Ernesto Galli della Loggia dedica il suo editoriale odierno sul Corriere della Sera a considerazioni, amare e ricche di sarcasmo, alla vicenda del malaffare romano. Come potete leggere, il noto politologo ribadisce un concetto a lui caro da diverso tempo a questa parte : in Italia ci vuole un sussulto nazionale di orgoglio e di rispetto delle regole, se si vuole invertire la rotta di un declino sempre meno lento.
Evidenzia, a ragione, come la "questione morale" abbia perso molto appeal da quando non c'è più Berlusconi ad impersonificare il Male. A questo si aggiunga la sconcertante - per le strategie di propaganda - circostanza della assoluta trasversalità di queste trame. E' vero che è indagato Alemanno, ex sindaco di destra, è vero che Carminati è stato un nostalgico fascista, in odore di terrorismo ( più spesso assolto, va detto), ma è altrettanto vero che il suo braccio destro, Buzzi, ha la tessera del PD (non credo per motivi ideologici...) e dirige una cooperativa che, come tutte le cooperative, è collocata a sinistra. E infatti sono tanti i politici piddini che hanno in questi giorni l'imbarazzo di spiegare foto conviviali e amicali col numero due della cd. "Mafia" romana.
Galli della Loggia punta il dito contro gli "smaliziati", quelli che sorridono con sufficienza per dire "non lo sapevate ?".
Bene, io sono tra questi, senza però sufficienza, piuttosto parlerei di rassegnazione. Mattia Feltri, su La Stampa, sottolineava come anche la questione generazionale è fittizia, che molte persone indagate - ma anche al momento solo sentite - sono degli under 40.
Ci hanno sempre detto che la politica è questa, che è sangue e merda, che cose come quelle di Renzi a Letta, con la complicità di Franceschini (un amico ed alleato dell'allora presidente del consiglio, già vicesegretario del partito) sono "normali".
E allora ? A quanti rompevano - a volte rompono ancora - le palle con il degrado morale della Repubblica per l'avvento di Berlusconi, io provavo a rammentare figure come Evangelisti, braccio destro di Andreotti (con il costruttore romano Caltagirone a pronunciare l'ormai storica e significativa frase " a Fra' che te serve ?"), Sbardella (lo "squalo" della DC romana) per non parlare del fatto che al pluri presidente del consiglio e ministro dei dicasteri più delicati (Esteri e interni), è stato imputato di tutto, compresi i reati di mandante in omicidio e partecipazione esterna alla Mafia (altro che ruby, olgettine o evasione fiscale).
Insomma, che in Italia ci sia il problema che denuncia Galli della Loggia, non si può non convenire, ma che questo paia endemico, pressoché inestirpabile, assolutamente radicato in là nel tempo, è altrettanto vero, non cominciò col Berlusca.
La Lega ai tempi di tangentopoli, i grillini oggi, sono stati la ribellione auspicata dal professore, con milioni di elettori che hanno votato il nuovo che si proponeva di spazzare il marcio.
Dopo 20 anni la Lega ha prodotto i danni di un finto federalismo (complici gli altri partiti, e anzi il disastro vero lo combinò Prodi, con la riforma del titolo V della Costituzione, che infatti adesso si vuole annullare) e le stesse del Movimento ortottero hanno brillato finora per inconcludenza.
CORRUZIONE
Le chiacchiere degli smaliziati
di Ernesto Galli della Loggia
Non è più Tangentopoli, ormai. È Mahagonny, la città immaginata dalla fantasia di Brecht e Weill
dove è legge l’assenza di legge (Mahagonny: e dunque chi se ne importa se il termine «mafia» non è proprio quello filologicamente più appropriato). Non è più, insomma, la collusione dell’epoca di Mani pulite tra industriali senza scrupoli e politici pronti a vendere e a vendersi. Ormai è l’intreccio sempre più organico tra politica, amministrazione e malavita. È — si direbbe — la fase immediatamente precedente la conquista del potere direttamente da parte del crimine. Chiamiamo le cose con il loro nome: almeno fino alla settimana scorsa a Roma, nella capitale d’Italia, non era proprio questo all’ordine del giorno?
Non è vero che la politica, perlomeno quella nazionale — come ci viene detto — è sbalordita, è sconvolta, è pronta a correre ai ripari. Non ha forse il ministro dell’Interno Angelino Alfano detto l’altro ieri che «Roma non è una città marcia, Roma non è una città sporca, è una citta sana»?
E come no, deve essere senz’altro così, visto che nessuno dei tanti personaggi importanti che si sono mossi per anni su quella scena — da Veltroni a Zingaretti, dalla Meloni a Tajani, da Gasparri a Sassoli — ha mai fatto una piega, si è mai accorto di nulla, ha mai detto qualcosa.
E visto che in tutto questo periodo neppure ad uno dei tanti egregi procuratori della Repubblica succedutisi a Roma prima di quello attuale è mai capitato d’interessarsi di quanto sta venendo fuori oggi. Così come del resto a nessuno, a Roma o fuori Roma, sembra che abbia mai interessato il fatto che da anni, ogni volta che c’è un caso di corruzione politico-affaristica (dall’Expo al Mose, a Roma, appunto), ogni volta spunta immancabile lo zampino di qualche società affiliata alla Lega delle cooperative. Chissà come mai.
In Italia funziona così. Porre questioni scomode o guardare in fondo alle cose non usa, in politica meno che altrove. Ovvio dunque che di fronte all’arrembaggio capitolino di galantuomini come «er cecato» e «er maialotto», si pensi che la risposta adeguata sia una manciata di autosospensioni e dimissioni o lo scioglimento di una federazione di partito (quella del Pd romano: peraltro già ridotta da tempo a un Ok Corral per politicanti affamati di quart’ordine): misure già tutte viste e riviste mille altre volte in mille occasioni analoghe. E di cui tutti, quindi, sono in grado di apprezzare l’efficacia.
La verità è che finché al centro della scena c’era Berlusconi, ogni caso di pubblica corruzione suscitava, per ragioni ben note, un
dibattito accesissimo tra presunti «garantisti» e presunti «giustizialisti», e rispettive vaste tifoserie, divenendo immediatamente un terreno di scontro politico. Oggi invece, tramontata la presenza dell’ex Cavaliere, e spappolatosi il centrodestra, di fronte a fatti come quelli di Roma non sembra esserci più posto, nel campo della politica, che per una
maggioritaria tendenza alla sordità, a «ridimensionare», e per quanto riguarda il modo di reagire, ad attenersi, come si dice, al «minimo sindacale».
Prevale ormai tra gli addetti ai lavori il partito trasversale degli «smaliziati». Quelli che per l’appunto, di fronte a mezzo Comune di Roma al servizio del malaffare, irridono alla «Corleone dei cravattari», fanno un sorriso di sufficienza ogni volta che sentono risuonare dopo un sostantivo l’aggettivo «morale», e giudicano dall’alto in basso gli sprovveduti che di politica capendoci poco, sono solo capaci di augurarsi, molto banalmente, che ci sia in giro un minimo di decenza. Gli «smaliziati» di professione, i quali — mischiando l’ottimismo craxiano-berlusconiano di un tempo con l’antigufismo renziano attuale — non sopportano giustamente che si parli di declino dell’Italia, di crisi storica del Paese, facendosi beffa di qualunque ragionamento critico cerchi di guardare oltre l’oggi, di chiunque evochi i problemi antichi della Penisola. Perché conta solo la politica. Naturalmente la politica che c’è: cioè la politichetta de’ noantri , quella della chiacchiera non stop giornalistico-televisiva-romana, 24 ore su 24.
Quella politica che si ostina a non capire che il Paese ha certo bisogno delle riforme istituzionali e della ripresa economica, del Jobs act, di un altro Parlamento, degli 80 euro e via di seguito. Ma che nulla di tutto ciò servirà minimamente, si può essere certissimi, se non ci sarà qualcosa d’altro. Chiamiamola come vogliamo — uno scatto morale, un nuovo sentimento nazionale, una voglia collettiva di riscatto — ma insomma qualcosa a cui la politica deve essere capace una buona volta di dare voce, un segnale da trasmettere alle menti e ai cuori di quei milioni di «sprovveduti» che pur con tutti i limiti e le contraddizioni che conosciamo costituiscono la maggioranza degli italiani. Un segnale forte di serietà, di decisione, e una buona volta di capacità di colpire per primi. Siamo stufi di vedere all’attacco sempre gli «altri» e «noi» colpire sempre di rimessa.
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