Come anticipato in altro post, dove riporto il parere di Galli della Loggia sulla sentenza dell'anno ( http://ultimocamerlengo.blogspot.it/2013/06/una-sentenza-che-imprigiona-sempre-di.html ), oggi sarà la giornata degli opinionisti sulla questione. Qualcuno obietterà di non trovare Travaglio e Giannini, o la Spinelli. Rispondo che sono persone che stimo poco, e che qui non compaiono i commenti di Belpietro, Sallusti o la Giovanna Maglie, che, in diversa misura e maniera, potrebbero essere il controcanto dei giornalisti anti cav. citati. Galli della Loggia, Ostellino, e magari Giacalone, Panebianco, Polito, Battista, sono i famigerati (per Scalfari, ma non solo) "terzisti", coloro che si sforzano di essere senza preconcetti.
I famigerati che preferisco.
Di seguito, dunque, l'opinione di Ostellino.
Buona Lettura
"I paradossi di una condanna che vuole punire anche i testimoni"
Sette anni di reclusione e la perenne interdizione dai pubblici uffici, per il sospetto o, se si vuole, l'indizio, che Silvio Berlusconi abbia fornicato con una minorenne — all'anagrafe, non per l'aspetto e, tanto meno, nei comportamenti secondo il senso comune — e per una improvvida, e insensata, telefonata in Questura non sono la condanna esemplare di un reato particolarmente efferato, o particolarmente scandaloso, perseguibili entrambi sotto il profilo giudiziario, oltre che morale. Sono la rivelazione — che si è, automaticamente, tradotta in atto giudiziario — di una ostilità antropologica di fondo, quasi ai confini del razzismo, da parte di un establishment reazionario, e dai costumi non sempre propriamente esemplari, nei confronti di un outsider sociale e politico discusso, e discutibile quanto si vuole per i propri stili di vita, ma pur sempre votato da milioni di italiani. Il fatto che a votarlo siano milioni di elettori non è, ovviamente, un'attenuante — la legge, è noto, è uguale per tutti, e non fa distinzioni politiche — ma pare rappresentare, a giudizio di alcuni, l'autentica ragione sia dell'ostilità preconcetta, sia dell'accanimento giudiziario cui è soggetto che, salvo revisioni processuali, lo spazza via dalla competizione politica e elettorale, privando la destra del proprio rappresentante più accreditato. I suoi avvocati, il suo partito e i media a lui vicini sostengono — lo dico senza tema di essere accusato di berlusconismo, non senza qualche ragione — che si è trattato di una condanna che finisce per raggiungere questo scopo politico.
Personalmente, non mi associo all'interpretazione innocentista, che mi pare altrettanto estremistica, ancorché sul versante opposto, di quella colpevolista. Preferisco analizzare il dispositivo della sentenza, sul filo dei molti paradossi che la costellano e anche con un pizzico di ironia. D'altra parte, che la moralistica, e diffusa, opinione su un personaggio considerato da molti un mascalzone, si sia trasformata nella legittimità, e nella stessa legalità, della sua perseguibilità penale poteva concretarsi solo in un Paese, culturalmente, politicamente, moralmente e giudiziariamente un po' strampalato, come l'Italia.
Primo paradosso: che dopo aver condannato l'imputato, i tre giudici trasmettendo gli atti al Pm aprano la possibilità di far perseguire chi aveva testimoniato a suo favore a me pare francamente la manifestazione di un delirio di onnipotenza, logicamente e giudiziariamente inaudito. La condanna non era già, in sé, la dimostrazione che non avevano creduto alle testimonianze processuali a suo discarico? Cosa vogliono ancora dimostrare col trasferimento degli atti processuali alla Procura e la minaccia, neppure troppo velata, di processare anche i testimoni? Intimidire chi, in futuro, e in altre circostanze poco chiare, pensasse eventualmente di ripetersi nei confronti di un uomo che non meriterebbe neppure il beneficio del legittimo dubbio? Non voglio neppure pensarlo. Ma il sospetto, a questo punto, e da parte di qualcuno più vicino di me al Cavaliere, può diventare legittimo, e la tentazione di esternarlo pubblicamente quanto meno comprensibile. Secondo paradosso. Fino alla sentenza di lunedì, la rivoluzione, in punta di Filosofia del diritto, non era un «fatto giuridico» — un evento traumatico previsto e legittimato dall'Ordinamento vigente — ma un «fatto normativo» (un sollevamento illegittimo contro l'Ordinamento vigente volto alla creazione di un Ordinamento nuovo e diverso). Con la sentenza, la rivoluzionaria eliminazione dell'avversario politico, è diventata, ora, «un fatto giuridico», cioè perfettamente legittimo e persino legale. È stato sufficiente che l'imputato frequentasse un certo numero di ragazze — già bollate come «puttane» dalla Pubblica accusa — fra le quali una minorenne; che quest'ultima accennasse, in una telefonata intercettata — non assumibile come prova in altri Paesi, ma qui trasformabile, e trasformata, in accusa — a rapporti, diciamo così, «molto stretti» con lui (anche se, poi, smentiti, in sede processuale), per trasformare la rivoluzione da «fatto normativo» a «fatto giuridico», soggetto non al giudizio dei cittadini o, se si vuole, della storia, ma di un Tribunale. La lotta politica ha assunto, via, via, una nuova dimensione.
Terzo paradosso. Sia il primo, sia il secondo paradosso creano due pericolosi precedenti. Il primo precedente è che — se smentisce una certa «equazione processuale», gradita e sostenuta — fare da testimone a difesa di un accusato comporta rischi. La funzione della testimonianza è diventata variabile. Vale, se contraria all'accusato; rischia di essere ritenuta «falsa», se favorevole. Il secondo precedente prefigura l'eventualità che chiunque possa finire, per ragioni non esattamente giuridiche, nel tritacarne della «rivoluzione per via giudiziaria». Poniamo che un tale dica, al telefono, con una espressione non molto elegante, e rispettosa, che «si farebbe volentieri» la signora Giuseppa, aggiungendo che, d'ora in poi, altra espressione inelegante, «la tampinerà» per riuscirci; mettiamo che la sua telefonata sia intercettata e che il tale sia inviso a qualcuno che si sbarazzerebbe volentieri di lui. Poiché, in democrazia, sarebbe difficile eliminarlo con metodi puramente repressivi — cioè sarebbe impraticabile tappargli la bocca per via amministrativa — l'accusa di stalking nei confronti della signora Giuseppa potrebbe servire alla bisogna in modo «politicamente pulito» e giuridicamente efficace. E i precedenti giudiziari sono spesso destinati a riproporsi...
Naturalmente, i miei sono dei paradossi; che hanno la sola funzione di indurre chi mi legge a riflettere sulle conseguenze di un caso esemplare di un certo andazzo. Non sono una confutazione e, tanto meno, una critica, della condanna inflitta da un regolare Tribunale della Repubblica e da tre magistrati che si sono limitati ad applicare la legge. Le sentenze, come si sa, non solo si applicano, ma anche si rispettano. E così faccio anch'io ora. Con i tempi che corrono, voglio essere, però, chiaro fino in fondo. E' pur vero che ciò che scrivo non sempre è gradito e che, da parte di chi ne avrebbe i mezzi, la tentazione di trasformare le opinioni in «fatti giuridici» può sempre venire. Ma non esageriamo col pessimismo. Innanzi tutto, la nostra magistratura fa egregiamente il suo mestiere nel rispetto delle garanzie di legge. In secondo luogo, rassicuro amici e lettori affezionati. Sono troppo vecchio, e all'antica, e non ho i mezzi, oltre che le improcrastinabili voglie dell'allegro e disinvolto Cavaliere, per fare certe telefonate, per programmare improbabili conquiste femminili col rischio, infine, di incorrere in qualche magistrato molto attento al «comune senso del pudore» di antica memoria. Quello, sulla signora Giuseppa — che giuro di non conoscere — era solo un esempio...
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