domenica 28 giugno 2015

PER L'AMERICA L'ISIS NON E' UNA MINACCIA. L'EUROPA STAVOLTA SI ARRANGI DA SOLA

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Stimo molto Maurizio Molinari, corrispondente estero de La Stampa, attualmente assegnato a Gerusalemme e precedentemente, per parecchio tempo, a New York.
In questi giorni, c'è tornato nella Grande Mela, a vedere che clima ci fosse dopo la terribile giornata della fiera del terrorismo scatenata un po' ovunque MA NON in America.
In effetti quelli dell'ISIS lì sono meno attivi - molto in Francia, abbiamo visto, per restare in Occidente... - anche se non del tutto assenti.
La conseguenza, a leggere Molinari, che per me è osservatore degno di fede, è che negli USA i satana jidhaisti ( loro sì che meritano l'appellativo di solito appiccicato all'America) non sono percepiti come una minaccia troppo grave. Il problema è degli europei, che se la sbroglino loro.
MAI nella mia vita avevo misurato una simile distanza tra i due continenti - America ed Europa - rappresentanti il fortunato e benestante mondo occidentale. Me ne rammarico molto, e allo stesso tempo mi domando in che modo noi europei, per 70 anni vissuti all'ombra della protezione USA, e che destiniamo mediamente l'1,5% delle nostre risorse alla difesa (gli USA il 5, Israele oltre il 6...), saremo in grado di affrontare questa sfida.
Senza contare che, alla fine, il discorso del costo finanziario è anche l'ultimo, ben più grave manifestandosi il grado di ignavia, quando non di viltà bella e buona, che caraterrizza ormai noi pasciute genti della parte "ricca" del mondo di fronte a gente che ci disprezza anche per questo nostro modo di essere, per la debolezza che palesiamo, per l'incapacità di difendere i nostri valori e il nostro sistema di vita. 
Su questo i fondamentalisti neri tutti i torti mica ce l'hanno...






Ma l’America questa volta è indifferente

La città dell’11 settembre resta estranea alla guerra contro l’Isis che si svolge nel mondo arabo e investe l’Europa 

 
 

Arrivare a New York da Gerusalemme significa scoprire che l’America si sente lontana, estranea, alla guerra in atto contro lo Stato Islamico (Isis) del Califfo Abu Bakr al-Baghdadi, che si svolge nel mondo arabo ed investe l’Europa. Nei diner di Midtown non si discute dei jihadisti, i radio talk show di Queens e Brooklyn non parlano di Isis, nelle stazioni della metro di Times Square non ci sono in bella vista con intento di deterrenza le squadre anti-terrorismo, nelle cene fra amici si discute dell’Internet super-veloce "5G" e di "Via" - la nuova application per il carsharing che fa concorrenza a Uber - e il riferimento più frequente alla guerra al terrorismo è l’orgoglio dilagante per la riapertura di Greenwich Street, l’ultimo lembo dell’ex Ground Zero riaperto al traffico. Nella città che l’11 settembre 2001 venne attaccata da Al Qaeda innescando la risposta militare dell’Occidente contro i jihadisti di Osama bin Laden, i tagliateste del Califfo del terrore sono pressoché degli sconosciuti.  

Per chi viene dal Medio Oriente significa immergersi d’improvviso in un mondo freddo, distante, distratto. Se 14 anni fa New York era la frontiera più avanzata della risposta ai terroristi, ora è una lontanissima retrovia. Nella Hamra di Beirut il timore per l’arrivo dei jihadisti è incombente, nello shuk del Cairo la polizia ispeziona ogni sospetto - oggetto o persona - ad Amman le bandiere del Califfo si affacciano in periferia, a Gaza i leader di Hamas devono difendersi dalla competizione salafita, a Rabat si istruiscono imam anti-Isis e i soldati israeliani sono, sul Golan, a 30 metri dalle bandiere nere di Al-Nusra, emanazione di Al Qaeda. Ma nei think thank di New York prevale l’attenzione per le aggressioni strategiche di Vladimir Putin e gli interessi globali di Pechino, sui grandi media si discute svogliatamente di Hillary e Jeb Bush in vista del 2016, nei salotti di Central Park West il protagonista è il ceo di Alibaba, Jack Ma, che ha investito 23 milioni di dollari sulle montagne newyorkesi dell’Adirondacks, e i reporter arabi accreditati all’Onu chiedono notizie sui propri Paesi di provenienza come se si trattasse di un altro Pianeta.  

Quando ci si imbatte in analisti ed esperti di terrorismo che affrontano la questione del Califfo partendo dalla disputa sulla scrittura dell’acronimo "Isis o "Isil" si tasta con mano la distanza siderale da un mondo distante meno di 10 ore di aereo dove tutti sanno che il nome dei barbari è "Daesh" e la discussione è su cosa fare: difendersi, sottomettersi o fuggire. Ciò che conta per i newyorkesi sono le polemiche sul sindaco Bill de Blasio, la rinascita di Roosevelt Island, i gioielli digitali e una nuova stagione di diritti dell’individuo, dalla legalizzazione delle nozze gay alla lotta senza quartiere ai residui del segregazionismo. Ecco perché l’America non sente proprio il conflitto con i jihadisti, a differenza non solo del Medio Oriente e del Maghreb dove è in corso ma anche dell’Europa, divenuta la nuova frontiera sulla guerra.  

Ciò che più impressiona è Times Square. Paragonandola a Piazza San Pietro, Trafalgar Square o Place de la Republique dà il segno di un rovesciamento della Storia rispetto all’11 settembre. Dopo l’attacco alle Torri Gemelle, per oltre dieci anni, il cuore di Manhattan è stato la cartina tornasole della difesa collettiva dal terrorismo: cartelli con avvisi "se vedi qualcosa, dì qualcosa", i super-poliziotti "Hercules" con speciali blindature, agenti ovunque e soprattutto i passanti, le persone comuni, protagoniste di un’allerta costante nell’intento di scorgere possibili minacce. Ora tutto ciò sembra archiviato, con il ritorno ad un’apparente normalità mentre è divenuto vero nelle piazze delle maggiori città europee, dove prevale allarme e timore per i jihadisti di Isis che operano, reclutano, si aggirano e progettano stragi efferate.  

Tali minacce restano vere anche per gli Stati Uniti, come i jihadisti del Minnesota dimostrano, ma è un tema per gruppi ristretti di super-esperti. Il risultato è un Occidente a parti invertite rispetto all’11 settembre: se contro Osama bin Laden era l’America a sentirsi in prima linea contro Al Qaeda, ora lo è l’Europa contro il Califfo. Nulla da sorpredersi dunque se Casa Bianca e Pentagono sono protagoniste di scelte oscillanti e contradditorie contro Isis: rappresentano ed esprimono un Paese che non percepisce la guerra. Tocca dunque ai leader europei assumersi la responsabilità di guidare l’Occidente in questa nuova fase di sfida ai jihadisti.

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