"C'eravamo tanto amati " potrebbe titolarsi la storia tra Pierferdinando Casini e Mario Monti. All'epoca della nascita del Governo dei Tecnici, l'unico partito della maggioranza entusiasta della soluzione era l'UDC. Quello che contava meno...magari non sarà stato un caso. Il PDL era quello che si era visto togliere il governo dalla crisi inarrestabile dello spread e dal comprensibile nervosismo di Bruxelles, ma piuttosto che le elezioni anticipate, mandò giù. Il PD era quello che voleva passare subito all'incasso elettorale, con Berlusconi e i suoi ai minimi termini, ma Napolitano spiegò a Bersani che con la tempesta finanziaria in corso non era certo il caso di lasciare il paese senza guida per il periodo di una campagna elettorale. Insomma, i due "grandi" abbozzarono, mentre Casini tornava nella stanza dei bottoni, parte dell'ABC (Alfano, Bersani e lui) che Monti convocava e consultava (all'inizio almeno fu così ). Fu però FEDELE. Mentre PD e PDL manifestavano alterni mal di pancia ( il PDL sulle tasse, il PD sulla riforma del lavoro, per dire), Casini e i suoi sembravano la guardia pretoriana di Monti. E quando si approssimò la scadenza della legislatura, l'Agenda Monti per Casini era come per i cinesi il libretto rosso di Mao !
Le elezioni però non sono andate come i due speravano. Monti ha capito che essere inviati del Signore (o di Bruxelles) è molto più comodo che cimentarsi nell'agone politico, e Casini stavolta si è trovato ad aver sbagliato i conti. Alla fine, il Centro montiano ha preso 3 milioni di voti, che non sono pochi ma distanti dal risultato del PDL (che ha continuato a prendere la maggioranza dei voti dei moderati e dei conservatori votanti , moltissimi altri si sono astenuti) e anche da quello di Grillo. Doveva essere l'alleato indispensabile di Bersani, ha finito per contare assai poco. All'UDC è andata anche peggio, con un miserrimo 1,7% di voti che solo grazie al sistema del Porcellum ha portato gli ultimi nipoti dello scudo crociato in Parlamento. Casini ha rischiato di subire la sorte di Fini, (finalmente) estromesso.
Come ogni matrimonio d'interesse, al di là delle nobili dichiarazioni, se le cose poi non vanno bene, non ci sono "Veri sentimenti" a fare da baluardo.
E così il buon Casini ha deciso che è ora di cambiare di nuovo tattica, sperando che non si avveri la profezia di Bersani che gli pronosticò la morte politica per eccesso di tatticismo.
Antonio Polito ha commentato con competenza e arguzia solite questa significativa - per mediocrità - pagina di politica italiana.
Buona Lettura
CASINI E MONTI SEPARATI AL CENTRO
Una rottura poco civica
La rapidità con cui è fallito il progetto di Scelta civica è
sorprendente quasi quanto la velocità con cui si sta dissolvendo la
speranza del Movimento 5 Stelle. Eppure, con tutte le loro diversità, si
tratta delle due facce che la rivolta contro il sistema dei partiti
aveva assunto alle elezioni di febbraio; dei vincitori (Grillo) e degli
sconfitti (Monti) della cosiddetta «antipolitica». Sembra oggi di
assistere alla nemesi storica dei due partitoni che, seppure ammaccati e
logori, sono sopravvissuti all'assalto e si preparano a dare loro le
carte di una possibile Terza Repubblica.
Ma mentre la crisi dei grillini avviene sotto gli occhi del pubblico come in una telenovela sudamericana, quella del partito di Monti si è avviluppata invece in bizantinismi incomprensibili, in una litigiosità tra correnti e personalità che stride con la modestia dei numeri e ricorda le battute sulla scissione dell'atomo. Non ci addentreremo dunque nelle ragioni per cui Monti e Casini stanno per divorziare (anche se in realtà il loro è piuttosto un matrimonio rato e non consumato, e in quanto tale spera di ottenere un più discreto annullamento). Ma è interessante capire che cosa è andato storto, perché tre milioni di italiani, e non i più impulsivi o disinformati tra gli elettori, avevano dato fiducia a Scelta civica nelle urne. Consegnandole un risultato che, seppure non un successo, era pur sempre una base accettabile per contare qualcosa.
Gli avversari dicono che il tentativo di Monti è fallito perché «tecnocratico». Ma è più probabile che abbia invece pagato proprio un eccesso di politicismo. La sua decisione di candidarsi alle elezioni è stata l'opposto di una scelta tecnocratica: ha chiesto all'elettorato il mandato a governare. Il Professore sarebbe stato più furbo, ma non più corretto, se avesse aspettato in panchina un pareggio elettorale per poter tornare a fare l'arbitro. Però Monti è entrato in campo portandosi addosso la soma della vecchia politica. In primo luogo accettando il ruolo di possibile stampella di una vittoria mutilata della sinistra. Chi ha rifiutato il governo di Bersani e Vendola ha dunque rifiutato anche lui, e questo ha chiuso a chiave il forziere dei voti moderati, così riconsegnati al redivivo Berlusconi. Il secondo handicap, forse anche più esiziale, è stato l'alleanza elettorale con i frammenti più vetusti del big bang della Seconda Repubblica, che ha spogliato Scelta civica di ogni credibilità come fulcro di un radicale rinnovamento del sistema.
L'errore nelle alleanze è stato così grave da aver prodotto effetti anche dopo il voto. Ciò che in natura non può stare assieme, prima o poi si divide. Quello che sta accadendo è la riprova che Monti e Casini non potevano e non dovevano stare insieme.
Ma mentre la crisi dei grillini avviene sotto gli occhi del pubblico come in una telenovela sudamericana, quella del partito di Monti si è avviluppata invece in bizantinismi incomprensibili, in una litigiosità tra correnti e personalità che stride con la modestia dei numeri e ricorda le battute sulla scissione dell'atomo. Non ci addentreremo dunque nelle ragioni per cui Monti e Casini stanno per divorziare (anche se in realtà il loro è piuttosto un matrimonio rato e non consumato, e in quanto tale spera di ottenere un più discreto annullamento). Ma è interessante capire che cosa è andato storto, perché tre milioni di italiani, e non i più impulsivi o disinformati tra gli elettori, avevano dato fiducia a Scelta civica nelle urne. Consegnandole un risultato che, seppure non un successo, era pur sempre una base accettabile per contare qualcosa.
Gli avversari dicono che il tentativo di Monti è fallito perché «tecnocratico». Ma è più probabile che abbia invece pagato proprio un eccesso di politicismo. La sua decisione di candidarsi alle elezioni è stata l'opposto di una scelta tecnocratica: ha chiesto all'elettorato il mandato a governare. Il Professore sarebbe stato più furbo, ma non più corretto, se avesse aspettato in panchina un pareggio elettorale per poter tornare a fare l'arbitro. Però Monti è entrato in campo portandosi addosso la soma della vecchia politica. In primo luogo accettando il ruolo di possibile stampella di una vittoria mutilata della sinistra. Chi ha rifiutato il governo di Bersani e Vendola ha dunque rifiutato anche lui, e questo ha chiuso a chiave il forziere dei voti moderati, così riconsegnati al redivivo Berlusconi. Il secondo handicap, forse anche più esiziale, è stato l'alleanza elettorale con i frammenti più vetusti del big bang della Seconda Repubblica, che ha spogliato Scelta civica di ogni credibilità come fulcro di un radicale rinnovamento del sistema.
L'errore nelle alleanze è stato così grave da aver prodotto effetti anche dopo il voto. Ciò che in natura non può stare assieme, prima o poi si divide. Quello che sta accadendo è la riprova che Monti e Casini non potevano e non dovevano stare insieme.
Nessun commento:
Posta un commento