Il caso Rapotez La giustizia e il vecchio garibaldino - di G. ANTONIO STELLA
Alla faccia di tutte le cornacchie togate, per il quarantesimo anno consecutivo, il signor Luciano Rapotez e' riuscito anche nel 1996 a fare alla giustizia italiana un diabolico dispetto: e' rimasto vivo. Oddio, ogni volta che minaccia di piovere sente uno scricchiolio alle ginocchia e come si leva il borino avverte ancora alla schiena le fitte lancinanti lasciate dai calci dei torturatori. Ma fatte le somme e' in buona salute e conta di restarci a lungo: "Devo tener duro fino al Duemila, non posso farmi fregare adesso". Ormai e' un duello: da una parte lui, penalizzato dagli anni, che ormai sono 77 e pesano anche sulle spalle di un garibaldino indomito, dall' altra la macchina giudiziaria italiana, che avendo torto marcio cerca di averla vinta usando i piu' ignobili degli alleati: i rinvii, i silenzi, gli intoppi, gli inghippi, la muffa depositata sulle scartoffie... Tutto, pur di non riconoscere a un vecchio coi capelli bianchi e le ossa peste quello cui ha diritto. E cioe' un risarcimento, fosse pure un miserabile biglietto da mille lire, per essere stato arrestato, torturato e sbattuto per tre anni in carcere prima di venire finalmente assolto dall' accusa di aver commesso a Trieste un orribile delitto. Luciano Rapotez aveva 36 anni, una moglie, due figli e un buon lavoro, la sera che lo andarono a prendere sotto casa, alla fine di gennaio del 1955. Gli sibilarono nell' orecchio: scappa, corri, vai... "Capii solo piu' tardi: volevano spararmi col trucco della ley de fuga". Lo portarono in Questura, gli dissero che un pentito (ti pareva...) l' accusava d' aver partecipato a guerra finita, lui, ex partigiano della Brigate Garibaldi, alla sanguinosa rapina di San Bartolomeo di Muggia, costata la vita a un orefice, a sua moglie e a una governante. Nego' , nego' , nego' disperatamente. E per tre giorni e tre notti lo pestarono a sangue, gli spensero le sigarette sulla pelle, lo stesero sulla schiena di traverso a due sedie piegandolo come un arco, gli bollirono il cervello lasciandolo per ore e ore sotto una lampadina incandescente, inscenarono un finto suicidio: "Ero svenuto, mi risvegliai che gia' mi avevano allacciato la cravatta come un cappio: alla fine avrei confessato anche l' uccisione di Giulio Cesare...". Confesso' . Perse la moglie che se ne ando' rifiutandolo come un mostro, perse i figli portati via dalla donna, perse il lavoro, la casa, tutto. Resto' in carcere, vittima di un pugno di poliziotti che volevano dare un capro espiatorio in pasto al rancore di Trieste verso i titini e i loro alleati rossi, per trentuno mesi. Finche' arrivo' il processo: assolto. Ma ormai la sua vita era rovinata. A pezzi. Emigro' in Germania, ci resto' vent' anni. Ogni tanto scriveva a presidenti, ministri, deputati, senatori: voglio giustizia. Risposte standard: non esiste una legge per risarcire le vittime degli errori giudiziari. Arrivera' solo nel 1985. Ma quando Luciano Rapotez, reso ormai celebre da un libro - denuncia di Giorgio Medail e Alberto Bertuzzi, vi fara' ricorso gli verra' risposto: spiacenti, i reati di quei poliziotti sono in prescrizione. Una beffa. Inutile anche il ricorso, tentato fin dal ' 79, all' articolo 28 della Costituzione, per il quale la responsabilita' civile delle violazioni dei diritti commesse da pubblici ufficiali e' estesa allo Stato. "Geniale", nella sua protervia, la sentenza di condanna contro l' ex partigiano al pagamento delle spese processuali: nessun risarcimento, perche' se anche ci fossero state delle torture, "tali atti non avrebbero potuto imputarsi alla pubblica amministrazione perche' non rivolti ai fini istituzionali di uno Stato democratico". Giovanni Maria Flick, qualche mese fa, lo ha bollato come un "orrore giudiziario". E prima di lui avevano manifestato la loro indignazione un rosario di ministri della Giustizia a partire da Aldo Moro. Il "caso Rapotez", pero' , e' ancora li' . Impantanato, anonimo fra gli anonimi, in mezzo ai tre milioni e 300 mila processi civili pendenti. Sono passati quarant' anni dall' assoluzione, diciotto dalla prima causa intentata contro il Viminale, dodici dal varo della legge sul risarcimento alle vittime giudiziarie e il "caso Rapotez" e' ancora li' . Inchiodato ai suoi numeri umilianti: 25 passaggi giudiziari di vario genere, decine di rinvii, 44 giudici inutilmente coinvolti via via nella faccenda. Dicono le statistiche che mediamente per una sentenza di primo grado in materia di successione occorre aspettare 2.491 giorni, di divisione d' eredita' 2.722, di procedura fallimentare 2.455. Ti pare che la Giustizia abbia voglia di scomodarsi per un vecchio garibaldino? Il ricorso in Cassazione, l' ultima speranza di Luciano Rapotez, e' stato depositato ai primi di febbraio del 1993. Quattro anni fa. Da allora, nessuno ne ha piu' saputo niente.
Stella Gian Antonio
E qualcuno dirà....."ehhhh, ma mica si può fare di tutta l'erba un fascio !" e io gli risponderò " ma l'anima de li mejo....."
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