mercoledì 22 ottobre 2014

CARLO FEDERICO GROSSO SUL PROCESSO PISTORIUS : CON MENO SOFISMI IL GIUDIZIO E' PIU' SERENO



Dalla sua uscita, acquisto il Garantista perché lo sento il MIO giornale, avendo fatto del garantismo la propria mission edioriale. Questo non significa condividere tutte le idee che in esso trovo espresse, tra l'altro Sansonetti è direttore che veramente dà spazio a tesi ed antitesi, pur restando evidente il suo pensiero e quello della sua creatura.
Detto questo, leggendolo ogni giorno, ho cominciato a conoscere ed apprezzare giornalisti che non conoscevo, e tra questi Errico Novi.
Leggete il bell'articolo che ha scritto su Pistorius, in occasione della lettura della sentenza di condanna a 5 anni.
Nelle stesse pagine, Carlo Federico Grosso spiega al cronista che lo intervista, e quindi a noi lettori, perché il sistema anglo sassone a volte è migliore del nostro, dove l'eccesso di sofismi finisce per avvelenare il giudizio. Il reato di omicidio per l'appunto.
Nel sistema anglosassone la distinzione è chiara, netta : l'omicidio può essere colposo o doloso, senza tutti i distinguo del nostro sistema, che ogni volta sembra voler entrare nell'anima degli esseri umani per carpirne addirittura l'inconscia volontà. 
E quindi tutti i quesiti a cui il giudice è chiamato a rispondere : chi ha ucciso ha accettato o meno il rischio di uccidere, ancorché non fosse la sua volontà diretta e immediata ? il colpevole ha avuto il dubbio che la persona contro cui sparava potesse non costituire la minaccia da lui paventata (per attenerci al caso di Pistorius) ?
Spiega ancora l' avv. Grosso : "attorno al dolo eventuale c'è una forte discussione in Italia, giacché  si osserva che la pena diventa molto più severa di quanto sembrerebbe giusto" , e cita il caso del processo Thyssen, dove inizialmente era stato riconosciuto il dolo eventuale dei responsabili della società e poi la Cassazione ha corretto riportando la questione nell'alveo della colpa cosciente, con strilli e polemiche infinite. La famiglia di Reeva Steenkamp ha invece accettato la sentenza, dichiarandosi soddisfatta.
In genere, ai garantisti viene obiettato, a volte addirittura digrignando i denti, che parliamo così perché "non era tua figlia !"
Sembra che non sia necessariamente così...






Una condanna da uomo normale: 5 anni a Pistorius

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La giudice è una donna. Anche lei è una donna. Alla lettura della sentenza guarda Oscar Pistorius. «Si alzi in piedi», gli dice. Sarebbe una crudeltà, potremmo essere tentati di credere. Perché quel magistrato del tribunale di Pretoria, Sudafrica, che sta per annunciare quale condanna ha deciso di infliggere a Blade Runner Pistorius, pare dimenticarsi che quell’uomo non può alzarsi in piedi come gli altri. Cioè, può farlo, ma insomma avrebbe pur sempre il limite imposto dalla natura. Comunque la giudice, Thokozile Masipa, dice che il campione dovrà scontare 5 anni di galera. E accompagna la sua decisione con tutta una serie di spiegazioni: sarebbe un messaggio sbagliato dare una pena non carceraria, ma anche una condanna lunga non sarebbe appropriata. Tutto sempre nel segno dell’handicap fisico mai ridotto ad attenuante. Casomai è una sfida.
Lo dice in pratica anche la dottoressa Masipa. Dice a Pistorius quello che lui, Blade Runner, ha sempre tentato di far credere: senza gambe fa lo stesso. Ti puoi alzare in piedi per andare alle Olimpiadi. E’ sempre la stessa cosa. C’è sempre la stessa ambizione di essere come gli altri. Nella sentenza di Pretoria come nella battaglia per essere ammessi ai Giochi come gli atleti che le gambe ce le hanno davvero. Non due lame elastiche in fibra di carbonio (nel linguaggio della fantascienza sportiva le chiamano cheetah, cioè ghepardo), ma gambe vere.
In fondo la lettura della sentenza, vista così, è una carezza benevola. Che Pistorius deve aver preso come ossequio al suo slancio disperato. Un piccolo segno per uno che comunque ha ucciso la fidanzata, una modella di trent’anni. La colpa è grave. Quella ragazza si chiamava Reeva Steenkamp. Pistorius l’ha uccisa la notte prima di San Valentino, tra il 13 e il 14 febbraio dell’anno scorso. Lì si è spezzato un sogno, si è interrotto il volo di questo incredibile Icaro dei nostri tempi. Uno che non c’aveva le gambe ed è riuscito a correre  alle Olimpiadi.
Adesso sappiamo che Pistorius è in una cella del carcere di Pretoria, un posto che a quanto è dato di sapere si chiama Kgosi Mampuru. Dovrebbe restarci 10 mesi. Dopo, secondo i suoi avvocati, potrà chiedere di essere messo agli arresti domiciliari. Avrà tempo per pensare al suo sogno. Alla sua pretesa di lanciarsi oltre i limiti. Non potrà fare altro. Perché un’altra cosa che nel giorno della sentenza si viene a sapere è che per 5 anni dovrà stare lontano dalle piste. Il Comitato paraolimpico internazionale non concede attenuanti. Niente Olimpiadi a Rio nel 2016.
Oscar Pistorius è nato così, senza i pèroni. Un pezzo di scheletro in meno. Voi immaginate un bimbo di undici mesi al quale devono amputare le gambe. Eppure lui da ragazzino gioca persino a rugby. Non ci pensa neppure a correre i 400 metri perché cerca gli sport dove c’è il contatto fisico. Si infortuna e alla fine gli dicono di fare atletica per recuperare. Comincia a piacergli, e a 18 anni è già uno che si mette le medaglie al collo. Alle Paralimpiadi di Atene del 2004 è oro sui 200 metri.
Figlio di Henke e Sheila, orfano di madre a sedici anni, un po’ di sangue italiano che gli viene dal nonno materno, emigrato in Kenya, a Oscar il nostro Paese regala un po’ di fortuna. Ci viene in vacanza spesso, va preferibilmente in Maremma, e ci viene a correre nel 2007, al Golden Gala di Roma, dove gli viene offerta per la prima volta in una gara di alto livello la possibilità di misurarsi con gli atleti normali. Vuole andare alle Olimpiadi dell’anno dopo, che si terranno a Pechino. Inizia la sua battaglia con la Federazione internazionale di atletica, secondo cui uno come Pistorius è avvantaggiato. Cioè, quelle lame di carbonio gli danno un surplus di elasticità del 30 per cento rispetto ai normali quattrocentisti. Si appella al tribunale sportivo e ottiene ragione: non c’è prova che le protesi siano un vantaggio, e in effetti ci sembrava. Solo che lui non fa il tempo minimo per essere ammesso ai Giochi. Se ne parla per Londra 2012. Un anno prima ci sono i mondiali di atletica leggera, in Corea del Sud. Ci va e partecipa all’impresa della staffetta sudafricana nella 4×400, che conquista la medaglia d’argento. Lui in finale non c’è, ma in batteria sì ed è lì che arriva il primato nazionale. Incoroneranno anche Oscar, giustamente.

Ai Giochi di Londra si ferma alla semifinale dei 400 metri. Ma il mondo strabuzza gli occhi. Quell’uomo senza gambe ha passato le batterie, contro avversari che sono nati con tutte le ossa.
Un eroe, che nella sua tranquilla fierezza fa venire un po’ di inquietudine.
E’ la gloria, quella che nella pur piccola mitologia dello sport rende immortali. Passa meno di un anno, e siamo alla vigilia di San Valentino, ha una fidanzata bellissima, che abbaglia esattamente come l’ostinato eroismo di Oscar. Quella notte, dirà lui al processo, sente che c’è qualcuno in casa e spara da dietro la porta. «Pensavo fosse un ladro». Reeva muore. In quell’istante si spegne anche la stella del campione. Ma forse siamo noi che la vediamo così.
Forse. Poco prima che la giudice legga la sentenza una fan gli si avvicina e gli regala un fiore. «Voglio consolarlo», dice. C’è chi non ha la stessa indulgenza. Giusy Versace, pure lei atleta paralimpica, dice che è dispiaciuta per lui ma che questa condanna non la convince. Neppure la Procura di Pretoria è entusiasta, ma se deciderà di fare appello non sarà per la pressione dei familiari di Reeva, che invece non hanno recriminazioni. Al resto del mondo tutta questa storia lascia un segno. Ci siamo innamorati dell’uomo che va oltre i limiti. E poi abbiamo visto che l’eroismo può finire in tragedia. Ci dispiace per questo, forse quasi quanto per gli occhi meravigliosi di quella donna che si sono spenti nella notte di San Valentino.

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