Qualche giorno fa avevo riportato la notizia di Mentana che lasciava Twitter non sopportando più il linciaggio verbale di una parte, minoritaria ma rumorosa e becera, dei suoi "followers".
Qualcuno ha romanamente commentato "e sti c..." , ma non è proprio così, perché il problema è reale, sempre più avvertito, e inevitabilmente finirà per comportare una compulsione della libertà della Rete, oggi pressoché totale. Riprova, una volta di più, che la libertà è una bellissima cosa ma spesso fraintesa con la possibilità anzi il diritto di fare ciò che ci pare, incuranti di regole di convivenza elementari. Ecco dunque la necessità di norme, che speriamo garantiscano, per i tanti corretti frequentatori dei social network, la continuità della libertà di espressione ma al contempo la repressione degli eccessi.
Enrico Mentana , dopo aver letto vari commenti, sia sui media che sulla rete, alla sua decisione, sceglie il Corriere della Sera per rispondere.
Ho già scritto che Mentana non mi sta istintivamente simpatico, troppo saputello nei modi. Però trovo che sia un professionista assai capace e preparato. Sicuramente un grande conoscitore della società.
Condivido integralmente la sua risposta - ho diversi amici, qualcuno anche caro, che rientra perfettamente nella tipologia antropologica descritta da Mentana, e ne consiglio una attenta lettura
La scelta di uscire
Mentana: la realtà non si esaurisce in un tweet
Rischia di essere schiacciato da una minoranza rumorosa, impegnata nella diffusione di una regressiva volgarità
Enrico Mentana (LaPresse)
«Non rinunciare», «Scappi via, codardo», «Non darla vinta a
quattro teppisti», «Fuori i vip che non sanno stare su Twitter». Al di
là del merito, e del caso che mi riguarda, queste reazioni sono utili
per una riflessione generale certo più interessante. Negli intenti sono
diversissime tra di loro, eppure riassumono una comune e fuorviante
convinzione: che Twitter non sia un network di iscritti ma La Comunità,
quella vera, dove «bisogna esserci».Di qui conseguono affermazioni paradossali: chi non sta su Twitter non sa che c'è il brutto, che c'è la volgarità, l'aggressività, ma neanche che c'è il bello, il contraddittorio, o il dialogo alla pari. E chi ne esce perde, o scappa. Dopo aver passato gli anni a irridere quel popolo della poltrona che si illudeva di conoscere la realtà solo guardando la tv (o facendola) gli apocalittici si sono integrati via web, e lì si sono rinchiusi. E neppure loro vedono più il mondo che è fuori dagli schermi, quelli del computer e del cellulare, oltre che della vecchia tv. Attenti, state usando il binocolo alla rovescia. Non si può far credere che la socializzazione consista solo nel leggersi e scriversi tra amici e colleghi o con sconosciuti senza volto, in perfetta solitudine. Fuori da Twitter in Italia ci sono 50 milioni di persone, né migliori né peggiori di follower e following, ma certo più rappresentative.
Non ripudio certo Twitter: è uno strumento efficace di confronto, di ascolto, di informazione. È sfidante per necessità di tempismo e concisione. È un network di socializzazione sintetica, se diamo all'aggettivo «sintetico» tutti e due i suoi significati, la misura in 140 caratteri, ma anche la riproduzione in vitro delle comunità reali. Molti tra quanti hanno un ruolo nella comunicazione, è vero, lo usano soprattutto per lanciare il loro libro o le presentazioni dello stesso, per annunciare il programma o la comparsata in tv, per linkare il loro scritto, per annunciare o smentire inintermediari, per retwittare commenti laudatori al loro libro-articolo-programma. Così come specularmente molti finti iconoclasti lo usano per attaccar briga o insultare o sfogarsi col primo che capita a tiro, soprattutto se sanno chi sono. Ma c'è anche tanta gente che ha voglia e argomenti, che vuol sapere, capire, comunicare.
Quando un anno fa sono entrato in Twitter l'ho fatto nel modo che mi sembrava più giusto, senza srotolare dépliant e cercando di dire la mia. Ma soprattutto leggendo i tweet degli altri: e non solo di quanti seguivo per esigenze professionali (come l'ottimo profilo del Corriere , tra gli altri). Chi fa informazione ha centinaia di migliaia di follower: persone con cui non ti puoi confrontare con domande e risposte, affermazioni e repliche. Puoi leggere quasi tutto quel che ti scrivono, però: ed è quel che ho fatto sempre, utilmente. Per questo credo di poter essere un testimone credibile se dico che Twitter rischia di essere schiacciato da una minoranza rumorosa, impegnata nella diffusione di una regressiva volgarità (soprattutto, in modo impressionante, contro donne) e nelle scorribande alla ricerca del bersaglio di turno da demolire: non per le sue tesi, il che magari sarebbe salutare e proficuo, ma per mero sfizio. Quasi sempre, come ha scritto ieri Roberto Saviano su la Repubblica, «in realtà l'insultatore vuole vivere della luce riflessa dell'insultato».
Non è vivibile una comunità in cui i sentimenti prevalenti sono quelli di ostilità. Nessuno o quasi di coloro che rendono irrespirabile tanta parte di Twitter ha un nome e cognome. Il loro unico «coraggio» sta nella violenza delle parole, la loro viltà nel nickname, lo pseudonimo col quale firmano le loro ribalderie. Come cantava Jannacci: «Un bel mondo sol con l'odio ma senza l'amore, e vedere di nascosto l'effetto che fa». Un mondo da cui si può fare un passo indietro: come in un circolo, un partito, un'associazione. Un socio in meno, non un «caso». Il giorno in cui elementari regole di civiltà, come quelle del mondo reale, saranno osservate anche lì, di certo ci tornerò. Il web del resto è ormai un pezzo della nostra vita. Ma proprio per questo vorrei avvertire tutti quelli che ci si sono chiusi dentro: guardate che fuori non c'è solo l'odiata torre d'avorio dei privilegiati, ci sono strade, negozi e uffici veri, giornali di carta e persone in carne e ossa. Anche tanta gente in difficoltà, che ha perso il lavoro o ha altri problemi veri: e nessuno di loro ha in mano uno smartphone. Per ora siete voi che mimate loro, non il contrario. Ed è dalla realtà che i pavidi fuggono, non da Twitter.
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