Siamo a meno di due settimane dal voto europeo, e l'unica cosa che lo ricorda sono i sondaggi la cui lettura interessa in chiave nazionale e non europeista. Sappiamo quali sono i problemi dell'Unione perché in questi ultimi anni , causa la crisi economica (quando la pancia è piena tutto si guarda con più indulgenza ), sono emersi in maniera eclatante. Ne elenco solo alcuni :
- mancanza di un autentico sentimento unitario. Si fa presto a definirsi europei, però poi quando si tratta di decidere le politiche comuni i nazionalismi riemergono prepotenti e chi è più forte fa valere il proprio interesse. I paesi che chiedono di entrare non lo fanno perché si sentono "europei" ma perché pensano che staranno meglio. Non è un caso che gli istanti siano per lo più paesi economicamente deboli. Gli altri, cercano di immaginare una partecipazione defilata, e chi ha la propria moneta, se la tiene ben stretta rinunciando volentieri all'euro. Non è solo la GB a fare questo, ma anche la Svezia, la Danimarca, Norvegia, tutti paesi forti di una economia stabile. Vogliono entrare invece la Serbia, l'Ucraina, da tempo la Turchia...
- l'Euro si è rivelato un problema, con un intreccio di costi benefici il cui saldo è molto controverso. Da una parte la sconfitta dell'inflazione, il costo del denaro basso, la stabilità del cambio. Ma questi pregi non nascondono più i loro difetti : deflazione (tanto che Draghi ha annunciato che a giugno la Banca Europea interverrà con sistemi "non convenzionali", immagino suuscitando la "gioia" dei tedeschi), euro troppo apprezzato rispetto al dollaro e anche alla moneta cinese.
- la mutualità europea , in questi difficili anni, è stata discutibile e discussa. Tuttora è proibito parlare di eurobond, che infatti sono scomparsi dalle soluzioni possibili
- i regolamenti economici sembrano più punitivi che propositivi, con le quote latte, agrumi e altro
- l'intreccio da norme UE e giurisdizioni nazionali si rivela sempre più spesso fonte di incompatibilità, con prevalenza giuridica delle prime ma con i tribunali nazionali restii, quando ai giudici non gli piacciono, a farle proprie. In altre parole, direttive e regolamenti europei sono applicati o meno con assoluta discrezionalità dai magistrati che scelgono, a seconda della personale preferenza, tra queste e le norme nazionali, in caso di attrito tra le due (in materia di famiglia questa cosa per esempio si vede spesso, ma anche per la custodia cautelare i nostri PM ignorano lo sfavore per tale misura che pure proviene dall'Europa).
- l'unione politica è inesistente, e il livello di democrazia scarso. Il parlamento europeo, eletto dalle popolazioni, ha tuttora poteri prevalentemente consultivi, non fa leggi. A questo ci pensa la commissione, i cui membri sono nominati. dal Consiglio Europeo (costituito dai capi di governo di ogni paese membro) , sia pure dietro approvazione del Parlamento. Per questo motivo , nel duello ipotizzato tra Junker e Schultz , rispettivamente leader del PPE e PSE, le due formazioni maggiori, la Merkel ha già puntualizzato che non sarà il voto a designare il futuro presidente della Commissione. "Se ne dovrà parlare con calma nel proseguio".
- ovviamente, se non esiste una politica unitaria in senso lato, tantomeno ci può essere in campo estero. E qui le dimostrazioni sono talmente tante che non vale nemmeno la pena elencarle.
Gli erasmus, il circolare liberamente (ma poi a casa tua devi tornare...che per rimanere in un paese comunitario come residente, ci sono regole la cui severità è variabile, ma che comunque esistono eccome ), sono cose belle, ma poca roba rispetto al resto.
Si sostiene, e credo sia verosimile, che l'Unione Europea abbia preservato il continente più sanguinario della storia del pianeta da altre guerre, dopo le due della prima metà del secolo scorso che da sole avevano provocato almeno 70 milioni di vittime(circa 15 milioni la prima, oltre 55 la seconda, ma c'è chi si spinge a calcolare 100 milioni i morti in qualche modo derivanti dai due conflitti, comprendendo epidemie, stenti, feriti morti successivamente, in particolare i giapponesi vittime delle contaminazioni nucleari).
In effetti, fosse solo questo, si tratterebbe di un risultato eccezionale e da preservare. Ma non sono del tutto certo che sia solo merito del progetto europeo, che fino al 1989 il continente era il teatro principale della guerra fredda, ed è più probabile che l'equilibrio del terrore atomico fu causa principale della lunga pacificazione.
Nel dibattito preelettorale però io sento poco parlare di riforme fattibili dell'Europa. Gli euroscettici hanno il pregio di parlare chiaro. Loro propongono l'uscita dall' Europa sostenendo che la propria nazione, libera dai vincoli di Bruxelles, potrà meglio affrontare i grandi problemi dell'economia globale e dell'immigrazione e dicono come : ripristino di una banca centrale nazionale e sovrana, libera di stampare moneta e svalutarla, ridando competitività all'economia e deprezzando il valore del debito, blocco militare delle frontiere.
Saranno programmi dissennati e irrealistici, che l'isolazionismo non è più percorribile, però sono espliciti. Altrettanto si può dire degli euroentusiasti che continuano a parlare deglli Stati Uniti d'Europa. Ora, voi ve lo immaginate lo Stato di NY che obbliga quello del Mississipi ad adottare politiche di austerità ? Che impone alla Federal Reserve cosa fare o non ?
Siamo MOLTO lontani da simili realizzazioni e penso non ci arriveremo mai, che negli USA ci sono lingua e storia comuni, in Europa esiste l'esatto contrario.
Resta quindi la via di mezzo, di chi pensa a delle riforme che concilino il progetto unitario nel superamento graduale delle diversità. Dirlo così è facile e pure figo. Farlo come ?
E qui il fumo è denso come la nebbia di Londra d'inverno.
Alla fine la gente risolve votando il partito nazionale che preferisce, e non per le idee di questo sull'Europa.
Riporto l'amara riflesssione di Roberto Toscano su la Stampa che si concentra sull'assordante silenzio di argomenti relativi alla futura politica estera europea, con idee riguardanti anche la difesa comune.
Ricordando che non è l'unico.
Buona Lettura
Il paradosso delle elezioni europee
Detto questo, risulta veramente clamoroso vedere come nella campagna elettorale per le imminenti elezioni per il Parlamento Europeo la politica internazionale sia la grande assente.
Si discute sull’euro, su austerità contro crescita, sul futuro del welfare, sul problema dell’occupazione soprattutto giovanile, sullo sviluppo ulteriore delle istituzioni europee, e persino sull’identità cristiana o plurale dell’Europa – ma è quasi impossibile trovare riferimenti all’Unione Europea come soggetto di politica estera, alle sfide alla sicurezza e alle strategie, e ai mezzi, per farvi fronte.
L’unica eccezione si riferisce a sporadici e poco approfonditi cenni alla «crisi del giorno».
Ovvero all’instabilità dell’Ucraina e al revisionismo storico della Russia di Putin. Anche in questo caso però mancano non solo analisi approfondite, ma anche prese di posizione e proposte alternative dei candidati e dei raggruppamenti politici su come far fronte a un cambiamento non superficiale del quadro geopolitico del nostro continente.
È come se si fosse dimenticato che esiste una cosa che si chiama «Politica estera e di sicurezza comune –Pesc», e nel suo ambito anche una «Politica europea di sicurezza e difesa –Pesd». Nessuno ne parla, nessuno fra i candidati ne affronta contenuti, limiti, prospettive. Nessuno propone linee di sviluppo e priorità alternative. E nessuno menziona lo strumento che l’Unione si è data ormai da quattro anni per perseguire questo insieme di obiettivi di politica estera con un proprio embrionale servizio diplomatico, il «Servizio europeo per l’azione esterna –Seae».
Ma quale credibilità può avere l’Europa-soggetto internazionale se questo insieme di sigle che definiscono istituzioni e meccanismi rimane avulso da un discorso politico persino nel momento in cui i cittadini europei sono chiamati a eleggere i loro rappresentanti nel Parlamento Europeo, e indirettamente anche la Commissione?
L’Unione Europea ha dal 1999 un Alto Rappresentante per la politica estera e di sicurezza comune, e nel 2003 ha approvato un documento sulla Strategia Europea per la Sicurezza che identificava le principali minacce cui far fronte sia in chiave preventiva sia come crisis management: terrorismo; proliferazione di armi di distruzione di massa; conflitti regionali; Stati falliti; criminalità organizzata. Nel 2008 un rapporto sull’applicazione della Strategia concludeva: «L’Unione Europea deve essere più attiva, più coerente e più capace».
Siamo nel 2014, e sarebbe normale che nel quadro dell’attuale campagna elettorale chi ambisce a rappresentarci a Strasburgo e a Bruxelles si pronunciasse sia sugli obiettivi sul sul perché la Ue non risulta, come sembra difficile contestare, più attiva, più coerente e più capace, e su come fare perché lo diventi.
Non dovrebbe essere troppo difficile. Ad esempio, non vi è alcun dubbio sul fatto che esista in Europa una preoccupazione generalizzata nei confronti del fenomeno delle migrazioni. Una preoccupazione che si traduce, soprattutto nella campagna elettorale condotta da forze politiche conservatrici e populiste, negli apocalittici scenari di un’incontrollabile invasione. È vero che il problema, pur sfrondato delle strumentalizzazioni, è oggettivamente serio e richiede di essere affrontato e governato. Ma bisognerebbe capire, e i politici dovrebbero spiegarlo agli elettori, che l’unico modo di gestirlo non è quello di una problematica «impermeabilizzazione» delle frontiere ed espulsione degli immigrati irregolari (non ci riescono nemmeno gli americani, certo non «buonisti»), ma un impegno sostenuto per affrontare nel quadro di una politica estera europea – finora annunciata piuttosto che realizzata - le radici sia economiche sia politiche dei movimenti di popolazione. I richiedenti asilo arrivano perché scappano da micidiali conflitti, i migranti economici da economie disastrate e sistemi politici repressivi e corrotti. L’Unione Europea aveva ed ha l’ambizione di contribuire, con il suo peso politico e la sua forza economica a creare, soprattutto nelle zone ad essa limitrofe, condizioni tali da ridurre, se non eliminare, le condizioni che sono alla radice di questi fenomeni. Si può fare: basterebbe chiedersi perché non si parla più dell’«invasione albanese» che aveva tanto turbato i sonni degli italiani all’inizio degli Anni 90.
Invece si parla di migranti, ma non di aiuto allo sviluppo e nemmeno delle attività Ue per contribuire alla stabilità politica nelle aree più critiche. Pensiamo in particolare ai Balcani, rispetto ai quali si dovrebbe discutere anche molto criticamente sia dei risultati e delle potenzialità sia dei limiti e delle contraddizioni (vedi la Bosnia, dove l’impegno internazionale, e in particolare europeo, non sembra avere risolto alcuno dei problemi di fondo, sia politici sia economici).
E non dovrebbe nemmeno essere difficile affrontare in chiave politica il discorso sulla politica dell’Unione in tema di allargamento. Come valutare il processo fin qui realizzato? Quali benefici ha apportato, quali costi ha comportato? E che fare per il futuro (Serbia, Turchia, Ucraina)? In che modo lo strumento dell’ampliamento può contribuire alla stabilità, e in che misura è sia politicamente sia economicamente sostenibile? I candidati invece evitano di parlarne, forse proprio perché si tratta di un tema problematico in cui spesso le aspirazioni vengono contraddette dal realismo. Quello che è certo è che eludere i problemi può produrre errori molto gravi e conseguenze molto negative.
È davvero un paradosso. Nel momento in cui il mondo globale rende i confini sempre più teorici e in cui l’Europa, per evidenti ragioni sia economiche sia geopolitiche, può permettersi anche meno degli Stati Uniti di rinchiudersi in una visione autoreferenziale, si sta in questi giorni perdendo un’importante occasione di coinvolgere i cittadini europei in un aperto confronto politico fra diverse proposte su come concepire il ruolo dell’Unione nel mondo.
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