martedì 23 settembre 2014

CHIUDETE IL TEATRO DELL'OPERA DI ROMA. NON PIU' UN SOLDO PUBBLICO AGLI SQUADRISTI SINDACALI



La cosa che non mi convince è che per ottenere la, strameritata,  condanna pressoché unanime dei commentatori dei  terroristi sindacali che affliggono il Teatro dell'Opera di Roma si sia dovuto aspettare la resa di Riccardo Muti, che dopo 5 anni di patimenti ha deciso che poteva bastare e se n'è andato. Il sindaco Marino, che giudico un matto purtroppo non innocuo, ha detto che è tutto sotto controllo, ennesima dimostrazione della sua sorridente follia. 
Posto il commento di Paolo Conti del Corriere, ma in realtà ne ho letti due ancora più ficcanti su La Stampa e su Libero (purtroppo non on line).
Su quest'ultimo quotidiano, è Filippo Facci a occuparsi della trista vicenda ricordando l'elenco infinito delle assurde indennità di cui godono i dipendenti del teatro romano (ma non solo loro, e infatti tutti i teatri lirici, con rare e lodevoli eccezioni, sono a livelli di insostenibilità economica) : di lingua ( succede che qualche opera non sia italiana e tocchi cantarla nelle lingua originale, poverini), di conservazione del frac, di suonare all'aperto (e ci si può raffreddare), di video (la privacy...), di spostamento (se gli tocca andare da via del Viminale fino a Caracalla...), di arma ( pesa cantare portando le armi di scena)... Famosa fu l'indennità "speciale" pretesa e ottenuta dai coristi della Scala, nel 2012, perché era stato loro richiesto di dondolare la testa mentre cantavano...
E questi dovrebbero essere artisti...
Paolo Conti si sofferma sugli incidenti di percorso toccati a Muti, con l'invasione del proprio camerino, con improvvisi scioperi durante le prove, con la diserzione degli orchestrali, tra cui il primo violino, in occasione di una tournee in Giappone...
Questa è gente folle, e il fatto che siano la minoranza conta poco, visto che basta per boicottare spettacoli e piani di risanamento.
Ebbene, che chiuda il Teatro dell'Opera, saranno solo soldi pubblici risparmiati. 
A meno che non faccia prima Renzi con la sua riforma del lavoro e la modifica dell'articolo 18, in modo che questa gente possa essere licenziata, anche con dolorosi indennizzi : alla fine si risparmierebbe sempre, e nessun giudice stolto potrebbe mettere bocca e reintegrarli. 
Mi viene però un dubbio : questa gente fa parte del blindatissimo e intoccabile mondo dei dipendenti pubblici ???
Penso e mi auguro di no. 
Il direttore del ministero dei Beni Culturali, Salvo Nastasi, dice che "bisogna affrontare in maniera definitiva il ruolo dei sindacati nei teatri lirici".
E Facci chiosa spietato :
"Affrontare come ? Col napalm ? Con un trasferimento coatto in Corea ? Un micidiale tweet di Renzi ? Nei teatri italiani sono rimasti giusto i teatranti, ma la recita è finita. Il pubblico (quello pagante) ha già salutato. Fossero state delle fabbrihe, dei teatri, senza l'intervento dello Stato, non esisterebbero più neanche gli edifici".




Non date più Soldi all’Opera di Roma
di PAOLO CONTI



Il Teatro dell’Opera di Roma, cioè l’antico Costanzi. Ovvero il luogo in cui il sindacalismo capovolge con arroganza, e spesso con violenza, qualsiasi elementare regola: una minoranza che impone il proprio diritto di sciopero e nega alla maggioranza il proprio, di diritto: voler lavorare. II Teatro Costanzi, l’unica realtà musicale al mondo capace di disgustare un protagonista della scena internazionale come Riccardo Muti, prima nominato direttore artistico a vita e poi costretto a subire rabbiose rivendicazioni, autentici assalti personali tanto umilianti quanto impensabili in qualsiasi altro teatro d’opera al mondo. Scena iniziale, siamo a febbraio nelle convulse ore della prima di Manon Lescaut, poi fortunosamente rappresentata. Muti è nel camerino, una dozzina di musicisti aderenti alla Fials e alla Cgil entrano urlando e senza chiedere alcun permesso: «Deve dire se lei sta con noi o contro di noi!». Non è il film di Fellini sulla Prova d’Orchestra ma pura realtà. Ancora, sempre nei giorni della Manon Lescaut . Alla prova anti generale l’orchestra proclama un’assemblea selvaggia e improvvisa. Muti attende il ritorno dei musicisti. Un’attesa di quasi mezz’ora. Poi gli orchestrali tornano. I macchinisti, dal palcoscenico, protestano gridando: «Vergognatevi, tornate a lavorare» . Altro che la necessaria concentrazione per una prova delicata e importante. E infine l’oltraggio dei venti musicisti, incluso il primo violino, che si rifiutano di seguire Muti nella tournée in Giappone tre mesi fa. In qualsiasi altro teatro al mondo, i Maestri dell’orchestra avrebbero fatto a gara per il privilegio di partire con lui e rappresentare una capitale in un importante Paese così importante, per di più pieno di melomani appassionati.
Muti lascia Roma e col suo gesto svela ciò che è già chiarissimo. Un teatro lirico capitolino, certo non tra i più stimati nel mondo, che riesce a perdere un vero Maestro per di più ribaltando qualsiasi regola democratica: la minoranza che ha la meglio sulla maggioranza. Trenta-quaranta orchestrali che bloccano il lavoro di cinquecento persone, proclamando scioperi che poi impediscono il compenso alla maggioranza che li ha subiti.
Carlo Fuortes, che dal 2003 amministra con successo l’Auditorium Parco della Musica progettato da Renzo Piano, vive una condizione schizofrenica da quando, nel dicembre 2013, è stato chiamato con urgenza dal sindaco Ignazio Marino a governare l’Opera. All’Auditorium convive con l’Orchestra di Santa Cecilia che rispetta impegni e programmi, mai si sognerebbe di organizzare incursioni nel camerino di un grande direttore e soprattutto non proclama assemblee che mostrano una concezione dittatoriale del sindacalismo. Dall’altra si ritrova nel caos dell’Opera, sovvenzionato con ben 18 milioni dalle disastrate casse del Campidoglio, dove qualsiasi accordo viene negato il giorno dopo mostrando una concezione distruttiva della rappresentanza sindacale. C’è infatti da chiedersi se Fuortes non avesse davvero ragione già a luglio quando parlò di una possibile chiusura e liquidazione dell’Opera: Fials e parte della Cgil avevano rimesso in discussione l’intesa, appena raggiunta, sul piano industriale. La stessa idea di sindacalismo distruttivo è tornata pochi giorni fa, quando la solita minoranza ha boicottato il referendum sul piano industriale, dichiarandolo illegale. Perché l’assurdo è che Muti viene costretto ad andarsene mentre l’Opera sta riuscendo faticosamente a risanare il proprio devastato bilancio grazie alla legge voluta, alla fine del 2013, dall’allora ministro Massimo Bray.
Ora l’Opera resta senza Muti ma è costretta a tenersi la minoranza antidemocratica che paralizza il teatro. Le domande si accumulano: il Teatro dell’Opera di Roma è irriformabile? Chi e come potrà mai, in simili condizioni, proporre un nuovo progetto di rilancio dopo il caso Muti? È giusto che la collettività continui a sostenere economicamente una struttura incapace non di imitare modelli europei ma semplicemente di comportarsi come l’orchestra di Santa Cecilia? Il ministro Dario Franceschini e il sindaco Ignazio Marino hanno materia sulla quale riflettere, dopo la vicenda Muti. Anzi, dopo il vero e proprio scandalo di questo addio.

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