. Il governo del mondo occidentale, al momento, sta attraversando una crisi grave per il fatto che il leader, la potenza che ha guidato quel mondo ininterrottamente dalla fine della Seconda guerra mondiale, sta abdicando, ci sta dicendo che gli oneri della leadership superano ormai gli onori e che occorre rinegoziare tutto.

Ciò nonostante, certe letture eccessivamente deterministe di quanto sta accadendo dovrebbero essere rifiutate. Non c’è nulla di già scritto. Non è vero che i cambiamenti in atto da tempo nella distribuzione del potere mondiale (a danno del mondo occidentale e a beneficio di potenze extraoccidentali) debbano necessariamente comportare, insieme, una accelerazione del declino occidentale accompagnata da una fine rapida della egemonia statunitense. Sono gli uomini e le donne a fare la storia, e non il contrario. Trump non era «inevitabile» . E non è affatto detto che l’America non possa, in un tempo ragionevole, fare gli aggiustamenti necessari per riprendersi quel ruolo di leadership che ora, con Trump (ma questa propensione si era già manifestata ai tempi di Obama), rifiuta.

La storia ha sempre la capacità di sorprenderci. È per questo che le letture deterministe degli eventi non funzionano. Per anni e anni ci siamo sentiti dire, ad esempio, che la globalizzazione era irreversibile. Nulla di più falso. Il mondo ha conosciuto varie ondate di globalizzazione (che apparivano sempre ai contemporanei come irreversibili) seguite da fasi di ripiegamento e di chiusura. 

L’idea che possa essere la Cina a prendere la guida dei processi di globalizzazione al posto di un’America neo-protezionista e chiusa in se stessa, è , oltre che umoristica, altrettanto bislacca dell’idea secondo cui la globalizzazione sarebbe irreversibile. La globalizzazione come l’abbiamo conosciuta parla inglese con accento americano (così come la precedente ondata, quella ottocentesca, parlava british ), è il parto di società aperte (quelle occidentali) a lungo guidate dalla più aperta di tutte. La Cina, con il suo regime chiuso e autoritario, e le sue dure politiche neo-mercantiliste, può godere dei frutti di una globalizzazione che ha il motore nelle società aperte occidentali, ma di sicuro non può assumerne la guida.

Vero è invece che se gli Stati Uniti confermeranno nei prossimi anni la volontà di abbandonare il ruolo svolto dopo il 1945 si determineranno conseguenze negative sia sul piano economico che su quello politico. Ci sarà una frenata della globalizzazione economica, alla lunga con conseguenze economiche negative per molti Paesi. E ci sarà un aumento, anche molto forte, del disordine mondiale. Coloro che per decenni, qui da noi, in Europa, hanno contestato la leadership americana si accorgeranno di quanta instabilità e quanta insicurezza si accompagnerà al vuoto di potere generato dalla fine di quella leadership.

Qualcuno dice: è arrivato il momento dell’Europa. Ma la vittoria di Macron , sbarrando il passo a Le Pen, ha solo permesso alla Ue di schivare un colpo mortale. I gravi problemi europei sono tutti lì, intatti. Delle due scuole di pensiero, quella che dice che l’Europa può fare il salto dell’integrazione politica liberandosi dal legame con gli Stati Uniti, e quella che pensa che l’integrazione europea necessiti di forti legami transatlantici, la seconda sembra, alla luce dell’esperienza storica, la più attendibile. Certamente gli europei, date le loro tante magagne, non possono oggi fare la lezione agli americani. Devono prima correggere errori e storture. Solo così conquisteranno il diritto di poter ricordare all’America che tutte le società aperte, persino quelle dotate della maggiore forza economica e militare, hanno necessità di fare parte di più ampie «comunità»: aggregati umani fondati sulla fiducia e nei quali circolano liberamente merci, persone, idee.

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