lunedì 25 agosto 2014

I CONTI DELLA GIUSTIZIA CHE NON TORNANO



Chi segue il Camerlengo sa che non sono un simpatizzante di Luigi Ferrarella, anzi, lo definisco un Travaglio in guanti bianchi, per la sua preconcetta e pregiudizale amicizia per la casta magistratuale. Però lo leggo, e , selezionando e facendo le dovute tare, delle cose interessanti le trovo pure .
Ad esempio il post odierno riguardante il problema del carico dei procedimenti civili pendenti  in Italia e le spese di giustizia. Ferrarella ovviamente non si può esimere dalla lamentela che ci sono pochi magistrati (??) e pochi cancellieri (qui forse...), però poi ammette che non siano pochi i soldi che per tasse dirette e indirette vengono prelevati in nome della giustizia. Peccato che poi non tutti finiscano lì.
Buona Lettura



un Milione e 200 mila Cause da Inps e Poste 
 INGOLFANO LA GIUSTIZIA CIVILE
Ogni anno nei ruoli entrano 2,6 milioni
di procedimenti,malgrado le tasse per 
avviarne uno abbiano subito 8 rialzi


Tutti a ripetere che è indispensabile colmare con la Germania lo spread dei tempi dei processi, e non soltanto lo spread economico tra Bund e Bot: sacrosanto, salvo l’amnesia che la Germania, pur con un carico di liti tre volte e mezzo inferiore all’Italia, spende per il funzionamento di tribunali e procure l’enormità di 25 euro pro capite più dell’Italia. O che alla mancanza in organico di ben 8.000 cancellieri (meno 18% di media, con punte reali del 30% in molti uffici operativi del Centro e Nord Italia), la riforma ministeriale in cantiere per il 29 agosto può promettere al massimo il reclutamento da altre amministrazioni di 150 unità. O che l’obbligo di fatturazione elettronica dal primo luglio è stato un grande progresso, ma da allora (e pare almeno sino a metà settembre) sta paradossalmente bloccando nei tribunali tutte le liquidazioni perché, in un rimpallo tra ministero della Giustizia e dell’Economia, tarda a essere rilasciato agli uffici giudiziari l’apposito aggiornamento software.
Sono amnesie comprensibili, retaggi e riflessi condizionati speculari ai vecchi tempi in cui per la giustizia si spendeva male e senza nemmeno sapere quanto, a piè di lista, tanto prima anticipavano tutto le Poste Italiane e poi passava lo Stato-Pantalone a saldare i conti fuori bilancio ordinario (823 milioni integrati nel 2004, 375 nel 2005, 403 nel 2006 e ancora 490 nel 2009 per debiti pregressi). Del resto, ancora fino a dieci anni fa passava per profeta dello sbarco dei marziani chi mostrava come le rate di un mutuo in Italia costassero sensibilmente più che in Germania perché le banche italiane incorporavano nel tasso il maggior tempo (triplo) e costo (8% in più) per recuperare in giudizio l’eventuale debito inadempiuto. Oggi invece è ormai patrimonio comune quanto l’inefficienza della giustizia civile zavorri l’economia, azzoppi le imprese sui mercati, penalizzi i consumatori.
Ma il patrimonio comune può confinare pericolosamente anche con il luogo comune, specie quello propagandistico che oggi rovina sul nascere qualunque embrione di riforma: la fallace dittatura del «a costo zero», l’illusione che riforme davvero incisive si possano fare gratis, a saldi invariati.
Eppure a schivare la trappola di questa nuova forma di pigro conformismo basterebbe constatare come le nuove cause (circa 2,6 milioni) che ogni anno si abbattono sui tribunali — tamponate sulla linea di galleggiamento solo dalla produttività di magistrati e cancellieri che smaltiscono 120/130 cause per 100 che entrano — in un triennio siano diminuite solo del 6% nonostante si sia tentato di risparmiare quasi tutto il risparmiabile: al punto che, dopo le vacche grasse e sprecate, proprio negli anni del massimo sforzo per lanciare il processo civile telematico i fondi per l’informatica giudiziaria di tutta Italia sono gli stessi dell’informatica del solo Comune di Roma, 79,5 milioni, in sensibile discesa dai 92 milioni del 2013, dai 100 del 2012 e dai 124 del 2011, e in picchiata dai 200 milioni del 2001.
Per sfoltire la domanda patologica e drogata di giustizia — quella con la quale chi ha torto usa la resistenza in tribunale per allontanare il momento dell’obbligazione e così in sostanza farsi finanziare da chi ha ragione a tassi legali molto più favorevoli che se prendesse in prestito i soldi in banca a condizioni di mercato — si è già reso molto caro il costo d’accesso alla giustizia, settore dove le tasse, a dispetto dei proclami dei vari governi, sono aumentate eccome: il contributo unificato, che si paga per avviare una causa civile, è stato alzato 8 volte in 10 anni, l’ultima in giugno dal decreto legge 69/2014, rispetto al 2004 con incrementi complessivi ad esempio dell’ 80% per gli incidenti stradali seri o per le esecuzioni immobiliari, del 50% per gli sfratti, del 25% per le procedure fallimentari, del 400% per le cause di condominio. Si è già cercato di arginare molto dell’arginabile: la legge 69/2009 ha previsto un «filtro» in Cassazione, la legge 83/2012 qualcosa di analogo in Appello; e prima la legge del 2011 e poi il «decreto del fare» del 2013 hanno introdotto l’obbligo, per chi avvia una causa civile in molte materie, di passare prima da un tentativo di mediazione.
La legge 27/2012 ha fatto nascere a livello regionale i «Tribunali delle imprese» per le cause di proprietà intellettuale-concorrenza sleale-antitrust; il decreto legislativo 155/2012 ha razionalizzato gli sprechi di una superata geografia giudiziaria, sopprimendo 30 tribunali e altrettante procure, 220 sedi distaccate e 381 uffici dei giudici di pace; e dal 30 giugno scorso il deposito telematico degli atti in tribunale è diventato obbligatorio per le nuove cause civili, con risparmi stimati di 40 milioni l’anno.
Tutte cose utili, e foriere di risultati maggiori in futuro, ma che per definizione non possono fare il miracolo della sparizione dell’arretrato di 5,2 milioni di cause civili fin tanto che non si guarderà dentro alla sua composizione: scoprendo che in parte occorre chiedersi non più soltanto che cosa la giustizia può fare per l’economia, ma anche cosa economia e politica possono fare per la giustizia, in un Paese dove c’è voluto il diktat europeo perché lo Stato facesse una legge per dire che doveva rispettare un’altra legge e pagare in tempi accettabili le imprese che lo riforniscono di beni e servizi.
Il caso dell’Inps, quando ha messo il naso nelle proprie cause, è da manuale. Si è accorto di possedere da solo un quinto dell’intero arretrato italiano, 1 milione di cause (e altre 200.000 le hanno le Poste), metà delle quali concentrate in 6 città e il 15% nella sola Foggia: è bastato cominciare a seguirle nel merito perché 17.000 su 140.000 evaporassero da sole, con annesse le loro aspettative di spese legali in misura (incredibilmente) 10 volte superiore alle prestazioni previdenziali in teoria richieste.
A ingrossare la settimana scorsa il carico milanese, invece, è arrivato il nugolo di procedimenti e sospensive scaturito dall’erronea cartella esattoriale con la quale Equitalia, dando giustamente ragione a un ente pubblico contro una società morosa, accollava però al subentrato liquidatore della società un debito fiscale di ben 1,6 milioni di euro, che non era suo ma ovviamente dell’azienda. E se a Lecce le liti tributarie sono schizzate in un anno da mille a 8.400 è perché sulla revisione delle rendite catastali il Comune prima ha preso una linea mandando 60.000 avvisi, e poi però dopo l’introduzione dell’Imu ci ha ripensato e ha fatto dietrofront in un ingorgo di ricorsi e controricorsi dei cittadini.
Pasti gratis, insomma, non ci saranno neanche per i riformatori dei tribunali. Tribunali che anzi, nella insufficienza del budget statale gestito dal ministero, hanno ormai anche una pressoché sconosciuta peculiarità tutta italiana. Sono infatti gli unici in Europa dove non magari qualche stagista (come avviene pure in altri Paesi), ma proprio il funzionamento quotidiano è stabilmente finanziato dall’esterno: Ordini degli Avvocati che hanno messo mano al portafoglio in maniera decisiva per il processo civile telematico, enti locali che prestano personale agli uffici giudiziari in debito di cancellieri, banche che regalano risme di carta e cartucce di toner, Camere di Commercio e Fondazioni e Università che si fanno partner di progetti mirati, eventi internazionali che come Expo 2015 vengono sfruttati per dirottare in qualche modo soldi (ad esempio 16 milioni in 4 anni a Milano) sui servizi giudiziari.
Eppure la giustizia sarebbe seduta su un tesoro con il quale potrebbe autofinanziarsi: 500 milioni di pene o sanzioni pecuniarie l’anno e 140 milioni di condanne al pagamento di spese processuali, calcolò la «Commissione Greco» nel 2007, come dire 6/7 miliardi in un decennio. Ma più del 10% si continua a non riuscire a riscuotere, e anche il Fondo unico giustizia, nato apposta per far fruttare il mare di sequestri e depositi altrimenti parcheggiati inutilmente, alla giustizia ha distribuito molto meno del previsto (79 milioni nel 2010 e 112 nel 2012) perché lo Stato ha in più occasioni preferito usare il Fug come un bancomat per altre necessità di bilancio: tutte serie (dai progetti di assistenza alle vittime di violenza sessuale al fondo di solidarietà per le vittime di reati in occasione di eventi sportivi) ma non direttamente attinenti al miglioramento dell’efficienza degli uffici giudiziari.

Luigi Ferrarella

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