sabato 15 giugno 2013

QUEI GIUDICI CHE NUTRONO LA RABBIA, NON SONO DEI BUONI MAGISTRATI


Prendendo spunto dalle dimissioni (benedette) di Ingroia, il Dott. Giuseppe Maria Berruti, noto e stimato Presidente di Cassazione, ha scritto una bella e lucida lettera al DIrettore del Corriere della Sera.
Agli orfani di Ingroia, ricordo che il loro eroe è vivo e "lotta insieme a voi".
Semplicememte, siccome faceva e vuol fare politica, è giusto che non lo faccia con la toga addosso.
L'aveva capito da solo, ma non l'avete votato abbastanza...Tutto lì.
Buona Lettura

Caro direttore, il disagio sintetizzabile nelle dimissioni dalla magistratura di Ingroia è particolare. E deve servirci a ragionare. È evidente la diffusione di una domanda di giustizia anzitutto nella sua forma più elementare e comprensibile, quella di tipo giudiziario. Quando la violazione della legge diventa un carattere della convivenza, perché è diffusa, ostentata, e immancabilmente conveniente per coloro che la praticano, la somma delle domande di giustizia particolare diventa domanda sociale. Per molti. Che vedono come sono passati in un lampo venti anni, e non vogliono più regalare altri pezzi della loro vita alla politica. I magistrati candidati sono anche il frutto di questa domanda di cambiamento senza riflessione. Ma anche un serio problema di forme e contenuti della democrazia rappresentativa. Perché se il metro di valutazione del lavoro giudiziario non è più la assoluta fedeltà alla legge ma diventa il clamore delle indagini, alla fine non conta indagare bene, cercare le prove, garantire i diritti di difesa. Conta andare nella direzione politicamente giusta. E nella percezione collettiva la giustizia perde il connotato costituzionale di sede dell'accertamento della regola da applicare ad una vicenda. Diventa un meccanismo di diffusione sociale della conoscenza di fatti di interesse generale. Un abnorme media. Che procede secondo l'indirizzo del giudice, piuttosto che della legge. E nel quale i principi che governano i processi, e la stessa utilità della violenza della legge, non contano. Conta la diffusione immediata, democratica se si vuole, delle indagini. Perché è la rabbia che esse creano nel corpo sociale che ne determina la approvazione, piuttosto che la lontanissima conclusione di una sentenza. Conta, insomma nutrire la rabbia. La giustizia come sociologia del crimine politico, insomma. E formidabile occasione di notorietà, immediatamente spendibile, per i suoi addetti.
Dire queste cose può passare per una difesa dei ladri in un momento nel quale ai sacrifici dei deboli e degli onesti fanno riscontro le ruberie di tanti potenti. Tuttavia il problema esiste ed è enorme. E rischia di venire affrontato dalla politica nell'unico modo che essa conosce, quello della limitazione dei poteri dei giudici o della loro responsabilità per danni, e così via. Cioè con una strategia puramente difensiva dai processi. Che priva la democrazia della sua necessaria sensibilità ai diritti che cambiano. Io non so se la legislatura in corso sarà breve, come tanti dicono. Ma il parlamento eletto ha i poteri che al parlamento spettano. E questi poteri verranno esercitati nel clima e nella relazione di forza che, mano a mano, verranno. Perciò tocca alle persone capaci di ragionare, di introdurre, senza ritardo, il tema della riaffermazione delle regole, della libertà della politica, e della necessità di affrontare la spaventosa questione morale del Paese, in chiave non solo penale. Sopratutto il tema della indipendenza della magistratura dentro un sistema che fonda sulla interdipendenza assoluta di ogni centro di decisione. Mettere insieme indipendenza di chi applica la regola ed interdipendenza di tutti gli assetti dello Stato e della economia che vengono regolati attraverso quella applicazione è il tema della democrazia moderna. Sul quale in Italia vi è uno straordinario ritardo. Che Napolitano ha richiamato anche di recente. I magistrati che pensassero di operare come agenzie decisorie, insensibili all'effetto delle loro decisioni, coltiverebbero una idea superata di giurisdizione. Si deve trovare una dialettica nuova tra le istituzioni politiche che fondano i diritti con la legge, e quelle che, in un momento successivo, accompagnando la vita dell'ordinamento, riconoscono i diritti nel loro manifestarsi. E si deve ristabilire un primato più moderno. Senza dovere ricorrere al conflitto tra poteri come strumento ordinario. Cosicché la magistratura amministri nei processi le regole della convivenza dei diritti, non solo la rabbia.

*Presidente di sezione Corte di Cassazione

Nessun commento:

Posta un commento