martedì 10 luglio 2012

SONO GIUSTE LE GUERRE DEMOCRATICHE?


Sulla vicenda Siriana ho scritto tanti post, da ultimo quello successivo al Summit tenutosi a Parigi titolato "Amici della Siria". Ho letto e "ospitato" i pareri, a volte opposti, di giornalisti valenti come Pierluigi Battista, Maria Giovanna Maglie, Henry Bernard Levy. I fautori entusiasti della Primavera araba, gli scettico realisti, i delusi della rivoluzione mancata e i fiduciosi che certi processi sono lunghi e col tempo le istanze laiche e i diritti civili prevarranno.
Se scorrete nell'archivio del blog, li trovate tutti.
E anche oggi, nello stesso quotidiano, il Corriere della Sera, troviamo posizioni divise. Il solito Pierluigi  Battista, che a suo tempo si schierò senza esitazioni a favore dell'intervento contro Gheddafi, sull'assunto che l'eliminazione di un dittatore brutale e assassino della propria gente fosse comunque un BENE, e che oggi, in Libia, nel vedere che le forze laiche riescono a contrastare, alle urne  i partiti islamisti, più conservatori (a differenza di quanto avvenuto in tutti gli altri paesi arabi, diciamolo), ritrova fiducia e speranza.
Dal lato opposto, viene presentato un saggio di Massimo Fini, che da tempo si pronuncia contro l'ipocrisia e la falsità delle guerre "democratiche", vale a dire i conflitti che l'occidente conduce con il pretesto dei diritti civili, della tutela della popolazione, affermando un principio di superiorità "etica" della democrazia occidentale che , scrive il noto polemista, altro non sarebbe che una forma moderna di colonialismo.
Non è una voce isolata. Da noi, specie tra i pacifisti e la sinistra, sono in tanti a pensarla sostanzialmente in questo modo, anche se le posizioni sono spesso più "rozze" e certo peggio espresse.
Oggi  l'Occidente se ne è andato dall'Iraq, dove non c'è più un dittatore che era stato un sanguinario peggiore di  Gheddafi ma la pace nel paese non è stata ristabilita, attentati e lotte tra fazioni rappresentano fenomeni normali e l'Iran sta diventando paese "amico" e di "riferimento".
Tra un po' ce ne andremo anche dall'Afghanistan, anche lì senza essere riusciti a debellare i Talebani che restano la formazione più coesa, agguerrita e organizzata del paese, e che, partiti noi, quasi sicuramente ne riprenderanno il controllo.
Insomma, sicuramente le democrazie "esportate" non sembrano funzionare un granché.
In questo Fini sembra trovare anche una qualche "giustizia". E' una presunzione quella occidentale di essere i depositari dell'unico modo possibile di vivere una vita degna di essere vissuta.
E le vicende di un paese, che restino di quel paese. Se un dittatore dovrà essere abbattuto dal suo popolo, che sia, senza che noialtri della Nato decidiamo se è giusto (Gheddafi) o meno (Assad, almeno finora).
Il problema indubbiamente è difficile. Però a Fini chiederei : e Srebrenica? e Sarajevo? E' stato giusto lasciarle al massacro dei serbi? E' stato sbagliato, intervenendo, far cessare l'occupazione o l'assedio della città bosniache? Io, personalmente, da europeo, di Srebrenica ancora mi vergogno.
Ecco l'articolo di recensione del libro.
Buona Lettura


Guerra democratica, un'illusione che dura da vent'anni
Come sa bene chi abbia letto la sua biografia di Catilina, se c'è una cosa che Massimo Fini ammira è il coraggio. E, sia detto per inciso, c'è un po' da compatirlo, visto che di questi tempi si tratta di merce rara. Ebbene, di coraggio ne ha avuto lui stesso parecchio a dare il via libera alla pubblicazione de La guerra democratica, raccolta di suoi articoli scritti tra il 1987 e il 2012 su varie testate.
   
Con questo libro in un colpo solo il giornalista attacca due dei capisaldi del politically correct dei nostri anni: il mito della democrazia occidentale in quanto migliore dei sistemi politici possibili per tutti, quindi in qualche modo da esportare costi quel che costi per il bene dei popoli che non la conoscono e non la praticano e quello della protezione dei diritti umani imposta con le armi e quasi sempre coniugata con la «lotta al terrorismo» e le operazioni di «peacekeeping».
Per spiegare lo spirito dell'opera, conviene forse lasciare la parola all'autore che lo fa da par suo, cioè benissimo: «Dopo il collasso del contraltare sovietico le democrazie, Stati Uniti in testa, hanno inanellato, in vent'anni, otto guerre di aggressione. La "guerra democratica" non si dichiara ma si fa, con cattiva coscienza, chiamandola con altri nomi. Col grimaldello dei "diritti umani" si è scardinato il diritto internazionale sul presupposto che l'Occidente, in quanto cultura superiore (moderna declinazione del razzismo), portatore di valori universali, i suoi, ha il dovere morale di intervenire ovunque ritenga siano violati. Il nemico, allora, non è più, schmittianamente, uno "iustus hostis", ma solo e sempre un criminale. Essenzialmente tecnologica, sistemica, digitale, condotta con macchine e robot, la "guerra democratica" evita accuratamente il combattimento, che della guerra è l'essenza, perdendo così, oltre a ogni epica, ogni dignità, ogni legittimità, ogni etica e perfino ogni estetica».

Si può essere d'accordo oppure no con queste tesi, ma sono comunque parole da meditare in questi giorni in cui ciò che sta succedendo in Siria scuote le coscienze del mondo e si parla sempre più spesso di un intervento contro il regime di Bashar Assad. La lezione della Libia (anche se le elezioni di questi giorni fanno ben sperare) è ancora fresca: un intervento dell'Occidente in difesa dei diritti umani si è trasformato rapidamente in un sostegno a favore di una fazione impegnata in una guerra civile (gli insorti). E quello che si è ottenuto, dopo il rovesciamento di Gheddafi, è una società scossa da scontri tribali in cui i diritti umani, come hanno documentato gli articoli degli inviati del «Corriere», non sembrano molto più rispettati, con l'unica differenza che ora i perseguitati sono gli ex seguaci del dittatore ucciso.
  

Insomma, che si tratti di grandi temi su cui la riflessione è necessaria, è indubbio. Ciò vale soprattutto nel caso dell'Italia, dove un articolo della Costituzione, il numero 11, impedisce le guerre che non siano difensive e quindi aggiunge un ulteriore fattore di grande peso. Di fatto, se Fini ha ragione e quelle dell'Occidente sono guerre di aggressione mascherate, allora molto semplicemente noi italiani non possiamo dirci la verità senza mettere in discussione uno dei cardini del nostro diritto e siamo costretti, ancora più degli altri Paesi occidentali, a raccontarci che andiamo in armi in altri Paesi per il loro bene, anche se non è vero e almeno una parte delle loro popolazioni non ci vuole. Ma non dirsi la verità quando di mezzo ci sono questioni di vita e morte, è rischioso: morire senza sapere bene perché lo rende insopportabile soprattutto nelle democrazie, che con la possibilità di cadere in battaglia (in questo Fini ha ragione) vogliono sempre meno avere a che fare.
Il giudizio di Fini sulle guerre democratiche (Serbia, Kosovo, Kuwait, Afghanistan, Iraq) è sferzante e lui è un grande polemista: i suoi articoli sono quindi sempre godibili. Raccolti in un libro, però, rischiano la ripetitività, grande nemico delle antologie monotematiche.

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