Era un po' che non mi arrivava un contributo di Massimiliano Annetta, brillante avvocato penalista, uomo politico di sinistra, fiorentino e simpatizzante renziano della prima ora e poi progressivamente più distante dal neo segretario prima, premier dopo. Ricordo distintamente i discorsi con Massimo i primi tempi dell'ascesa di Matteo, con la predilezione per i fedeli del "giglio magico", la bella putta della Boschi in primis, e poi i vari Lotti, Richetti, Guerini...quella gente lì.
Quelli che pensavano con la propria testa, a renzino non sono mai piaciuti molto, e questo glielo hanno rimproverato anche i sostenitori, che gli ricordavano che Blair fu grande anche e soprattutto per la qualità della squadra che aveva saputo crearsi. Se io penso a gente come Massimo Annetta, ma anche Riccardo Cattarini, e a chi Renzi ha messo come responsabili della giustizia del partito (la Morani prima, e fu veramente una pena infinita, non meglio poi. con l'attuale, Ermini, che però almeno è un carneade che se ne sta zitto, che fa meglio).
Come giustamente evidenzia Massimiliano nel contributo che segue, e che compare oggi sul nobile giornale de L'Opinione, sarà importante vedere cosa accadrà proprio in casa PD nelle prossime settimane.
I Renziani proveranno a dire che in fondo è stata una sconfitta dignitosa, che, solo contro tutti, hanno preso milioni di voti, il 40%, e che circa l'85% del partito ha comunque votato sì.
Credo che sia il positivismo della disperazione...
Non credo affatto che tutti i milioni di Sì appartengano al Premier, per quanto sia indubitabile la fortissima personalizzazione da lui data al referendum, tanto che non può non intestarsene la sconfitta, e anche di quel 85% circa di democrat fedeli alla ditta, bisognerà vedere nei lavori preparativi al congresso cosa rimarrà. Franceschini, Orfini, le altre galassie del partito che sono corse sul carro del renzi vincitore, non sono esattamente entità affidabilissime, come l'esperienza di Enrico Letta (ma anche quella di Bersani, nel 2013) sta lì a dimostrare.
Buona Lettura
La
sconfitta di Renzi ed il PD al bivio.
Non
sono un cultore della cabala, ma della storia sì. Sarà per questo che, man mano
che nella notte i numeri affluivano, mi è venuto subito in mente un altro
referendum, quello democristiano del 1974 sull’abrogazione del divorzio. Stessi
numeri plebiscitari e stessa bocciatura per quella energica spregiudicatezza,
che solo chi ha –non fosse altro-per ragioni geografiche frequentato la Toscana
rurale può comprendere fino in fondo. Facile sarebbe, quindi, rammentare oggi
Pietro Nenni e le sue parole di allora: hanno voluto contarsi, hanno perso. Ma
l’analisi del vecchio Socialista, sempre ficcante, è inevitabilmente parziale.
La
vittoria del No è innanzitutto la storia di un errore, ovvero del tentativo di
trovare in un referendum costituzionale l’investitura popolare mancante. Ha
perso Renzi, ma prima ancora ha perso un modello di leadership che, come uno Zeman qualsiasi, ha messo in campo sempre
e soltanto un solo schema, quello dell’uno contro tutti.
Ma
questo ormai è un fatto e, soprattutto, è il passato, perché dopo le dimissioni
di Renzi le luci dei riflettori si accendono, inevitabilmente, non più solo
sulle sue mosse personali, ma, soprattutto, sul Partito Democratico. PD che
resta il partito di maggioranza in Parlamento e dalle cui scelte immancabilmente
dipenderanno le prossime mosse del capo dello Stato.
Ecco il
rischio di un secondo, tragico, errore. È certo umanamente comprensibile il
Renzi sconfitto che getta la palla al di là della rete – ai vincenti del No
oneri ed onori ha detto ieri sera – concludendo, con innegabile dignità, il suo
percorso da Presidente del Consiglio. Nessuno, di contro, comprenderebbe un PD
che non si assumesse le proprie responsabilità, a cominciare dalla prossima
legge di stabilità.
I
segnali, in vista della Direzione convocata a brevissimo, non paiono positivi
ad ascoltare le parole del Presidente dei Deputati Ettore Rosato: “non si
ricuce più, temo che la scissione sia nelle cose e che i gruppi parlamentari si
spaccheranno” pare abbia affermato. Un calcolo assai rischioso e che sconta
molte variabili a cominciare dalla stabilità delle maggioranze interne di un
partito sulla quale, dopo la vicenda dei 101 e quella del Governo Letta,
neppure il più spericolato dei giocatori di poker farebbe grande affidamento
(il silenzio del leader Area Dem Franceschini è soltanto una nube passeggera?).
Ma soprattutto il rischio di una scelta potenzialmente devastante; la
tentazione di portarsi a casa il pallone dopo la sconfitta o un percorso di
responsabilità che preveda l’appoggio ad un Governo istituzionale, la legge di
stabilità e una nuova legge elettorale prima di ridare, finalmente, la parola
agli elettori. Propendo senza tentennamenti per la seconda soluzione e chiedo
quanto gonfierebbe le vele del populismo lasciarsi andare a tentazioni sfasciste? Quanto costerebbe in termini
di consensi? Soprattutto, quanto costerebbe al Paese?
Ben
prima di pensare a quello che accadrà nel PD evocando improbabili scissioni c’è
quindi da assumere una decisione assai più profonda sulla strategia politica
del partito stesso. Affrontare le urne col malcelato obbiettivo di dimostrare
l’inesistenza di una leadership alternativa, barricandosi come un novello
Nikita Krusciov spaccherebbe Partito e Paese. Evocando l’antico adagio secondo
il quale errare è umano e perseverare è
diabolico sarebbe errore ancor più grave di quello, originario, che ci ha
condotto in questo cul de sac.
Nessun commento:
Posta un commento