Non sono un fan di Giuseppe De Rita, e non sempre lo leggo. Questa sua riflessione però, pubblicata sulla pagina delle opinioni del Corsera, mi sembra contenere spunti non banali sulla particolare reazione "antropologica" dell'italiano alla depressione dell'economia. In particolare quel richiamo ad una sostanziale sottovalutazione diffusa tra i più della gravità della crisi, che non è congiunturale - quindi passeggera - ma sistemica che stiamo attraversando. Al di là delle parole dette a cena o al bar, la maggior parte degli italiani pensano che loro - magari non il vicino - in qualche modo se la caveranno, stringendo un pochino la cinghia, spendendo meno di prima. Cioè facendo quello che individualmente può essere saggio e prudente ma che esteso alla collettività diventa proprio la causa prima della mancanza di crescita : non consumiamo più, la domanda interna è crollata ( a sentire gli operatori turistici, mentre gli stranieri questa estate sono arrivati in numero pari al passato, le prenotazioni autoctone si sono dimezzate) e a che serve migliorare la produttività se poi non c'è chi compra la merce sugli scaffali ? In realtà, dal 2011 ad oggi i governi che si sono succeduti, che dovevano salvare l'Italia dal disastro berlusconiano ( tre anni...e nessuno che ancora abbia detto "bè si, in fondo non bastava far fuori "quello lì" per risolvere i problemi...), hanno solo ottenuto, salassandoci di tasse, che Europa e mercati si quietassero per un deficit riportato sotto controllo. Ma SOLO quello si è fatto, e non senza costi per l'economia tutta, che già in apnea, ha finito per collassare. Così da quello stato di semi stagnazione, con crescita molto basse che avevano caratterizzato gli anni pre crisi, siamo arrivati primo allo zero e poi alla recessione, nel 2012 e nel 2013 e anche quest'anno, alla fine, saremo l'UNICO paese tra i maggiori industrializzati a registrare il segno meno. Ricordo benissimo un'intervista ad un analista finanziario tedesco il quale spiegava: nessuno ha detto agli italiani di aumentare le tasse per diminuire il deficit, anzi, Trichet, capo della BCE nel 2011, disse il contrario; solo che voi, pur di non diminuire le spese, preferite ammazzarvi di tasse e alla fine per noi va bene anche così, l'importante è che riusciate a non sforare il 3%".
Ecco, adesso nemmeno le tasse bastano più, perché siamo arrivati a livelli di pressione non ulteriormente tollerabile, e quindi, per continuare a tenere a bada i conti, dobbiamo per forza agire sui settori della crescita e della spesa. Per la prima, mostriamo di non farcela, per le troppe imposte, la troppa burocrazia, il costo eccessivo del lavoro (insomma, per la mancanza della famoe riforme !), e forse anche perché non siamo più capaci nel mondo globalizzato a fare impresa. Per la seconda, la classe politica, tutta compresa l'attuale al governo, proprio non ci sta a sacrificarsi - correndo il rischio della impopolarità e la non rielezione - per imporre agli italiani certi sacrifici. E così il cerchio si chiude, e torniamo alla considerazione di De Rita di una falsa percezione della realtà economica e sociale che pure viviamo da qualche anno.
Renzi continua a dire in tv che l'Italia deve fare l'Italia. Ecco, forse no, forse non è proprio così, almeno non per quello che principalmente noi italiani ci siamo abituati a fare ( i ca...nostri).
Dopo lo storico esempio di Schroeder, il cancelliere tedesco che sacrificò la rielezione per imporre le riforme alla Germania, quelle che oggi vorremmo-dovremmo copiare, almeno in parte, per risapartire, si è aggiunto proprio domenica quello della Svezia. Anche lì un governo ha fatto bene e ha risanato i conti della propria nazione, ma per farlo ha dovuto sacrificare parte dell'adorato welfare scandinavo. Gli svedesi, dopo aver accettato di bere l'amara medicina per 8 anni, hanno deciso che adesso si poteva tornare un po' ai vecchi sistemi. Pare che sia una dinamica tipica nei paesi del nord : i governi di destra servono per produrre e crescere, quelli di sinistra per spendere e ridistribuire. E si alternano in questo.
Non so se sia così. So che i governanti di Stoccolma hanno accettato il rischio di non essere rieletti pur di mettere a posto il proprio paese.
Ecco, da noi mancano questi uomini.
E dopo 7 mesi sfido a sostenere che Renzino faccia eccezione.
La salutare inquietudine che ci manca
Da anni ormai i primi quindici giorni di settembre portano ad una ampia discussione collettiva (con tanti convegni, workshop , interviste e dichiarazioni) sulla crisi economica e sociale del Paese, sulla sua attuale configurazione, sui modi per uscirne.
Anche quest’anno il copione si è riproposto, con una maggiore intensità di protagonismo mediatico ma forse con una minore capacità di diagnosi e di prognosi sui problemi sul tappeto.
Le passerelle spettacolari delle ultime settimane hanno lasciato quindi un retrogusto deludente, quasi che i loro protagonisti non abbiano dedicato attenzione adeguata al perché dei fermenti di una società segnata da anni di crisi, di disoccupazione endemica, di compressione dei redditi e dei consumi, di frustrazione per una ripresa che non arriva, di incertezza sugli stessi obiettivi da perseguire nel medio e nel lungo periodo.
Certo gli schemi mentali oggi dominanti (il rigore di bilancio e il volontarismo riformista) sembrano insufficienti a interpretare la crescente complessità della crisi; ma è probabile che le colpe non siano solo degli schemi intellettuali di riferimento.
Sfugge probabilmente a tutti che le ragioni profonde della inquietudine collettiva riguardino, sotto sotto e quasi banalmente, il fatto che manca proprio l’inquietudine.
La nostra società, in altre parole, sembra caratterizzata da una sorta di «inalterabilità», propensa ad evitare spiacevoli prese di coscienza e di responsabilità. Abbiamo ascoltato annunci di catastrofe e la gente ha quasi fatto finta di non sentirli; abbiamo avuto previsioni di imminente baratro e la gente non si è spaventata più di tanto; abbiamo avuto certificazioni di radicale ridimensionamento dei consumi e la gente sembra ben adattarsi ad una riscoperta della sobrietà; abbiamo avuto dati agghiaccianti sulla mancanza di lavoro, ma la gente è tornata rapidamente al sommerso.
Se fosse accettabile una valutazione sintetica, si potrebbe dire che questa è una società «satura e seduta», dove quindi ogni idea di sollecitazione alla ripresa viene accolta con indifferenza, tanto che qualcuno ha riproposto l’ipotesi che «il cavallo non beve».
Così anche i famosi 80 euro non hanno l’effetto moltiplicativo sperato, ma finiscono a risparmio. Si incardinano cioè implicitamente nella crescente, quasi incredibile propensione a rafforzare il patrimonio (con l’aumento dei depositi bancari, con la crescita delle polizze vita, con la alta propensione ai fondi di investimento, forse addirittura con una tentazione al risparmio cash). A rafforzare, in silenzio, la propria saturazione.
Alla fine il problema che abbiamo di fronte è quello di un sistema prigioniero in una patrimonializzazione crescente, però «non agita e non agibile» come fattore di dinamica dei vari soggetti sociali.
Se ciò fosse vero, allora il dovere della politica sarebbe quello di definire obiettivi individuali e collettivi capaci di mobilizzare il risparmio che si va nel tempo accumulando. È tempo di nuovi obiettivi, non di nuovi strumenti; rilanciando una stagione di messa a fuoco di quel che si vuole fare insieme.
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