Registro con grande soddisfazione che Ricolfi ha ripreso a scrivere con buona frequena le sue riflessioni socio economiche su La Stampa, il che almeno in parte riequilibra l'acceso renzismo del quotidiano torinese.
Ipotizzo che non sia un caso che questo coincida con le perplessità crescenti sull'operato dell'esecutivo, espresse non solo in Italia ma anche nelle istituzioni estere che contano.
Deluso dei primi mesi di governo, con troppi annunci, troppo tempo ed energia spesi per le riforme istituzionali, importanti ma meno urgenti nella drammatica situazione occupazionale e finanziaria dell'Italia, dal bonus di 80 euro elargito ai garantiti, Ricolfi, e non solo lui, guarda con sospetto speranzoso il braccio di ferro che Renzi sembra aver avviato contro sindacati e sinistra massimalista in materia di riforma del Lavoro.
Confidando, con inevitabile riserva di scetticismo, stante i precedenti, che stavolta il toscano faccia sul serio, e che il tutto non si fermerà ai livelli di duello mediatico, Ricolfi rileva due possibili evoluzioni : una battaglia che si concentri sulla riforma dello Statuto dei lavoratori, con l'abolizione per il futuro dell'art. 18, la tutela dei disoccupati estesa anche ai lavoratori non dipendenti, la costituzione di una efficiente agenzia del lavoro ecc. ; una che si estenda alla riduzione del costo dei dipendenti agendo sul cuneo fiscale.
Per Ricolfi, ai fini degli investimenti e delle assunzioni, questo aspetto è assolutamente più efficace e rilevante rispetto al primo , pur importante, e anche più difficile (figuriamoci, visto la guerra che si è già scatenata sulla ridisegnazione delle tutele), perché comporta il recupero di importanti risorse, reperibili solo attraverso un serio taglio alla spesa pubblica, con tutti gli interessi che sempre essa va a toccare.
Ma purtroppo l'Italia a questo si trova costretta dopo decenni di scialacqui e rinvii, e non ci sono riforme edulcorate, senza costi elevati anche nel campo del consenso sociale.
E' qui che il politico deve rivelarsi statista, come lo furono i suoi modelli storici : Blair e Schroder.
Buona Lettura
Qualcosa è cambiato
Nell’ultima settimana qualcosa è cambiato. E’ cambiata la situazione, perché tutti gli organismi internazionali e i centri studi hanno smesso di scommettere sulla ripresa italiana: il 2014 sarà ancora un anno di recessione, e il 2015 chissà. Ma è cambiata anche la risposta della politica, almeno sul versante governativo: Matteo Renzi ha (finalmente) deciso di dare la priorità che meritano alle riforme economico-sociali, e in particolare al Jobs Act. Questa svolta, non ancora evidente nel discorso di martedì in Parlamento, troppo avaro di impegni precisi, è diventata invece chiarissima nei giorni successivi, con le dichiarazioni sull’articolo 18 e con il video-messaggio di venerdì, in cui Renzi ha attaccato frontalmente i sindacati, accusandoli di aver sempre privilegiato i lavoratori garantiti e trascurato gli occupati precari e chi un lavoro non ce l’ha.
Renzi ha ragioni da vendere, perché la
divisione fra lavoratori di serie A e lavoratori di serie B, garantiti e non
garantiti, insider e outsider, è effettivamente uno dei nodi fondamentali
dell’Italia, se non il nodo fondamentale.
E il fatto che sindacalisti, politici e osservatori impegnati gli
oppongano, nel 2014, i medesimi argomenti di 20 o 30 anni fa, non fa che
confermare le buone ragioni di Renzi.
Per vincere una battaglia non basta avere sostanzialmente ragione, o che i propri avversari non dispongano di soluzioni praticabili. Occorre anche che le proprie soluzioni siano tali. In poche parole: che funzionino.
Per questo penso che quella che si annuncia sembrerà (ai mass media) una battaglia fra «renzismo» e «camussismo», ma sarà invece (per l’Italia) una partita, dagli esiti imprevedibili, fra due renzismi entrambi possibili.
Il primo renzismo possibile è quello «di tipo Craxi». In questo scenario Renzi abolisce l’articolo 18 per i neo-assunti (come Craxi aveva fatto con la scala mobile), introduce il contratto a tutela crescente, riforma gli ammortizzatori sociali estendendoli a tutti gli occupati e rendendoli più severi (corsi di formazione, obbligo di accettare le offerte di lavoro). In poche parole: modernizza il mercato del lavoro. Se Renzi fa solo o principalmente questo (che comunque non è poco) è possibile che l’occupazione non riparta, che l’Italia continui ad essere uno dei Paesi Ocse con meno occasioni di lavoro, e che fra qualche anno ci tocchi sentir dire che «aveva ragione la Camusso, togliere l’articolo 18 non crea nuovi posti di lavoro».
C’è però anche un secondo renzismo possibile, chiamiamolo «di tipo Blair» giusto per dargli un nome. Il suo punto di partenza è la constatazione che le imprese, oltre al problema di un mercato del lavoro rigido, di una burocrazia asfissiante, di una giustizia civile lentissima e inaffidabile, hanno anche un serissimo problema fiscale: il costo aziendale di un’ora di lavoro è eccessivo, e la tassazione sul profitto commerciale (il cosiddetto Ttr) non ha eguali in nessuno dei 34 Paesi Ocse. Detto altrimenti: se le imprese non assumono non è solo, o principalmente, perché poi non possono licenziare, ma perché non hanno margini sufficienti. Questo significa che, per creare occupazione, occorre anche allentare la morsa fiscale sui produttori, il che costa molto in termini di risorse, e alla fine fa sempre arrabbiare qualcuno: se finanzi gli sgravi aumentando il debito pubblico si arrabbiano l’Europa e i mercati finanziari, se li finanzi tagliando la spesa pubblica si arrabbiano la Camusso e i sindacati.
Quale renzismo prevarrà, ammesso che la sinistra Pd e i sindacati non ci rispediscano subito al voto?
Io tendo a pensare che Renzi non disdegni il renzismo di tipo Blair, ma che alla fine sarà costretto ad adottare quello di tipo Craxi. E la ragione è molto semplice. Ammettiamo per un momento che Renzi, che finora si è preoccupato soprattutto dei garantiti (bonus di 80 euro), e anche per questo ha goduto della benevolenza dei sindacati, abbia deciso finalmente di occuparsi di chi un lavoro non ce l’ha, giovani e donne innanzitutto. Ammettiamo che sia persuaso che ridurre i costi delle imprese sia una precondizione per metterle in grado di assumere. Ammettiamo che sia convinto che nella Pubblica amministrazione ci sia «grasso che cola», e che sia da lì che debbano provenire le risorse per riformare gli ammortizzatori sociali e ridurre il costo del lavoro. Anche assumendo tutto ciò, ossia una ferrea volontà di creare lavoro, resterebbe un problema politico enorme: sconfiggere la Cgil in una battaglia campale sull’articolo 18 è più facile, molto più facile, che tagliare 15 o 20 miliardi di sprechi nella Pubblica amministrazione. Nel primo caso (abolizione articolo 18), Renzi non avrebbe contro né i garantiti (che resterebbero tali, perché l’articolo 18 verrebbe abolito solo per i neo-assunti), né gli esclusi, la cui prima preoccupazione è quella di trovare un lavoro, ma solo i settori più politicizzati e conservatori della società italiana. Nel secondo caso (tagli di spesa pubblica), invece, Renzi avrebbe contro un po’ tutti: dipendenti pubblici, sindaci, governatori, percettori di prebende e sussidi, lobby legate alle commesse pubbliche. Insomma, vincere una battaglia ideologica è più facile che battere una rete di interessi. Il renzismo del primo tipo (alla Craxi) è più facile di quello del secondo (alla Blair).
Può darsi che, come il solito, io sia troppo pessimista. Ma ho l’impressione che, incassato il sostegno dei lavoratori dipendenti e di tanti elettori delusi da Berlusconi, a Renzi manchi ancora un tassello fondamentale: convincere gli uomini e le donne che stanno fuori o ai margini del mercato del lavoro che la sua battaglia è anche la loro.
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