Forse sbaglierò, ma c’è qualcosa che non mi torna nelle cronache di questi mesi. Molti minorenni passano la notte in discoteca, normalmente con il permesso delle famiglie, ma se un ragazzo o una ragazza muore dopo aver assunto una pasticca di ecstasy, il telegiornale ci informa che è indagato chi «ha esaudito il suo desiderio», o che le autorità stanno pensando alla chiusura del locale in cui ha ballato tutta la notte. Di chi è la colpa? È ovvio che se si muore per l’assunzione di una sostanza pericolosa ci dev’essere qualcuno che ha esaudito il desiderio di entrarne in possesso, come è ovvio che ci dev’essere stato un luogo in cui la si è consumata.
È altrettanto ovvio che gli spacciatori vanno perseguiti, le pastiglie di ecstasy sono illegali, e nelle discoteche ne circolano troppe. Stranamente, però, quasi nessuno ama ricordare che viviamo in una società libera, e che l'assunzione di rischi è una scelta personale, che nessuno è obbligato a fare.

Ma “era solo una bambina”, o solo un ragazzino, si ribatte, per spostare le responsabilità sulle cattive compagnie, sui pusher, o sulle discoteche. Non viene in mente che appunto perché “è solo una bambina” non è il caso che stia fuori casa fino alle 6 del mattino. Un misto di pietà e di bisogno di trovare comunque un colpevole ci impedisce di distinguere fra le responsabilità primarie e le condizioni collaterali. Se non si desidera assumere sostanze non vi è nessun amico e nessuna discoteca che possano costringerci a farlo. E se lo vogliamo fare, ci sarà sempre un fornitore che esaudisce il nostro desiderio e un luogo, discoteca o lungomare, che riterremo appropriato per lo “sballo”. La responsabilità primaria è in capo a noi stessi.
La stessa cieca incapacità di individuare gli attori principali di una tragedia, e lo stesso bisogno di trovare comunque un colpevole, possibilmente punibile, si ripresenta di fronte al dramma dell'immigrazione. Qui dovrebbe essere chiaro che almeno una parte dei migranti che cercano di raggiungere l'Europa via mare, e specificamente quelli su cui più si attarda l'umana compassione, fuggono da crudeli dittature, da paesi insanguinati dalle guerre e dalle lotte fratricide. Eppure, come ha giustamente fatto notare Ernesto Galli della Loggia sul “Corriere della Sera”, dalle bocche degli esponenti della Chiesa sentiamo solo dure rampogne ai partiti e alle istituzioni perché non fanno abbastanza per accogliere i profughi, e mai nulla di altrettanto severo per condannare i governanti dei paesi da cui i profughi fuggono.
Né si tratta di sviste, o di prese di posizione isolate. E' stato il Papa stesso, a proposito di un altro dramma, quello dei migranti Rohingya che fuggono dal Myanmar (Birmania) e sono respinti dagli stati vicini, che si è ben guardato di elevare una filippica, alta e solenne, contro i dittatori del Myanmar, ma ha usato parole forti come “atto di guerra”, “violenza”, “uccidere” per stigmatizzare la mancata accoglienza dei profughi.
Eppure dovrebbe essere evidente di chi sono le responsabilità primarie, nel Mediterraneo come nell'Oceano indiano. Così come dovrebbe essere evidente che, per nessuno Stato, neppure per il Vaticano e per le strutture della Chiesa cattolica nel mondo, il principio di accoglienza può essere illimitato e incondizionato. E ancora più evidente dovrebbe essere la pericolosità di giocare con le parole: parlare di atto di guerra, di violenza, di uccidere può essere forse un modo metaforico, peraltro assai impreciso e discutibile, per descrivere le persecuzioni cui i migranti sono sottoposti nei paesi di origine, ma diventa del tutto arbitrario, e fondamentalmente ingiusto, per parlare dei comportamenti dei paesi di arrivo.
Sono due esempi volutamente diversissimi ma che, proprio per la loro diversità, mostrano quanto forte e profondo sia il meccanismo di spostamento della responsabilità. Un meccanismo che abbiamo descritto nel caso di due tragedie, i giovanissimi che rischiano di morire per droga e i migranti che rischiamo di morire per mare, ma che opera un po' ovunque nelle nostre società. Alla sua radice, azzardo un'ipotesi, potrebbe esservi semplicemente questo: quando sentiamo che la causa di un problema non può essere rimossa, o perché quella causa è troppo forte e radicata (dittature) o perché noi non abbiamo voglia di combattere (educazione dei figli), o per entrambi i motivi (intangibilità della “cultura giovanile”), allora cerchiamo qualcosa di aggredibile, un nemico che sia alla nostra portata, un capro espiatorio sufficientemente accessibile e ben definito da poter essere sacrificato sui nostri altissimi principi morali.
Ciò ci farà sentire buoni e impegnati, e al tempo stesso tranquillizzerà il nostro bisogno di trovare un responsabile (diverso da noi stessi) per ogni fatto sociale che inquieti le nostre coscienze.
Non avendo il coraggio di dire di no ai nostri figli, ce la prendiamo con le cattive compagnie, gli spacciatori, i gestori delle discoteche, i controlli insufficienti, le forze dell'ordine. Non avendo né l'intenzione né la possibilità politico-militare di normalizzare il nord-Africa ce la prendiamo con l'egoismo dell'Europa e l'incapacità del governo italiano di accogliere tutti dignitosamente. Un mix di rassegnazione e di paternalismo indirizza la nostra indignazione verso i bersagli più alla nostra portata. Diamo per scontato che i popoli dell'Africa non sappiano auto-governarsi, come diamo per ineluttabile che i giovani siano attratti dalla movida e dallo sballo. Succede lo stesso nella scuola, dove non si consuma alcun dramma ma da decenni assistiamo alla medesima sceneggiata. Con tutta evidenza il problema di base è che gli studenti non studiano, e non lo fanno per la semplice ragione che alla maggior parte dei genitori interessa solo il pezzo di carta e la serenità dei figli. E tuttavia torme di quei medesimi genitori, assetati di vacanze e intrattenimento, non trovano di meglio che mettere alla sbarra gli insegnanti, evidentemente incapaci di motivare a sufficienza i loro figli. Anche qui il meccanismo è il solito: i giovani sono considerati non responsabili e irrecuperabili, ma avendo noi bisogno di un colpevole, e disperando di poter intervenire sui giovani stessi, lo cerchiamo nel più adatto a lasciarsi colpevolizzare, in questo caso la scuola e il corpo insegnante.
Una sorta di strabismo etico ci fa distogliere lo sguardo dai veri responsabili dei drammi piccoli e grandi del mondo, e indirizza il nostro bisogno di “individuare i colpevoli” solo sui colpevoli facilmente perseguibili o stigmatizzabili, anche quando sono semplici comparse. E' un gioco pericoloso, perché talora i capri espiatori sembrano starci (è il caso di parecchi insegnanti, inclini all'autoflagellazione), altre volte sono rassegnati (è il caso dei gestori delle discoteche), ma altre volte possono stufarsi di essere colpevolizzati.
E' questo, talora, l'esito non previsto delle grandi campagne “pedagogiche”, in cui l'élite al potere prova ad educare la massa, giudicata rozza, incolta e bisognosa di essere illuminata. Così come gli eccessi del politicamente corretto, portati oltre una certa soglia, possono sortire una reazione uguale e contraria (vedi, in questi giorni, il successo dello scorrettissimo Donald Trump negli Stati Uniti), analogamente i richiami delle anime belle all'imperativo morale dell'accoglienza, con l'implicita stigmatizzazione di ogni voce dissenziente, alla lunga possono suscitare sentimenti opposti a quelli che intendono inoculare. A forza di essere accusata di indifferenza, egoismo, insensibilità, mancanza di carità cristiana, anche l'opinione pubblica più avanzata e democratica rischia di passare dall'altra parte: perché le prediche possono anche andare benissimo, ma dovrebbero evitare accuratamente di prendere di mira i bersagli sbagliati.