Vitiello è uno dei tanti a cui il film non è piaciuto, e lo ha detto : Ha vinto un film molto brutto, tutto qui. Aggiungo: pesantemente brutto, iperbolicamente brutto. Che riassume, dandogli un qualche lustro, tutte le pecche e le tare del cinema italiano inteso come arte, come industria, come espressione dell'ideologia italiana ecc.
Facci si è spiegato più lungamente.
Così :
Facci sull'Oscar a Sorrentino: "Il grande pregiudizio"
Ma ricominciamo dalla premiazione. Sorrentino è andato in bambola: è l’unica umana spiegazione per un tizio che vince un Oscar e poi si mette a ringraziare Maradona, che peraltro è argentino e gli italiani mediamente odiano: il che era una nota autobiografica perché Sorrentino è napoletano, certo, ma per l’americano medio sarà suonato come quando la Loren gridò «Robbberto» a Benigni: un cordiale rinforzino del cliché che ci vuole tutti un po’ Fellini e tutti un po’ terroni, ma beninteso, eleganti.
Dunque italiani, Sicilia, mafia, ladri di biciclette, poveri, straccioni, ma anche Napoli, pizza, spaghetti, sciuscià, Dopoguerra, mediterraneo, pelle e occhi scuri, tarantelle e mandolini, ma anche Roma, Colosseo, la ciociara, la mamma, la Madonna, e santi, monumenti, pittori, musicisti, artisti, teatranti, casanova, saltimbanchi, pagliacci, stilisti, buffoni, clown, e la bellezza, come no, la grande e immortale bellezza. Bene, nel film di Sorrentino questa roba c’è tutta. Ed è la ragione per cui il regista italiano anche più bravo del mondo, se fosse di Pordenone, non vincerebbe mai un Oscar.
Il nostro ingenuo errore è stato guardare La grande bellezza come se fosse un film italiano pensato per un pubblico italiano: quando, invece, è una pellicola che fin da bambina è stata pensata e programmata per vincere l’Oscar. Provate e riguardare il film in quest’ottica - oppure guardatelo e basta, se non l’avete visto: lo fanno questa sera su Canale 5 - e l’operazione vi parrà più chiara. Meglio ancora, provate a riguardare il film immaginando di essere americano: che cosa volete che gliene freghi a un americano se certe feste a Roma esistano effettivamente o meno? Se certi chirurghi plastici esistano o meno? Se le performance stile Marina Abramovich siano credibili? Che gli importa se il film manchi o meno della contaminazione politico-editoriale-letteraria classica romana, impastata di cinismo millenario e imbucata da personaggi spesso impagabili? Che ne sa, un americano, della Rai? Come può sapere se il personaggio della miliardaria comunista, cornuta e con piscina, sia credibile?
Questi sono problemi da spaccacapelli italiani, da cinefili o critici nostrani: un americano non sa - e non gl’importa - che nel film mancava sua maestà l’indifferenza, la vacuità, il forzato disincanto dei romani anche di fronte ai pochi incanti che restano e che non sanno riconoscere, non sa che nel film mancava l’ipocrisia esibita, la grande commedia della piaggeria capitolina: non lo sa e non gl’importa, perché è americano. A un americano è sufficiente che le proiezioni di Sorrentino, perlomeno quelle della bruttezza, coincidano con le sue: dunque il dominio della coca, le stronze, i parassiti, le attricette, gli scrittorucoli, «le ricche», gli industrialotti, i cardinali da talkshow, il perverso paese dei balocchi coi suoi maghi e le giraffe e i lanciatori di coltelli, tutta una bruttezza molto occidentale e internazionale e scolastica, perché di cocainomani e puttane e mafiosi non possediamo certo l’esclusiva. Sorrentino fa vedere l’immagine della Costa Concordia perché l’hanno vista in tutto il mondo: a noi italiani non ce ne frega niente.
Sorrentino, pure, non si sofferma sulla Roma finanziariamente fallita, sulla cattiva amministrazione, sulla spazzatura, la maleducazione, la stretta attualità: non gli serviva, erano minuterie da italiani. Roma è tra le città più antiche della Storia (la battono Atene e Gerusalemme) e al pubblico di Hollywood sai che gliene frega di Ignazio Marino: meglio la bellezza eterna, e scusate se è poco: le silenziose albe romane con la loro luce radente e fotografica, i dipinti e le statue della Roma segreta, gli scorci mozzafiato, le passeggiate, i giardini degli aranci, ciò che fa di Roma una delle città più belle del mondo e forse la più immortale.
Non è che servisse un documentario, per saperlo. Serviva una vaga, evocativa, suggestiva visione da addensare di libere e personali interpretazioni. Il film di Sorrentino non vuol dire granché: il trucco è lasciare il cerino in mano a noi.
E a un americano, nel contemplare La grande bellezza, fa gioco anche lo stile registico rococò che tanto ha inorridito i puristi, ma che - confessiamo - è piaciuto tanto anche a noi provinciali, patiti di Sergio Leone: il manierismo compiaciuto, i movimenti di macchina, l’abuso dei numeri di regia, la fotografia contrastata, le luci stile occhio di bue, e le carrellate, i dolly plananti, gli zoom e i rallentatori.
Che volete: a noi piace. La grande bellezza mica poteva girarla Werner Herzog. L’ha girata un napoletano che ha dedicato l’Oscar a Maradona, com’era lecito attendersi da un Paese geniale e cialtrone.
Nessun commento:
Posta un commento