mercoledì 30 aprile 2014

EMILIO RIVA MUORE A 88 ANNI. MALATO, ERA AGLI ARRESTI DOMICILIARI SENZA ESSERE MAI STATO CONDANNATO


Naturalmente non conosco Emilio Riva, non so se era il diavolo che pensa la gip di Taranto, Patrizia Todisco, o un capitano d'industria di vecchia scuola, duro, cinico e creatore di lavoro per decine e decine di migliaia di persone. Leggo che si vantava di poter dire "io le fabbriche le ho sempre aperte, mai chiusa una". 
Sono convinto che non doveva morire agli arresti domiciliari, a 88 anni e notoriamente malato. Dopo i 70 anni, il carcere dovrebbe essere un'eccezione, e sono assolutamente d'accordo con questo principio, che trova eccezione nei casi di persona condannata per reati che suscitano allarme sociale e nella convinzione della pericolosità del condannato. Per fare esempi chiari a tutti, Riina e Provenzano. Ma anche persone che si sono macchiate di delitti di sangue, o comunque gravemente violenti, e che si possa pensare che nonostante l'età possano essere pericolosi per la comunità. 
Altrimenti, ci sono le misure alternative. Questo vale per i condannati, e quindi, per dire, per Silvio Berlusconi, che di anni ne ha 77. 
Emilio Riva, come detto, ne aveva 88, e NON era stato condannato. In realtà credo che si dovesse svolgere il suo processo che ora, per quanto lo riguarda, non si farà più. Ora è libero, chissà che rabbia per chi questa cosa proprio non la sopportava. 
E' successo qualcosa del genere qualche mese fa, ad Angelo Rizzoli, anche lui vecchio - si, dopo una certa età si è vecchi e andate in quel posto voi ipocriti dei "diversamente giovani" - e gravemente malato.
So che mi illudo sperando che, in questi casi, il giudice responsabile di queste cose almeno , per un po', non dorma, colto dal tardivo rimorso di essersi accanito ingiustamente e inutilmente.
Però mi piace pensarlo.
Cattive notti, Patrizia Todisco.




Ilva, è morto Emilio Riva
il “re dell’acciaio” italiano

L’ex patron del colosso di Taranto aveva 88 anni.
Era l’ultimo grande della dinastia del siderurgico
ANSA
Emilio Riva
Era l’ultimo grande vecchio dell’acciaio italiano. Emilio Riva, il “ragiunatt”, se n’è andato ieri all’età di 88 anni nella sua casa a Malnate (Varese) dove era agli arresti domiciliari per le vicende legate all’Ilva di Taranto, il colosso siderurgico al centro delle inchieste della magistratura per inquinamento e reati finanziari. Era malato da tempo. Milanese da generazioni, imprenditore discusso e a volte discutibile, imprenditore vecchio stampo, incarnava lo stereotipo del “padrone delle ferriere”. Epigono di un mondo ormai al tramonto, era sopravvissuto ad altri due “grandi vecchi” dell’acciaio: il bresciano, re del tondino, Luigi Lucchini e il mantovano Steno Marcegaglia, che da sindacalista si era fatto padrone fino a creare una multinazionale dei tubi.

Ruvido nei rapporti sindacali e istituzionali, ma a modo suo legato ai propri operai, Riva aveva un vanto: «Ho sempre aperto e comprato fabbriche e non ne ho mai chiusa una». Sino a diventare il quarto produttore in Europa e il decimo nel mondo, 11 miliardi di euro di ricavi (prima del blitz della magistratura) e 24 mila dipendenti. Da una parte l’Ilva, rilevata a un “prezzaccio” dalle Partecipazioni statali ai tempi dell’Iri di Romano Prodi, con i suoi altoforni, specializzata in prodotti piani e derivati (e oltre a Taranto, stabilimenti a Genova e Novi Ligure); dall’altra la Riva Acciaio e le holding estere (impianti in Spagna, Germania e Francia) specializzate nei “lunghi” (blumi, billette, tondino, vergella e trafilati) con impianti elettrici.

Che il Riva ragionier Emilio fosse un uomo tutto d’un pezzo, un duro, un padrone d’altri tempi, lo testimonia una ricca aneddotica. Non si sa come abbia reagito nel luglio del 2012 alla notizia degli arresti domiciliari disposti per lui, classe 1926, dal gip di Taranto, Patrizia Todisco. A Caronno Pertusella (Varese), dove nel 1957 costruì il suo primo stabilimento siderurgico, però, ricordano ancora quel che disse mentre lo arrestavano nel 1975, accusato di omicidio colposo per un incidente sul lavoro: «Finchè non esco io, la fabbrica resta chiusa e senza lavoro». All’epoca fu bollato come fascista e sfruttatore, ma in realtà anche allora, come oggi, ha sempre avuto una grande capacità e abilità nel coinvolgere dirigenti e lavoratori dei suoi stabilimenti.

Come a Genova, nel 1998, con la città squassata dal conflitto fra lavoro e salute, una Taranto in scala minore, con la ciminiera dell’altoforno che spargeva i suoi veleni su Cornigliano e dintorni. E lui che ti combina? Invita al ristorante seicento operai che lavoravano con lui da dieci anni, da quel 1988 in cui rilevò lo stabilimento proprio dall’Ilva di cui nel frattempo (1994) era diventato il padrone assoluto. Per tutti abbondanti libagioni, buoni vini e un piatto d’argento.

«Io non sono un capitalista, ma un imprenditore industriale - ha detto in una delle sue rare interviste - I capitalisti comprano le aziende, le risanano, le rivendono. Vanno in Borsa. Speculano. Io sono diverso. Sono un datore di lavoro». Nei posti di comando del gruppo fondato insieme al fratello Adriano solo figli e nipoti: il primogenito Fabio, 60 anni, delfino designato, i fratelli Claudio (uscito dal gruppo avviando un’attività di armatore e poi richiamato sull’onda della bufera giudiziaria), Nicola e Daniele (avuto dalla seconda moglie, una principessa etiope), i nipoti Cesare e Angelo. Una squadra di manager fatti in casa, svezzati da lui, stessi metodi, uguale grinta. Quasi tutti finiti, ovviamente, nel tritacarne delle inchieste.

Per i Riva pochi svaghi e tanto, tanto lavoro. Soprattutto, lontano da salotti, lobby e consorterie. Solo Emilio si era concesso una frequentazione, discreta, con Silvio Berlusconi, tanto da rispondere alla chiamata dei “patrioti” in cordata per l’Alitalia. In cambio, sostengono le accuse, della libertà di azione a Taranto: impianti spremuti e pochi investimenti per ridurre il terribile impatto ambientale su Taranto. Il vecchio patriarca preferiva ricevere i pochi amici (come Giorgio Fossa o Cesare Romiti) a casa propria, mettendosi lui stesso dietro ai fornelli e cucinando strepitosi risotti. Dicono che sino alla fine tenesse i numeri principali del gruppo in un libriccino nero che portava sempre con sè in tasca: produzione, venduto, guadagni. Ricordando un principio fondamentale: bisogna mettere fieno in cascina per i tempi bui, visto che l’acciaio è un prodotto ciclico, si fanno ricchi guadagni, ma prima o poi si perde.

Una saga, quella dei Riva, iniziata nel dopoguerra, quando il giovane Emilio, figlio di un commerciante di rottame, si comprò un vecchio Dodge americano per raccogliere e distribuire il rottame alle nuove imprese elettrosiderurgiche della pianura padana. Poi arriverà il primo stabilimento di Caronno Pertusella. E da allora, dal 1957, nel gruppo si festeggia quel 7 marzo nel quale la fabbrica cominciò a produrre e tutto ebbe inizio.
Senza di lui il destino del gruppo è ancora più denso di incognite. L’Ilva è commissariata e necessita di ingenti investimenti: almeno 4 miliardi. La famiglia Riva, senza il collante del vecchio leone Emilio, è divisa fra chi vuole gettare la spugna e chi vorrebbe proseguire, magari con un partner estero. Rimane il commento del presidente di Federacciai, Antonio Gozzi, che nonostante tutto rende omaggio al “ragiunatt dell’acciaio”. «Abbiamo perso un grande imprenditore, un vero capitano d’industria. Non lo dico per dovere istituzionale, ma per il dovere morale di riconoscenza che, come operatore del settore, e, consentitemi di dirlo, come italiano, sento di dover esprimere nei suoi confronti».

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