sabato 17 gennaio 2015

SE I LOMBARDI NON VOGLIONO PAGARE I DEBITI DEL SUD ITALIA, PERCHé I TEDESCHI DOVREBBERO ESPORSI PER QUELLI DEL SUD EUROPA ?



Chi legge il Camerlengo sa che, tra gli opinionisti di "sinistra" più apprezzati per il loro stile e garbo di prosa, oltreché per la lucidità delle analisi  (inevitabilmente mai condivise totalmente, come mi accade più spesso con cari amici che ho e che votano PD) c'è Michele Salvati. Nell'editoriale di oggi, fa delle osservazioni non proprio originali però fondate, sul problema Europa, ricordando come alla base c'è una NON volontà federativa da parte dei singoli paesi, sia a livello di classe dirigente che di popolazione. Del resto, osservo, se i lombardo-veneti hanno punto voglia di sacrificarsi per quelli del Sud, e parlano la stessa lingua, almeno quella ufficiale, perché stupirsi se i tedeschi s'irrigidiscono all'idea di un debito comune europeo che consenta alle cicale del continente di continuare a frinire ? Se non ci si muove da lì - e al momento NON ci si muove - restiamo bloccati. 
Buona Lettura



Se si tratta meglio chi è contro l'Euro
di Michele Salvati


Alla luce di quanto è avvenuto dal 2008 in poi, credo siano rimasti pochi economisti a sostenere che l’adesione al trattato di Maastricht sia stata una scelta conveniente per il nostro Paese: a metà degli anni Novanta, durante l’affannosa rincorsa dei mitici «parametri», coloro che sostenevano l’opposto erano la grande maggioranza e l’ammissione al club dell’euro, alla fine del 1997, fu vista come un grande successo, politico ed economico. Ora la maggioranza ha cambiato idea e pensa che, se fosse possibile farlo senza incorrere in costi insopportabili, dovremmo uscire dal Sistema monetario europeo (Sme) com’è oggi definito.
Come mai la moneta unica si sia rivelata una grande delusione, dopo essere apparsa come una grande speranza, è questione cui ora posso dedicare solo un accenno. Poiché i Paesi appartenenti all’eurozona non si trovano d’accordo sulla trasformazione dell’Unione Europea in un vero Stato federale — il grado di fiducia e di solidarietà tra i cittadini dei diversi Paesi è troppo scarso — la gestione della moneta è soggetta a regole attente a evitare che ogni singolo Paese approfitti opportunisticamente dell’unità monetaria, scaricando sugli altri i costi della sua inefficienza. Regole sulla cui interpretazione lo scontro è aperto. Se domina l’interpretazione restrittiva prevalente in Germania, per i Paesi più deboli la conseguenza è il ristagno economico, e in condizioni di ristagno è molto difficile attuare le riforme strutturali cui potrebbe conseguire, nel lungo periodo, una maggiore crescita.

A questa situazione di asfissia le possibilità di reagire sono limitate, perché lo Sme è un edificio costruito senza scale di sicurezza: in casi estremi — lo si voglia o no — un Paese in crisi potrebbe arrivare all’uscita dall’euro e al ritorno alla moneta nazionale. Si tratterebbe di una catastrofe, ma con conseguenze serie anche per i Paesi creditori, i cui sistemi finanziari sarebbero minacciati dall’insolvenza del debitore.
La minaccia di estensione della crisi all’intero sistema può dunque essere un’arma nelle mani del debitore, che potrebbe ottenere una rinegoziazione del debito: ciò è già avvenuto e potrebbe avvenire ancora in Grecia, a seguito di una vittoria di Syriza nelle prossime elezioni. Il potere di minaccia di quel Paese è però limitato dalle sue stesse dimensioni: un «Grexit», una uscita della Grecia dall’euro, avrebbe esiti drammatici in Grecia, gravi ma gestibili negli altri Paesi dell’eurozona. È allora probabile che Syriza, se vincerà le elezioni, ammorbidisca la sua posizione e che si arrivi ad una sostanziale conferma delle condizioni ora imposte dalla troika, modificate quanto basta a non far perdere la faccia al governo greco che condurrà la negoziazione.
Ogni gioco di brinkmanship , di negoziazione con minaccia di possibili esiti dannosi per entrambi i giocatori, è diverso dall’altro e i teorici dei giochi si stanno divertendo a modellarne alcuni per i numerosi Paesi che si trovano in difficoltà nell’euro. L’Italia è imparagonabile alla Grecia, sia per il suo peso economico sia perché il suo governo, pur critico dell’attuale funzionamento dell’eurozona, esclude azioni che possano condurre al suo abbandono. A differenza di «Grexit», una minaccia di «Itexit» — anche se formulata da due partiti non marginali, Lega e 5 Stelle — per ora non sta nelle possibilità prese in considerazione dagli osservatori e di conseguenza lo stesso termine non è neppure stato coniato. Ma poiché l’Italia ha lo stesso interesse della Grecia ad allentare il corsetto di rigore in cui è costretta, si può porre la domanda se essa abbia giocato bene le sue carte, facendo leva sulle meno sfavorevoli condizioni in cui si trova.
La domanda è stata risollevata nei giorni scorsi, a conclusione del semestre italiano, con evidente sopravvalutazione del ruolo che questa istituzione gioca nell’attuale architettura dell’Unione: già prima, ma soprattutto dopo il trattato di Lisbona, si tratta più di una vetrina degli orientamenti politici prevalenti nel Paese cui è attribuito il semestre che una sede di reale potere. Una vetrina che Salvini e Grillo hanno utilizzato per contestare grossolanamente il discorso conclusivo che Renzi ha rivolto al Parlamento europeo il 13 scorso.
Una valutazione equilibrata dovrà attendere: al momento è possibile dire che il capitale di influenza guadagnato da Renzi con il risultato nelle elezioni del 25 maggio e la politicizzazione del gioco parlamentare europeo che egli ha assecondato, non hanno dato risultati irrilevanti in campo macroeconomico: investimenti e flessibilità sono diventate parole chiave del lessico europeo e, proprio il giorno dopo la chiusura del semestre italiano, la Commissione europea ha presentato nuove linee guida per l’applicazione del patto di Stabilità e Crescita, linee che offrono flessibilità addizionale a Paesi come l’Italia che si trovano in una situazione ciclica sfavorevole ma rispettano il parametro del 3% fissato nel trattato di Maastricht.
Lo stesso giorno, è stata anche approvata una proposta di regolamento del Fondo europeo per gli investimenti strategici (il piano Juncker) che avrà conseguenze favorevoli per i Paesi fortemente indebitati e con tassi di crescita al di sotto del potenziale. Se questi risultati — insieme ad altri in diversi campi — giustifichino un giudizio di successo italiano è questione che va valutata alla luce di quanto era realistico sperare. 

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