domenica 3 novembre 2013

GALLI DELLA LOGGIA E IL DECLINO ITALIANO : TUTTO COMINCIO' BEN PRIMA DI 20 ANNI FA


Una cosa che mi colpisce parlando con i fieri antiberluscoidi è la loro età. Perché sentire frasi come "ha rovinato l'Italia" "guarda come ci ha ridotti" e cose del genere io le posso ammettere da persone under 30, gente che aveva 10 anni nel 1994 e che quindi effettivamente può pensare che il bengodi di cui sognavano di godere diventando grandi sia stato loro rubato dell' uomo nero di Arcore. Poco importa che in questi quasi 20 anni lo stesso ne abbia governati meno di 10, è indubbio che comunque questo è stato il ventennio del berlusconismo e quindi la semplificazione ci sta.
Ma quelli nati negli anni 50, 60 e anche 70, no, quelli proprio no. Perché si tratta di gente che la Prima Repubblica l'ha conosciuta, e tra l'altro proprio nel periodo dove la sobrietà e il senso dello Stato di gente come De Gasperi, Einaudi, Malagodi, La Malfa (quelli di sinistra ci metteranno anche Nenni, Pertini e magari Togliatti : perdoneranno se, almeno per il secondo, io mi astenga) si andava progressivamente smarrendo, fino a sparire pressoché del tutto. Il mostro del debito pubblico non lo ha inventato Berlusconi, che lo ha semplicemente cavalcato (promettendo di combatterlo, ma questa semmai è doglianza di chi l'ha votato) ; lo statalismo, l'assistenzialismo, il corporativismo, la burocrazia asfissiante, il clientelismo, mica è roba dell'ingegno del Cavaliere.
E alle 50 -60 enni che oggi arrivano a dire " addirittura ci fa rimpiangere la DC", non oso, per delicatezza, replicare che quello che rimpiangono sono i loro 30-40 anni e un mondo più facile, dove non c'era la globalizzazione, l'euro e il fiscal compact.
Che poi anche il NON fare sia una colpa, tutti d'accordo. Però, lo ripeto sempre, il NON FATTO del Cavaliere è manna per certa gente di sinistra, che avrebbe visto in quel caso demolito l'idea di stato assistenziale e provvidenziale che ha nei suoi sogni.
Queste cose mi sono rivenute in mente leggendo l'editoriale odierno di Ernesto Galli della Loggia, particolarmente prolifico in questo periodo, che esorta il PD, nella sua parte erede del PCI, a ricordare ai suoi la VERA storia della prima repubblica, per spiegare come fin qui , con i problemi noti, non ci siamo arrivati casualmente, e le generazioni degli anziani e degli adulti maturi hanno responsabilità molto grandi. Il consociativismo non è sola una brutta parola, ma una realtà di compromessi bassi e collusioni che hanno caratterizzato e caraterizzano tuttora la nostra società.
E quindi il cambiamento che si richiede è assai più radicale e complesso del mero seppellimento politico di Berlusconi.
Come del resto questi due anni (dal novembre 2011 che il Cav. non è più a Palazzo Chigi) ben dimostrano.
Buona Lettura

IL PD E LA VERITà SUI MALI ITALICI

La memoria della Repubblica

 

Tra i partiti oggi esistenti solo il Partito democratico (se si esclude la microscopica Udc) può essere considerato in qualche modo erede della Prima Repubblica: se non altro perché già allora la grande maggioranza dei suoi esponenti era sulla breccia e spesso in prima fila. Tra gli attori politici odierni solo il Pd, insomma, può essere considerato rappresentante della memoria storica di quei decenni; non immemore di quella che è stata la loro vicenda. Proprio da ciò, tra l’altro, nella Seconda Repubblica esso ha ricavato non pochi vantaggi: a cominciare dal ritrovarsi ad essere l’unico rappresentante di una certa continuità istituzionale, della tradizione politica del Paese formatasi nel dopoguerra, venendo così ad essere il naturale interlocutore della sua classe dirigente tradizionale, degli ambienti economici e finanziari consolidati, delle magistrature dello Stato, dei grandi burocrati. Tutti costoro, avendo a suo tempo appreso quanto il Pci (Partito comunista italiano) contasse, quanto fosse utile non averlo nemico, e quanto di esso ci si potesse per così dire «fidare», non hanno avuto problemi a trasferire sul Pd suo erede e su molti suoi esponenti quell’antica immagine positiva e, spesso, anche una più o meno antica consuetudine di rapporti.
Ma proprio per tutto questo oggi il Pd dovrebbe sentirsi investito di quello che può ben definirsi un dovere civile prima che politico. Il dovere cioè di testimoniare - lui che ben la conosce - la verità di ciò che la Prima Repubblica è realmente stata. Un dovere civile, ho detto, perché solo da una piena consapevolezza (e conoscenza) di quel passato, degli errori e delle responsabilità di allora, l’Italia di oggi può sperare di imboccare la via della rinascita. Solo se ci convinceremo che oggi paghiamo scelte sbagliate, compiute però con il concorso più o meno generale, solo così saremo capaci di trovare un minimo di accordo preliminare sulla necessità di cambiare. Non già, sia chiaro, in vista di qualche nuova versione delle «larghe intese», ma per poter muovere - sia pure ognuno con la propria identità politica e con il proprio programma - almeno da un punto di partenza e da una diagnosi comuni. Da un’opinione condivisa circa i nodi da sciogliere e il perché della loro esistenza.
Il nostro passato, dunque. Il Pd sa bene che non è certo tangentopoli la verità della Prima Repubblica. Gli uomini e le donne che lo dirigono conoscono bene quale fu il tormentato cammino del Paese dalla fine dei Sessanta agli anni Novanta: quale fu la realtà di quel consociativismo, delle leggi di spesa fatte tutt’insieme senza curarsi troppo del futuro, dei danni prodotti nel pubblico impiego da leggi che vollero i sindacati e i grandi partiti. Ricordano senz’altro il clima di colpevole ottimismo nel quale fu dato avvio all’esperimento regionalistico; sanno la miriade di elargizioni e sussidi, concessi a chiunque o quasi li chiedesse e fosse abbastanza forte da alzare la voce; dei favori fatti alle tante corporazioni, ai tanti interessi costituiti, protetti dall’una o dall’altra parte. Avendo avuto dirette responsabilità di governo non ignorano di quante impensabili complicità ha potuto godere da sempre l’evasione fiscale: non l’evasione dei super ricchi, che percentualmente è poca cosa, ma quella delle affollatissime categorie professionali e commerciali. Soprattutto essi sanno bene come il Paese, finché c’era il Partito comunista, fosse condannato a non poter cambiare mai il proprio governo: e come questo abbia avuto la sua parte (e quale parte!) nel produrre i danni che oggi lamentiamo. Gli uomini e le donne del Pd sanno tutto. E semmai l’avessero dimenticato possono leggere i libri di tanti bravi storici di sinistra - da Silvio Lanaro ad Aurelio Lepre, a Guido Crainz, ad Andrea Graziosi - che lo hanno raccontato bene e con dovizia di particolari.
Proprio oggi, pertanto, essi dovrebbero sentire il dovere di parlare, di restituire alla Repubblica la verità del suo passato. Senza di ciò, infatti, il Pd resterà sempre prigioniero di quella parte dell’opinione pubblica di sinistra - numericamente minoritaria, ma vocalmente prevalente sulla scena pubblica - la quale non solo, ebbra com’è di antiberlusconismo, è portata a vedere esclusivamente nel «fare giustizia» la soluzione di tutti i problemi del Paese, ma è convinta che la responsabilità di questi sia sempre e solo degli «altri», chiude gli occhi di fronte alla complessità delle questioni per la varietà degli interessi in gioco, spasima perché ogni contrasto sia tagliato con l’accetta, perché chi non la pensa come lei sia collocato all’istante tra i «nemici» e possibilmente consegnato a un tribunale. È fatto di questi ingredienti il volto nuovo dell’antico estremismo italiano che oggi ha preso le sembianze di un radicalismo iperdemocratico nutrito di un’ossessiva rivendicazione di «trasparenza» e di «diritti» quanto della più schietta ignoranza di ogni passato. Un estremismo che proprio per la sua forma «democratica» è capace, però, d’infiltrarsi per mille rivoli anche nell’opinione «media» di sinistra, finendo in tal modo per prendere in ostaggio e condizionare lo stesso Pd.

È dunque soprattutto per avere la libertà d’azione necessaria che oggi il Pd dovrebbe sentirsi spinto a contrapporre a tale estremismo una battaglia di verità sul passato italiano di cui è figlio il nostro (e dunque anche il suo) presente. Una battaglia del genere avrebbe un ulteriore e ben maggiore significato. Essa sarebbe infatti, nella sostanza, una cruciale battaglia per l’egemonia sul futuro sviluppo politico del Paese. In una situazione incerta, fluida, com’è quella odierna dell’Italia, dove i profili politico-sociali hanno confini così mal definiti, in una situazione di marasma profondo privo di punti di orientamento, riuscire a stabilire una narrazione credibile del passato, una narrazione inclusiva capace di accogliere in modo equo torti e ragioni di tutti i principali attori, evitando di racchiudersi in una prospettiva esasperatamente di parte: se il Pd fosse in grado di tanto, porrebbe di certo una premessa decisiva per ottenere il consenso necessario a governare. Non nascondere al Paese alcuna difficoltà, alcun problema, né addebitarne con leggerezza le colpe solo agli «altri»; non «farla facile» insomma. Ma al contrario mettere tutti davanti alla cruda verità ammettendo anche le proprie colpe: è solo così che ci si può conquistare un capitale di fiducia e quindi chiamare tutti ai sacrifici necessari. L’Italia ha bisogno di una forza politica, di un leader, che sappiano fare questo. Che abbiano l’intelligenza e il coraggio di farlo.

3 commenti:

  1. MANUEL SARNO

    Come non essere d'accordo...con il Camerlengo

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  2. NICOLETTA DI GIOVANNI

    effettivamente c'è un coretto insistente sul ventennio causa solitaria del disastro ... No, no...la compagnia del favoloso debito è di lunga data! Ciò detto, le responsabilità dei nostri eroi non si spostamo di un millimetro. Ma neanche prendersele di tutti gli altri.

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  3. ROBERTO ZANCONI

    Ottimo articolo Stefano

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