martedì 5 novembre 2013

IN ITALIA SI DIVENTA VECCHI A 84 ANNI. PRATICAMENTE CI SI DIVENTA A DECESSO AVVENUTO. E I GIOVANI VERI SE NE VANNO


Interessante, come sempre, il contributo di Ilvo Diamanti, che partendo dal suo osservatorio di studio dei dati statistici, offre considerazioni sul declino della società italiana. Io, che seguo l'analista da anni, percepisco un uncupimento progressivo, come una perdita di fiducia nella possibilità di riscatto della nostra nazione. Stavolta il tema triste è l'invecchiamento della popolazione, con una politica che, quasi naturalmente, s'indirizza più verso l'assistenza e la sanità che non l'investimento e l'innovazione. Un paese che guarda indietro, perdendo di vista il futuro. Diamanti vede questo non solo dai numeri, e quindi la natalità tra le più basse del mondo, il numero dei disoccupati che è drammatica nel settore giovanile (ma da un po' andiamo assai male anche tra quelli in mezzo al guado, troppo vecchi per godere degli incentivi fiscali e troppo giovani per andare in pensione), con i famosi "neet" (acronimo di “Not in education, employement or training”, coloro che non studiano e non hanno un lavoro, nemmeno lo cercano più) che non flettono dal drammatico numero di 2 milioni. C'è poi la consapevolezza che il dato sulla disoccupazione è camuffato dalla cassa integrazione, che sono in un limbo molto prossimo all'inferno. 
In tutto questo, se i giovani migliori e di maggiore iniziativa scelgono di andare via e cercare occupazione all'estero, come stupirsi ? Tra l'altro, osserva giustamente Diamanti, la cosa in sé non sarebbe nemmeno negativa se fosse inserita in una circolarità virtuosa, dove i giovani si muovono, fanno esperienza fuori, e poi decidono se rientrare, vendendo il loro arricchito bagaglio professionale, o restano all'estero, e la stessa cosa fanno i giovanotti di altri paesi con l'Italia. E invece no, non più. I nostri non tornano e gli altri non vengono.
In questo modo, non cresciamo da tre lustri e da due anni scendiamo.

“Il paese che perde i suoi giovani”  

LA FUGA dei cervelli. È la formula usata per evocare la migrazione di tanti giovani italiani, ad alto profilo professionale e scientifico, verso altri Paesi. Non solo europei. Dove trovano occupazione e riconoscimento. Fuga dei cervelli. È un’espressione che non mi piace. Perché i cervelli, nei Paesi liberi, sono liberi. E oggi possono sconfinare ovunque, grazie alle nuove tecnologie della comunicazione. L’unica gabbia che possa imprigionarli è il loro corpo.
Se i “cervelli” se ne vanno dall’Italia è perché fuggono dal loro “corpo”. Troppo vecchio per permettere loro di esprimersi. O almeno: di “operare”. Di utilizzare la loro opera. L’Italia è un Paese vecchio (dati Istat, 2012). Il più vecchio d’Europa. Dopo la Germania, che, però, può permettersi di invecchiare perché attira i giovani migliori dagli altri Paesi. Compreso il nostro. Il problema è che noi non ci accorgiamo di invecchiare. Perché siamo sempre più vecchi. Così ci immaginiamo giovani, sempre più a lungo. Fino a 40 anni. E rifiutiamo di invecchiare. Secondo gli italiani — come ho già scritto altre volte — per dirsi vecchi occorre aver superato 84 anni (indagini Demos). Considerata la durata media della vita, dunque, in Italia si accetta di essere vecchi solo dopo la morte. I giovani, in Italia, sono sempre di meno. Come i figli. Il tasso di fecondità per donna è 1,4. Fra i più bassi al mondo. Se il nostro declino demografico si è interrotto, da qualche anno, è per il contributo fornito dagli immigrati. Che, tuttavia, non hanno modificato la nostra auto-percezione. Perché Noi continuiamo a invecchiare e a far pochi figli, mentre Loro sono giovani e fecondi. In altri termini, abbiamo riprodotto i confini al nostro interno nei confronti degli Altri. Gli immigrati, infatti, restano Stranieri, anche quando sono italiani, da più generazioni. Anche quando diventano ministri… Così invecchiamo senza accorgercene e senza accettarlo. Investiamo le nostre risorse nell’assistenza e nella sanità, com’è giusto. Molto meno nella scuola, nella formazione, nell’università (da qualche tempo ho cominciato a scriverla con l’iniziale minuscola). Cioè, nei giovani. Nei figli. Nel futuro. A loro — ai figli e ai giovani — ci pensano gli adulti. In fondo, quasi 8 italiani su 10 fra 18 e 38 anni (e quasi 3, fra 30 e 34 anni) risiedono con i genitori (Istat, 2011). Sottolineo: non “vivono” ma “risiedono”. Cioè: fanno riferimento a un’abitazione e a una famiglia, per affrontare una biografia sempre più precaria e intermittente. I dati, a questo proposito, sono espliciti e crudi. L’Italia è il Paese con il più alto tasso di disoccupazione giovanile in Europa. Oltre il 40% (fra 15 e 24 anni), in ulteriore crescita nel 2013. Nelle regioni del Mezzogiorno raggiunge quasi il 50%. Non solo, l’Italia è anche il Paese dei Neet. Quelli che non studiano e non lavorano. Circa 2 milioni: il dato peggiore, nei paesi dell’Ocse, dopo il Messico. I giovani: una generazione precaria e disoccupata. Sono pochi e non scendono più in piazza, come un tempo. Così, non hanno peso politico. I genitori, sempre più anziani, si incazzano, per questi figli senza futuro. Ma in fondo, anche se in modo inconsapevole, non ne sono del tutto dispiaciuti. Perché, senza di loro, i figli non potrebbero affrontare un percorso tanto precario. Ma se i figli (unici) si staccassero dalla famiglia troppo presto e in modo definitivo, loro — i genitori — resterebbero soli.
Così, i giovani, peraltro sempre più adulti (la sociologia delle generazioni ha coniato il neologismo (quasi un ossimoro) “giovani adulti” per definire coloro che hanno 30-35 e perfino 40 anni), emigrano. Se ne vanno altrove. Di certo, non debbono affrontare l’esodo drammatico dei disperati che partono dai Paesi dell’Africa e del Medio Oriente, stipati nei barconi. Per fuggire dalla guerra e dalla povertà. I “nostri” giovani se ne vanno con il sostegno delle famiglie. Addestrati da periodi di studio all’estero (Master, Erasmus), trascorsi durante e dopo l’università. Cercano e spesso trovano occupazione. In alcuni casi, di livello elevato. Perché i “giovani cervelli”, in Italia, sono formati da un sistema scolastico e universitario che, nonostante gli sforzi per logorarlo, ancora resiste. E produce laureati e post-laureati di qualità. Apprezzati. Fuori dall’Italia. Così si spiega la crescita continua degli italiani che si trasferiscono all’estero. Quasi 80 mila, nel 2012, secondo le stime ufficiali (dati Aire elaborati da Radio 24). Di fatto, circa il doppio. Al loro interno, i giovani — più o meno adulti — sono in aumento e pesano per circa il 45%. Se ne vanno, prevalentemente, in Europa (Germania e Gran Bretagna, anzitutto), ma anche in America Latina e negli Usa. Non è una fuga, ma la ricerca di lavoro e di esperienza, in un mondo dove i confini sono sempre più aperti — per chi non proviene dai Paesi poveri. E i “cervelli” sono sempre ben accolti. Questo è il problema, per l’Italia. Non che i nostri “cervelli” se ne vadano. Ma che non ritornino. E poco si faccia per farli rientrare. O per attirarne altri, di eguale qualità. Perché noi importiamo lavoratori a bassa qualificazione. Ed esportiamo i nostri figli. Perdiamo i giovani e i cervelli. Perché siamo incapaci di offrire loro un destino coerente con le loro attese e le loro competenze. Così è comprensibile, perfino conseguente, che quasi tutti i giovani (8 su 10, dati Demos) siano convinti che, per fare carriera, occorra partire. Dall’Italia. Un Paese vecchio. Che maschera l’età e le rughe in modo artefatto — e un po’ patetico. E lascia partire i giovani, senza farli tornare. Illudendosi di fermare il tempo. Di non invecchiare. Mentre, così, nasconde soltanto il futuro.

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