Peccato : conoscendo la spasmodica attenzione per i sondaggi e per la pancia della gente, qualche speranziella che Renzino facesse la rottamazione del canone Rai l'avevo coltivata.
Ma evidentemente il controllo di uno strumento che comunque tuttora costituisce il veicolo d'informazione degli italiani non giovani - cioè la stragrande maggioranza di una popolazione che invecchia sempre di più - è stata più forte rispetto ad una misura che sono convinto avrebbe l'approvazione dei più. Se si pensa che nel 1995, vale a dire 20 anni fa, quando non c'era il digitale terrestre, la valanga di canali che questa innovazione ha portato, e le tv a pagamento, SKY e Mediaset, erano considerate un lusso laddove oggi sono in molti a fruirne, con tantissimi, anche tra la gente di sinistra - quella che ama il "servizio pubblico" - , che giura come l'informazione sulle reti Murdoch sia assolutamente migliore e più obiettiva di quella RAI, ebbene gli italiani promossero il quesito referendario che proponeva la privatizzazione del cavallo di viale Mazzini, figuriamoci il plebiscito che ci sarebbe oggi !
Anche le benedetta crisi dei talk show, con Santoro che si pensiona, Giannini, che boccheggia, Floris che non ride così come tutti gli altri, testimonia di una crescente diffidenza degli italiani per certi programmi, che però sugli altri canali non RAI hanno il grandissimo pregio di essere gratuiti.
Io sono stato felice quando Servizio Pubblico è traslocato dalla rete pubblica, e questo per la semplice ragione che mi era assolutamente indigesto il pensiero che quella trasmissione, faziosa quante altre mai, andasse in onda ANCHE col contributo mio e di persone che la pensano come me.
Mentre non ho alcun problema se Cairo, o altri al posto suo, si mettono le mani in tasca per sovvenzionare roba del genere.
Ecco, a quelli del "servizio pubblico", come sempre del resto, manca il concetto di libertà. Sono convinti che debba esistere uno strumento di "educazione" del popolo, che naturalmente va educato come vogliono loro...
Pierluigi Battista ha sempre lodevolmente combattuto la battaglia contro il canone, e non poteva non far sentire la sua disapprovazione alla riaffermazione del balzello, messo in bolletta per assicurarsi che tutti lo paghino, a dispetto oltretutto delle obiezioni fatta dai gestori dell'energia elettrica in merito a questa furbata del governo.
Buona Lettura
Perché il canone Rai è una tassa ingiusta
Pierluigi Battista
Va
bene, pagheremo quell’odioso balzello denominato «canone Rai» con la bolletta
dell’elettricità. Ciò non toglie che saremo costretti a pagare una tassa iniqua
e ingiustificata. Perché è un residuo di un’epoca finita, quella in cui non
esisteva il telecomando, lo smartphone, il tablet, e non esisteva nemmeno il
computer. Di un’epoca in cui possedere un apparecchio televisivo era un
privilegio e la gente andava a vedere «Lascia o raddoppia» con Mike Bongiorno
al bar. Un’epoca in cui esisteva il monopolio della tv e della radio di Stato,
con un solo telegiornale e un solo radiogiornale, più o meno nel Medioevo.
Perché l’obbligo fiscale di un canone va contro il principio della libertà di
scelta: pago il biglietto del cinema o di un concerto, se lo scelgo io; pago il
prezzo di un giornale se lo scelgo io; pago una tv tematica non di Stato se la
scelgo io; sono invece costretto a pagare la tassa per la Rai anche se non vedo
programmi Rai, o li vedo in misura inferiore a quelli di altre emittenti
televisive che non possono usufruire dei proventi di una tassa obbligatoria.
Il canone
introduce un principio di concorrenza sleale, come se in una gara di corsa un
concorrente privilegiato, perché si chiama Stato, potesse cominciare con trenta
metri di vantaggio. Dicono che un canone televisivo è misura comune all’Europa.
Non è vero, solo in due terzi, l’Italia potrebbe raggiungere il terzo virtuoso.
Inoltre quasi sempre le tv pubbliche che usufruiscono di una tassa pongono dei
limiti molto stretti alla pubblicità, e la Bbc addirittura la vieta. La
permanenza indiscussa di un canone impedisce, tranne casi rari come quello del
nostro Aldo Grasso, di interrogarsi su cosa sia «servizio pubblico». Stabilisce
un’arbitraria e ideologicamente polverosa equiparazione tra «pubblico» e «di Stato»
(mentre molte trasmissioni di reti private fanno più «servizio pubblico» della
Rai). Crea assuefazione all’idea che «servizio pubblico», che magari potrebbe
limitarsi a una sola rete sottratta al mercato, debba dotarsi di un apparato
elefantiaco, pletorico, terreno di caccia e di conquista dei partiti che
continuano ad esserne i veri «editori».
L’indiscutibilità del canone, ancora,
ignora per sempre la volontà popolare espressa in un referendum promosso dai
Radicali nel 1995 in cui il 54,9% degli italiani (13 milioni e 736 mila) si
proclamava favorevole a una pur parziale privatizzazione della Rai. Paghiamo
tutti, certo, ma paghiamo una cosa ingiusta.
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