domenica 14 luglio 2013

OBAMA IN MEDIORIENTE DECISO A RICALCARE LE ORME DEL PRESIDENTE USA PIù INETTO DELLA STORIA : JIMMY CARTER


Presi come siamo dai nostri problemi e con la spada di Damocle di cosa accadrà il 30 luglio e dopo, che vuoi che ci freghi a noi italiani del Medio Oriente ?? Sì, se i giovani e le donne riempiono le piazze stiamo dalla loro parte, facciamo il tifo per loro, al punto che se poi intervengono i carri armati a rovesciare un Presidente democraticamente eletto, siamo contenti e ci inventiamo capziosi cavilli per annacquare il fatto che ci troviamo di fronte ad un golpe militare. Ho letto cose che manco gli avvocati manzoniani...il più bello sicuramente è stato "golpe illegale, ma legittimo". Stupendo.
DOpodiché ce ne siamo subito disinteressati. In Egitto oggi ogni democrazia è sospesa, il parlamento sciolto, le nuove elezioni nel 2014 ( cioè tra sei mesi se tutto va bene ), e DOPO quelle parlamentari, si faranno quelle per il nuovo presidente. Senza contare la repressione scattata contro i dirigenti dei Fratelli Musulmani.
Pare che anche i laici egiziani, che all'inzio applaudivano agli elicotteri che sorvolavano piazza Tarhir, oggi si accorgano che in effetti qui di rivoluzione popolare c'è poco, e semmai, grazie alle manifestazioni di piazza, l'esercito ha avuto buon gioco a ripristinare il potere che aveva ai tempi di Mubarak.
In tutto questo Obana si conferma il peggior presidente americano dai tempi di Carter....Io credo che il buon Barack, esattamente come Jimmy, abbia il difetto di non saper abbandonare la visione del mondo per come vorrebbe che fosse, e quindi non sa fare i conti con quello che è.
Posso convenire con l'editorialista Roberto Toscano della Stampa che la situazione del mediooriente sia particolarmente complicata in questi anni, e per gli occidentali, USA in primis, non è facile operare delle scelte considerato che le stesse sembrano essere tra autocrazie e repubbliche islamiche. Le primavere arabe sono state utili ad abbattere le prime, o comunque a farle vacillare, ma poi la parte moderata e/o laica della popolazione si rivela minoritaria alle urne, e debole nella lotta contro il dittatore (vedi Siria). In buona sostanza, la parte che piace a noi europei e forse anche agli americani NON è vincente, stritolata dalle altre due decisamente prevalenti.
Difficile quindi decidere cosa fare, ma non si diventa Presidente degli Stati Uniti perché sia facile.

Obama perso nel labirinto mediorientale

roberto toscano


Gli entusiasmi e l’ottimismo che avevano salutato la rielezione di Barack Obama al suo secondo mandato presidenziale sembrano già rapidamente sfioriti. Ne ha preso il posto la sensazione di una sostanziale perdita di controllo su una complessa agenda internazionale cui si associano pesanti difficoltà politiche sul piano interno.

Ancora una volta, le sfide di politica estera sono soprattutto quelle che provengono dal Medio Oriente, uno scacchiere internazionale che gli Stati Uniti non possono certo trascurare ma che sempre meno riescono non solo a gestire, ma nemmeno a interpretare in maniera coerente.
Il caso più clamoroso è quello dell’Egitto. La caduta di Mubarak non è stata certo orchestrata da Washington, ma è evidente che senza un chiaro segnale di via libera dell’amministrazione Obama ai militari egiziani il regime non sarebbe caduto. Prendendo atto delle spinte popolari emerse con la cosiddetta Primavera Araba, Obama - coerentemente con l’alto messaggio del suo discorso del Cairo del 2009, - non solo ha ritenuto chiusa la lunga stagione dell’appoggio alle dittature laiche, ma ha accettato l’ineludibile corollario di questa svolta: l’arrivo al potere dell’islam politico.

Obama ha preso atto di un fatto ovvio ma che in precedenza gli americani avevano preferito rimuovere: che laddove le popolazioni accolgono maggioritariamente il messaggio islamista la democrazia può solo essere islamica. Islamica moderata, auspicabilmente. Un’ipotesi che l’esperienza della Turchia sembrava confortare, con la sua combinazione di pluripartitismo, forte sviluppo economico, buoni rapporti con gli Stati Uniti.
Questa interpretazione risulta oggi in crisi profonda, e a Washington regnano non solo lo sconcerto, ma anche un’evidente confusione.

I Fratelli Musulmani si sono rivelati meno democratici di quanto non si sperasse, non solo e non tanto per una certa islamizzazione strisciante della società egiziana quanto per la concezione autoritaria del potere del Presidente Morsi, che ha dimostrato anche scarse doti di leadership.
Il suo rovesciamento da parte di un intervento militare non ha quindi sollevato troppi rimpianti a Washington. Vi è persino chi, per giustificare l’azione dei militari, nega addirittura che si sia trattato di un golpe. Il Paese – si argomenta - scivolava in un caos sempre più profondo, e l’intervento militare si giustifica quindi per fermare il degrado e tutelare la democrazia, che verrà presto ripristinata su basi più solide. Le prime misure dei militari sollevano tuttavia non pochi dubbi sulle loro effettive intenzioni. La «dichiarazione costituzionale», che dovrebbe delineare una road map per il ripristino della democrazia, attribuisce ai militari il fondamento stesso del potere in Egitto, tanto che un esperto di diritto pubblico egiziano alla George Washington University ha commentato il documento affermando: «Adesso è ufficiale: è un colpo di stato». Vi è poi la durissima repressione nei confronti dei Fratelli Musulmani, con arresti di dirigenti e l’uccisione, l’8 luglio, di decine di militanti. Secondo la versione ufficiale si sarebbe trattato di uno scontro a fuoco causato da un attacco armato contro i militari: curioso scontro, con oltre 50 morti e 400 feriti fra gli «attaccanti» e solo tre perdite fra militari.

Per Obama il problema è ora decidere cosa fare dopo la fine prematura dell’esperimento della democrazia islamica in Egitto.
Appoggiare un ritorno a un sistema autoritario basato sulle Forze Armate, una sorta di «mubarakismo senza Mubarak»? Sperare che i Fratelli Musulmani possano tornare a partecipare alla competizione politica, magari con altri leader e con maggiore realismo e competenza? Quello che è certo è che nessuno a Washington può pensare che, nonostante lo scontento e la delusione per la cattiva prova di un anno di governo islamista, l’islam politico egiziano sia finito, e tanto meno che si possa immaginare che le sparute e divise schiere dei laici filo-occidentali possano aspirare di costituire una forza politica capace di fornire una terza alternativa fra militari da una parte e islamisti dall’altra.

Per Obama, quindi, pessime notizie da Piazza Tahrir, ma anche da Piazza Taksim, dato che un altro tassello dell’opzione islamista moderata, quello turco, mostra anch’esso tutti i suoi limiti, nonostante la ben maggiore solidità dello stato turco e del governo Erdogan. Anche in Turchia, come in Egitto, gli «islamisti moderati» si sono rivelati tutt’altro che moderati nella loro concezione e gestione del potere, caratterizzate da pesanti elementi di autoritarismo.

Ancora più drammatici i dilemmi che vengono dalla Siria, con un Obama attaccato da più parti per una sua presunta insensibilità al dramma umanitario della Siria, che in realtà si spiega con la sua riluttanza a coinvolgere l’America in una ennesima guerra in Medio Oriente. Una Siria dove ormai, vista la capacità di resistenza del regime di Assad (aiutato da Iran, Russia, e persino da combattenti Hezbollah), misure di sostegno ai ribelli che non comportino un intervento aereo diretto «stile Libia» avrebbero solo un valore simbolico.

Ma non è solo questione di strategia militare. Il dilemma è politico. Assad non era certo un beniamino degli americani, ma Washington aveva dimostrato di saper convivere con un regime che garantiva da un lato la tranquillità del Golan, frontiera con Israele, e dall’altro il non-allineamento della Siria, retta da un regime laico, con il «jihadismo» sunnita. Quel jihadismo che, ivi compreso un gruppo esplicitamente affiliato ad Al Qaeda, oggi costituisce il nerbo centrale delle forze che combattono il regime siriano. Aiutare i ribelli, e trovarsi cosi in una bizzarra alleanza con Al Qaeda? E quale potrebbe essere la Siria del dopo-Assad? Probabilmente molto peggio della Libia del dopo-Gheddafi.

Dilemmi obiettivi, situazioni complesse rispetto alle quali nessuno può vantarsi di saper rispondere con ricette infallibili. L’America non è mai stata onnipotente, e oggi lo è meno che mai: per le difficoltà economiche; il disfarsi, in Medio Oriente, di antichi equilibri di potere difficilmente rimpiazzabili con nuovi assetti; il crescere delle resistenze di Russia e Cina all’egemonia americana; il potente risveglio di masse popolari che esigono benessere e giustizia a regimi corrotti ed autoritari.

A maggior ragione non è onnipotente il Presidente degli Stati Uniti, e soprattutto Obama, che deve fare i conti con un Congresso in larga parte ostile, come confermato nelle ultime ore dalla bocciatura da parte della Camera dei rappresentati di quel disegno di legge sull’immigrazione, già approvato dal Senato, su cui Obama ha puntato – dopo la riforma sanitaria – gran parte della sua agenda di politica interna.
In un libro di dura critica della politica estera obamiana Vali Nasr - già diretto collaboratore di Richard Holbrooke e attualmente Rettore della School of Advanced International Studies della Johns Hopkins University, - denuncia la perdita di centralità dell’America nel mondo, causata da cattive strategie e pessima gestione diplomatica (il libro si chiama «The Dispensable Nation» - la nazione di cui si può fare a meno, in contrasto con la definizione clintoniana della «nazione indispensabile»).

Un libro difficilmente confutabile, un libro coraggioso e onesto, ma anche ingeneroso nei confronti di un Presidente forse troppo pronto al compromesso e incapace di ispirare il cambiamento (non è certo Kennedy e nemmeno Clinton), ma sinceramente progressista sia in campo internazionale che in quello interno. E, soprattutto, arrivato alla Casa Bianca dopo i disastri del «bushismo» e in una fase di oggettivo declino internazionale e aspra contrapposizione politica interna. Criticarlo è certo giustificato, ma senza dimenticare il contesto straordinariamente complicato in cui si sta svolgendo la sua presidenza.
Forse aveva ragione il settimanale umoristico americano «The Onion» quando nel 2008, nell’annunciare la sua elezione, intitolava: «Black Man Gets Worst Job» – A un nero, il peggiore di tutti i lavori.

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