mercoledì 6 aprile 2016

GALLI DELLA LOGGIA : QUELLO CHE CI DELUDE DI RENZI

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Lo avevo percepito e quindi segnalato : dopo Giacalone e Ricolfi, anche Panebianco e Galli della Loggia stavano iniziando a disilludersi circa i fasti renziani.
I primi due sono da tempo diventati severi critici (ognuno col suo stile : più mordace Giacalone, più british il professore di scienze sociali e statistiche ) , i secondi ancora no, però le obiezioni aumentano, e di fondo l'unico residuo pregio di renzino è legato al panorama desertico alternativo. Lui no, ok ma chi al posto di lui ? I grillini ? Per carità di Dio. Salvini ?? Al di là del merito - che pure suscita molto più che delle semplici perplessità - parliamo di fantascienza.
Quindi c'è solo lui. Non una bella cosa, per il nostro "disgraziato e meraviglioso paese" (copio una delle frasi retoriche più abusate, specie tra i politici, e vezzo frequente di un mio caro amico del PD ).
Nell'editoriale odierno Galli della Loggia spiega come la forbice tra parole e fatti sia divenuta sempre più evidente, anche al netto ragionevolmente applicato alla propaganda propria di ogni uomo politico, tanto più di governo. Da professore, non apprezza lo sbilanciamento eccessivo del premier verso gli uomini del "fare", rispetto a tecnici e ancor più accademici (basta ricordare il rapporto con Cottarelli), figlio anche di una non propria vasta cultura dell'uomo, tenuto anche conto che relazioni strette con la classe imprenditoriale possono a volte creare problemi di imparzialità da parte del governo nel gestire le commesse pubbliche e la politica di sostegno allo sviluppo (roba di queste ore).
Non sono d'accordo con Galli della Loggia quando parla di "plebiscito" per il premier riferendosi alle elezioni europee. Vero che il PD prese in quell'occasione oltre il 40% dei voti - non ci si è mai più nemmeno avvicinato a quella soglia, stando sempre sotto al 35, in periodi bui scendendo al 30 - ma è anche vero che l'astensione si attestò sul 40% dei votanti e quelle elezioni furono anche drogate dai famosi 80 euro di regalia ai lavoratori dipendenti. Insomma, successo certamente sì, mai più ripetuto, ma plebiscito...)
Naturalmente condivido la critica, peraltro antica, senza però che il destinatario abbia cambiato alcunché, circa la mediocre squadra di governo e collaboratori, formata avendo come criteri di scelta la stretta amicizia e la natura di yesmen dei componenti (anche in questo simile al suo predecessore Berlusconi).

Da sottoscrizione e divulgazione il passaggio laddove il professore scrive : Il Renzi della realtà, infine, spinto dal suo temperamento ma soprattutto dalla mancanza di una forte e coesa maggioranza parlamentare, si è sentito e si sente indotto, per reggersi in sella, a dire troppo spesso cose nuove e forti che restano parole, a stupire con riforme costituzionali improvvisate, a rilanciare le proprie fortune con nuove leggi elettorali ad hoc. E a cercare d’ingraziarsi il pubblico con periodici gesti di munificenza rivolti sia ai meno abbienti (gli 80 euro ai lavoratori dipendenti con meno di 26 mila euro di reddito annuo, poi i 500 euro agli insegnanti e ai neo maggiorenni) che ai ricchi (cancellazione dell’Imu su qualunque patrimonio immobiliare).
Non era esattamente questo ciò che ci aspettavamo dal Renzi che ci era piaciuto.

 

Il Corriere della Sera - Digital Edition

LA STAGIONE DELLE SFIDE SMARRITE

di Ernesto Galli della Loggia

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C’era un Renzi che ci piaceva. Molto. Era il Renzi arrembante all’assalto della nomenklatura politica italiana esemplarmente rappresentata dalla «Ditta» democrat. Il giovane uomo senza peli sulla lingua che prometteva aria nuova, idee nuove, facce nuove: e gli si poteva credere dal momento che era lui innanzi tutto, con il suo modo d’essere, a incarnare ognuna di queste cose. Certo, si capiva che dietro non aveva molte letture e vattelappesca quali studi, ma questa era roba da Prima Repubblica. Nella Seconda bisognava rinunciare a certe fisime. Renzi era essenzialmente uno stile — allora non poteva essere altro — ma appariva uno stile troppo nuovo per non essere garanzia anche di vere novità. Era di sinistra? Sì che lo era. Di una Sinistra tuttavia diversa da quella della maggioranza dei suoi compagni. Diceva infatti cose ragionevolmente di sinistra ma coniugandole con molto buon senso.

Fu presto chiaro che a questa condizione, nella Penisola come altrove, la Sinistra ha quasi la vittoria in tasca. E infatti — fallito un tentativo iniziale troppo prematuro — vuoi con le primarie e poi con le elezioni europee il Paese lo plebiscitò. Con una valanga di voti l’Italia trascinò alla vittoria il Renzi che ci piaceva. Egli si trovò così alla guida di un partito che però non lo amava, un partito che aveva perso le elezioni, e che in un Parlamento dove nessuno aveva la maggioranza non ce l’aveva neppure lui.

Incurante di ciò, ma forte del suo successo, Renzi con una spallata sloggiò dal governo il pallido Letta, che si reggeva sul vuoto, e ne prese il posto. Poteva fare diversamente? No. Con quel plebiscito alle spalle come avrebbe potuto lasciar passare il tempo aspettando nuove elezioni da lì a qualche anno? Come avrebbe potuto nel frattempo stare lì ad assistere impotente agli immancabili giochi contro di lui dentro e fuori il Pd? Neppure a pensarci: al governo, al governo!

Cominciò così il rapido mutamento del Renzi che ci piaceva nel Renzi della realtà. Che ci piace di meno.

Poteva andare diversamente? Forse. Quel che è certo è che il nostro sistema politico-costituzionale non era fatto davvero per aiutarlo. In Italia, l’outsider, l’uomo fattosi da solo, non può diventare l’uomo solo al comando: non lo consentono né le regole né la tradizione. Da noi la solitudine dell’outsider è destinata a divenire solo isolamento. Per cercare in qualche modo di evitarlo — e non avendo alleati di peso né fuori né dentro il suo partito — al nuovo premier, allora, non è restato che contare sui fedelissimi e sulle amicizie. Con i fedelissimi ha costituito il suo inner circle e una parte del governo; l’altra parte dell’esecutivo l’ha riempita di mediocri che senza di lui sarebbero stati delle nullità: e che essendone consapevoli sono totalmente ai suoi ordini. Il prezzo da pagare è stato la pulsione a scegliere tutti lui, a volere dappertutto solo i suoi, un esasperato accentramento di ogni cosa sulla propria persona; nell’azione quotidiana, poi, l’assenza al fianco del premier di competenze e di figure forti per autorevolezza ed esperienza; in generale, al vertice del potere, un’aria sgradevole di arroganza da un lato e di prono ossequio dall’altro.

Le amicizie invece il nuovo Renzi le ha cercate quasi solo nel mondo «del fare», come lui ama dire. A Palazzo Chigi non si sono tenute molte cene con intellettuali o accademici illustri; raramente il premier è stato visto in prima fila nei teatri, nei cinema o ai concerti. Lo si è visto invece di frequente tra gli imprenditori, nei circoli della finanza, tra gli esperti di economia e di affari. Ai quali egli non usa lesinare i complimenti più sperticati e le più calde attestazioni di stima: ricambiato allo stesso modo ma verosimilmente — com’è nella natura degli affari — pure con richieste di tale medesima natura. Alle quali, trattandosi di amici, si può immaginare che non sia sempre facile dire di no.

Absit iniuria , sia chiaro. Sull’intelligenza, e dunque sull’onesta personale di Matteo Renzi ci si può scommettere. Ma l’immagine conta: in politica conta moltissimo. Vedere tanto spesso il presidente del Consiglio «pappa e ciccia», come si dice a Roma, con gli uomini «del fare» — qui come altrove giustamente impegnati a fare sempre e innanzi tutto gli affari propri — non mi sembra una gran cosa. Sergio Marchionne ha diritto senz’altro a tutta la nostra stima, ma non è detto da nessuna parte che l’interesse della Fiat coincida con quello dell’Italia. Bisogna vedere di volta in volta.

 Il Renzi della realtà, infine, spinto dal suo temperamento ma soprattutto dalla mancanza di una forte e coesa maggioranza parlamentare, si è sentito e si sente indotto, per reggersi in sella, a dire troppo spesso cose nuove e forti che restano parole, a stupire con riforme costituzionali improvvisate, a rilanciare le proprie fortune con nuove leggi elettorali ad hoc. E a cercare d’ingraziarsi il pubblico con periodici gesti di munificenza rivolti sia ai meno abbienti (gli 80 euro ai lavoratori dipendenti con meno di 26 mila euro di reddito annuo, poi i 500 euro agli insegnanti e ai neo maggiorenni) che ai ricchi (cancellazione dell’Imu su qualunque patrimonio immobiliare).

Non era esattamente questo ciò che ci aspettavamo dal Renzi che ci era piaciuto.
Allorché per esempio egli aveva promesso di «rimettere in moto l’Italia»: cioè, nella nostra mente, di aiutare il Paese a ritrovare se stesso, il senso smarrito di ciò che esso era stato e che ancora nel suo intimo era; a immaginare le prospettive possibili del suo futuro. Ma non solo: anche aiutarlo a far riacquistare vigore all’interesse pubblico e alle funzioni dello Stato centrale, a spazzare via privilegi e corporativismi soffocanti, aiutarlo a cancellare il fiume di inefficienze, di sprechi e di spese inutili che quotidianamente porta soldi nelle tasche dei furbi togliendole a quelle dei cittadini che furbi non sono. Allorché avevamo creduto, per l’appunto, che Renzi avesse l’energia e la voglia di cimentarsi con simili sfide.

Certo, sappiamo fin troppo bene che la realtà dei fatti è necessariamente diversa da quella dei propositi. Ma quel Renzi che ci piaceva, forse piaceva a Renzi stesso. E oggi, forse, anche lui — mi piace credere — lo ricorda ogni tanto con un certo rimpianto.

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