Ho aspettato un po', per vedere se qualcuno si decideva a scrivere qualcosa sul poliziotto ferito a Torino durante una manifestazione in occasione del 1 maggio.
C'erano state le polemiche sul poliziotto che aveva calpestato una manifestante, difficilmente pacifica, con la richiesta di numeri identificativi sui caschi degli agenti. Anche in quell'occasione, come sempre, la cariche dei sovversivi dei centri sociali, insieme ai delinquenti organizzati dei bloc di vari colori (ai black pare si siano aggiunti i blu...), la presenza di centinaia di persone armate di bastoni e di caschi integrali, le devastazioni compiute, finivano in secondo piano rispetto alle reazioni violente di alcuni agenti di polizia.
Poi ci sono stati gli applausi dei colleghi ai condannati per l'omicidio Aldrovandi, e anche qui, articoli, editoriali e talk.
A Torino, pare, l'unico ferito serio è stato un poliziotto, colpito con un piccone da un 46enne dei centri sociali conosciuto e recidivo però a piede libero (adesso è stato fermato, per quanto ? ).
Come la mettiamo ?
E' ovvio essere d'accordo sul fatto che i poliziotti, chiamati ad essere - magari non dignitosamenre pagati per esserlo - difensori della legge e dell'ordine, non possono concedersi comportamenti violenti dettati dalla rabbia e/o dalla rappresaglia. E quindi calpestare qualcuno che è già a terra, inerme, fa parte delle cose da non fare. Allo stesso tempo, qual è la violenza ammissibile di fronte a quella di piazza ?
Si parla sempre del G8, ma solo per ricordare la "macelleria messicana" avvenuta alla Diaz. Bruttissimo episodio, al quale sono seguite i processi e condanne dure di molti poliziotti.
Episodi come quelli non si sono giustamente pià ripetuti e non lo dovranno nel futuro.
Dall'altra part einvece non cessano di ripetersi gli atti di violenza dei delinquenti di piazza che occorsero a Genova PRIMA dei fatti della Diaz.
A questi non si pone rimedio.
Come mai ?
Condivido appieno dunque il commento di Michele Brambilla, su La Stampa, sui fatti di Torino e i problemi connessi.
Lo strabismo sulle violenze di piazza
Quanto siamo strabici in Italia quando guardiamo alle
violenze di piazza. Vediamo molto bene gli errori della polizia e siamo
prontissimi a denunciarli (giustamente, sia chiaro a scanso di equivoci:
giustissimamente) ma chiudiamo un occhio, se non tutti e due, di fronte agli
«eccessi» di certi «manifestanti» che protestano, che poi non sono eccessi ma
atti di guerriglia, e che poi non sono manifestanti che protestano ma
delinquenti che delinquono.
La cronaca di queste ultime giornate è lì a dimostrare
questo strabismo. Per giorni ci si è stracciati le vesti per gli applausi che
un sindacato di polizia ha tributato agli agenti condannati per la morte di
Federico Aldrovandi. Anche qui, deve essere chiaro che non può esserci alcuna
esitazione nel condannare quegli applausi. Benissimo ha fatto il ministro
Alfano a non ricevere i membri di quel sindacato e a dire che pure la polizia,
oltre ai familiari di Aldrovandi, esce offesa da una simile porcheria. Ma se a
quel fatto è stato dato il giusto risalto, pochissimo si è detto e ancor meno
si dice oggi, a due giorni di distanza, delle violenze scatenate in piazza, a
Torino, da soggetti che chissà perché anche noi dei giornali non abbiamo il
coraggio di definire per quel che sono, e chiamiamo «antagonisti», «no Tav»,
«spezzoni sociali» o altre scemenze del genere. Questi elementi hanno trasformato
la manifestazione del primo maggio in una caccia all’uomo e alla fine diversi
agenti sono finiti all’ospedale, chi con la testa rotta, chi con il braccio
fratturato, e così via. Ma qualcuno ha detto una parola di solidarietà nei
confronti di questi uomini che, per poco più di mille euro al mese, erano lì a
cercare di garantire la sicurezza di tutti noi? Quei pochi che lo hanno fatto
vengono emarginati come «reazionari», ed è già tanto che non siano chiamati
«fascisti» come era di moda una volta.
Intendiamoci. La violenza di chi è in divisa non può essere equiparata a quella
di un privato cittadino. È chiaro che è più grave. E quindi è ovvio che quando
la si scopre l’impatto mediatico diventa straordinario. Ma come negare che
accanto a una simile e doverosa reattività ci sia, in Italia, una particolare
indulgenza nei confronti di chi considera una manifestazione di piazza come
l’occasione per sfasciare vetrine e incendiare automobili? Provate a vedere
se in Francia, o in Germania, o in Inghilterra o in Spagna si fa passare per
«democrazia» la pretesa di andare in piazza con i caschi integrali e i bastoni.
Solo in Italia si ha un concetto tanto elastico di libertà. Ne ricordiamo a
decine, di giornate come il primo maggio torinese: e sono giornate delle quali,
alla fine, rimangono solo le discussioni su come è intervenuta la polizia. Chi
abbia cominciato a scatenare l’inferno, è sempre un dettaglio.
Una volta la polizia in Italia era sacra. Anche la malavita le riconosceva uno
status particolare: quando cominciai a lavorare come cronista, i vecchi
colleghi della «nera» mi ricordavano sempre che quando all’Isola, quartiere
allora malfamato di Milano, un rapinatore aveva ucciso un poliziotto, tutti i
delinquenti del quartiere si erano dati da fare per prenderlo e consegnarlo
alla giustizia. Poi sono venuti anni in cui si è cominciato a disquisire su chi
sono, in fondo, i veri criminali (i fuorilegge o la legge?), sul disarmo della
polizia, sul diritto costituzionale del passamontagna.
Quegli anni maledetti, grazie al cielo, sono passati. Ma più di una scoria è
rimasta, e fa sentire i suoi effetti. A furia di ripetere che bisogna dubitare
sempre delle istituzioni – cosa anche giusta – abbiamo finito con il non
dubitare mai: nel senso che siamo sempre certi che il potere sia marcio; e
siccome la polizia e i carabinieri sono i suoi custodi, chi ce lo fa fare di
difenderli.
Eppure, solo se non si fosse tanto strabici si potrebbe essere ancora più
inflessibili nei confronti di chi, tra le forze dell’ordine, si rende responsabile
di abusi, di violenze, insomma di reati. Invece tanta faziosità finisce anche
con l’alimentare, in chi si trova in piazza con la divisa, un senso di
frustrazione, di abbandono, di ingiustizia; insomma finisce con il sedimentare
rancori che sono poi all’origine di tanti errori, forse anche di certi applausi
sbagliati.
Intendiamoci. La violenza di chi è in divisa non può essere equiparata a quella di un privato cittadino. È chiaro che è più grave. E quindi è ovvio che quando la si scopre l’impatto mediatico diventa straordinario. Ma come negare che accanto a una simile e doverosa reattività ci sia, in Italia, una particolare indulgenza nei confronti di chi considera una manifestazione di piazza come l’occasione per sfasciare vetrine e incendiare automobili? Provate a vedere se in Francia, o in Germania, o in Inghilterra o in Spagna si fa passare per «democrazia» la pretesa di andare in piazza con i caschi integrali e i bastoni. Solo in Italia si ha un concetto tanto elastico di libertà. Ne ricordiamo a decine, di giornate come il primo maggio torinese: e sono giornate delle quali, alla fine, rimangono solo le discussioni su come è intervenuta la polizia. Chi abbia cominciato a scatenare l’inferno, è sempre un dettaglio.
Una volta la polizia in Italia era sacra. Anche la malavita le riconosceva uno status particolare: quando cominciai a lavorare come cronista, i vecchi colleghi della «nera» mi ricordavano sempre che quando all’Isola, quartiere allora malfamato di Milano, un rapinatore aveva ucciso un poliziotto, tutti i delinquenti del quartiere si erano dati da fare per prenderlo e consegnarlo alla giustizia. Poi sono venuti anni in cui si è cominciato a disquisire su chi sono, in fondo, i veri criminali (i fuorilegge o la legge?), sul disarmo della polizia, sul diritto costituzionale del passamontagna.
Quegli anni maledetti, grazie al cielo, sono passati. Ma più di una scoria è rimasta, e fa sentire i suoi effetti. A furia di ripetere che bisogna dubitare sempre delle istituzioni – cosa anche giusta – abbiamo finito con il non dubitare mai: nel senso che siamo sempre certi che il potere sia marcio; e siccome la polizia e i carabinieri sono i suoi custodi, chi ce lo fa fare di difenderli.
Eppure, solo se non si fosse tanto strabici si potrebbe essere ancora più inflessibili nei confronti di chi, tra le forze dell’ordine, si rende responsabile di abusi, di violenze, insomma di reati. Invece tanta faziosità finisce anche con l’alimentare, in chi si trova in piazza con la divisa, un senso di frustrazione, di abbandono, di ingiustizia; insomma finisce con il sedimentare rancori che sono poi all’origine di tanti errori, forse anche di certi applausi sbagliati.
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