L'orgoglio francese è quello della disperazione, il coraggio quello della debolezza più forte di tutto. Lo scrivono, commentando l'annuncio del ministro dell'economia francese che i paramentri del deficit non saranno rispettati nemmeno nei prossimi due anni (!), sia Davide Giacalone che Massimo Nava. Quest'ultimo è l'inviato del Corriere a Parigi e conosce da vicino quel bellissimo e presuntuoso paese, e la sua descrizione mi pare, stavolta, ancora più efficace di quella - sempre valida - di Giacalone. Alcune riflessioni del secondo meritano in ogni caso di essere lette :
" La realtà è che il sistema francese è più in crisi di quello italiano, e mentre le nostre imprese manifatturiere ancora camminano le loro arrancano. Hanno un sistema più forte dal lato delle grandi imprese, molto protette dallo Stato, ma questo non li rende più elastici, bensì meno. Il governo francese rende noto che più di tanto non può fare senza cadere ed essere massacrato all’interno. Posto che potrebbe comunque accadere. E’ un segnale d’impotenza, non un’inversione di marcia."
e ancora " nel 2003-2004 Francia e Germania sfondarono i deficit, i francesi per pagarsi la stabilità del governo e i tedeschi per pagare il costo sociale delle riforme. Guardate i risultati dieci anni dopo e chiedetevi se gli sfondamenti portano bene, quando praticati per salvare il passato anziché propiziare il futuro."
Questo per quanto riguarda la Francia. Più in generale Giacalone opportunamente osserva :
"Ci sono in giro troppi keynesiani immaginari, magari pronti a citare l’esempio del 1929. Ma allora lo Stato era smilzo, ora è obeso. Allora era saggio praticare il deficit spending (spesa in deficit), mentre noi, da lustri, pratichiamo il deficit burning, nel senso che contraiamo debiti per bruciare denaro in spesa corrente.".
Leggendo ora l'articolo di Nava, troverete espresso sostanzialmente lo stesso principio di fondo : il governo francese non è coraggioso : è solo disperato.
Qualcuno ricorda le risatine sarcastiche di Sarkozy rivolte a Berlusconi e all'Italia ? Bè in Francia non ridono più, e i sorrisini - insieme alle preoccupazioni - sono diventate italo-francesi...
La paralisi francese
fra rigore di bruxelles
e protesta sociale
La ribellione della Francia al patto di Stabilità riaccende il dibattito europeo fra partigiani della crescita e fautori del rigore, come se crescita e rigore dei conti non fossero compatibili.
Il termine «ribellione» colora d’ideologia una questione molto concreta e molto interna alla politica francese, di cui l’Europa rischia di pagare conseguenze imprevedibili. Il presidente François Hollande ha buon gioco nello spingersi su questo terreno, sperando in cedimenti tedeschi e sponde italiane e spagnole, come se appunto la crescita dipendesse dalla supremazia di una visione teorica, invece che da scelte politiche e condizioni strutturali dello Stato francese.
La stessa cancelliera tedesca Angela Merkel, ripetendo il ritornello dei «compiti a casa», gli dà una mano, perché non c’è niente di peggio che provocare il nazionalismo transalpino e il rifiuto di accettare lezioni da chicchessia.
Invocando crescita e sviluppo, Hollande trova naturalmente udienza negli ambienti europei che puntano il dito contro la miopia e l’egoismo di Berlino. Se è vero che l’austerità è un freno alla crescita e che i rimedi finora adottati si sono rivelati, anche per la Germania, peggiori del male, la Francia si erge a paladina di un’altra visione, giocando la sola carta che le resta in mano: quella del peso politico negli affari europei, indispensabile e non aggirabile nemmeno dai tedeschi.
Ma le cose, almeno per la Francia, non stanno come il presidente vorrebbe far credere. E il problema non sono nemmeno i dati, peraltro sconfortanti, dell’economia: debito pubblico oltre la soglia dei duemila miliardi, crescita debole, competitività internazionale in forte ribasso, bilancia commerciale in rosso.
Il problema consiste nell’incapacità/impossibilità di riformare in profondità un modello sociale e statuale che divora oltre la metà della ricchezza nazionale senza nemmeno riuscire a garantire e a proteggere i ceti sociali per i quali è stato concepito nel dopoguerra gollista.
Costo del lavoro, spesa sanitaria, ammortizzatori sociali si sommano a una giungla inestricabile di sprechi e privilegi di casta o di categoria, in particolare nel pubblico impiego. La concertazione fra le parti sociali è quasi sempre senza sbocco, umiliata da veti incrociati che spesso comportano una soluzione sulle spalle del contribuente. Quando il governo socialista, con un certo volontarismo, prova a impugnare (non certo affondare!) il bisturi, è costretto a frenare, a rimangiarsi promesse, fino a venire smentito e criticato — prima che da Bruxelles — dalla propria Corte dei conti. E quando le grandi imprese pubbliche o semipubbliche provano a stimolare efficienza e competitività raramente conseguono l’obiettivo: l’ultimo caso è quello dell’Air France, bloccata per due settimane dallo sciopero dei piloti.
A questo scenario, si sovrappongono errori strategici e calcoli sbagliati di Hollande, il quale, sull’onda della conquista dell’Eliseo, si era illuso di poter affrontare i nodi strutturali con delicatezza e consenso, sperando nel ritorno di un ciclo economico favorevole che avrebbe rilanciato consumi e occupazione.
Quando è stato costretto a prendere atto che la ripresa è ancora lontana, è corso ai ripari, ha bruciato premier e ministri, ma i primi tagli e sacrifici imposti dal nuovo governo di Manuel Valls hanno innescato la reazione sociale, il voto di protesta, i dissensi nelle file della maggioranza, le sconfitte elettorali, la caduta verticale del proprio consenso.
In questo scenario a tinte fosche, un presidente sempre più debole e inviso al Paese non aveva altra scelta che uno scatto d’orgoglio che spostasse l’attenzione dell’opinione pubblica ed evitasse ancora una volta ai francesi di guardarsi allo specchio. Impossibile fare i «compiti a casa», quando è già complicato aprire i quaderni.
Al di là delle regole di Bruxelles e del rigore di Berlino, la crisi francese è dunque prima di tutto strutturale, politica e istituzionale e apparentemente priva di soluzioni a breve termine. Il Fronte Nazionale di Marine Le Pen è il primo partito e coagula sentimenti populisti e antieuropei. La base sociale del partito socialista si è ridotta alle categorie del pubblico impiego. La destra repubblicana è in cerca di un progetto coerente e per il momento è dilaniata dallo scontro per la leadership: gli ex premier Alain Juppé e François Fillon uno contro l’altro, e Nicolas Sarkozy contro tutti.
A Hollande non resta che galleggiare guadagnando tempo, trasformando in alibi le regole di Bruxelles, cercando alleati nel confronto con Berlino. In questi anni all’Eliseo ha accumulato soltanto critiche e talvolta feroce ironia. Molti sembrano dimenticare che il galleggiamento, unito all’intuito, è proprio la sua arma migliore. La sua politica divide gli avversari e non fa nulla per rimuovere le cause dell’avanzata del Fronte. La Francia è troppo grande e importante per fallire. Alla fine, potrebbe salvarsi anche lui. Ma è meglio non imitarlo.
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