domenica 22 gennaio 2012

CORAGGIO SUPER MARIO: L'ARTICOLO 18 VA ABROGATO. SENZA SE E SENZA MA.


Certo scrivere sui giornali è diverso dal governare, così come si sa che insegnare è molto meno arduo dal FARE. Forse così si spiega come il Monti bocconiano si sia così allontanato dalla retta via che i suoi Colleghi della prestigiosa università meneghina continuano speranzosi a rammentargli dalla prima pagina del Corriere della Sera. Parlo dei professori ed editorialisti Alesina e Giavazzi che , ben contenti di aver visto salire il loro ex rettore alle soglie di Palazzo Chigi, da tempo mostrano una delusione crescente per la timidezza del Premier che pure, da tecnico, doveva avere più coraggio nel prendere i famosi provvedimenti impopolari.
Certo c'è la "pace sociale" da preservare...però non sono sicuro che quello sia l'obiettivo primo del Premier. Come si vede bene nella divertente vignetta di Giannelli , sono tante le categorie scontenate dal buon Monti ....centinaia di migliaia di persone....i banchieri sono molti meno...eppure....
Vabbé le liberalizzazioni sono state così così, si poteva e doveva fare meglio...chissà, forse si farà in seguito.
Ma la prova del NOVE vera per la crescita è la riforma del LAVORO.
E' qui che si fa l?Italia o si muore Mario!!
Tante sono le cose da fare, e francamente poche se ne vedono....(poche non vuol dire nessuna, e i miei amici montiani ripeteranno che il meglio è nemico del bene....).
Il LAVORO in Italia avrebbe bisogno di:
1) Meno TASSE sulle imprese, sia dirette che indirette (balzelli e adempimenti a non finire....poco meno di un centinaio ne sono stati contati in un anno!!!)
2) Meno contributi per i lavoratori (quindi maggiori soldi a loro e meno esborsi del datore di lavoro)
3) Una giustizia civile che funzioni (sentenze veloci ed esecutivà effettiva delle stesse)
4) Meno burocrazia (sembra un mantra....ma questa parolina costa 80 miliardi l'anno!!!!)
5)  Pagamenti entro 60 giorni dalle fatture, come prescrive la UE (ma questo nel decretone non si è potuto mettere perché gli 80 e passa miliardi per pagare le imprese creditrici della Pubblica Amministrazione NON ci SONO. VERGOGNA!!!! ).
6) La famosa riforma del contratto di lavoro, con l'eliminazione della illicenziabilità dei lavoratori con contratto a tempo indeterminato.

NESSUNA di queste cose non solo NON ha visto la luce ma è lecito dubitare che mai la vedranno !.
In ogni caso Alesina e Giavazzi escono coraggiosamente allo scoperto e prendono di petto la delicata questione dell'art. 18 . Cosa dice questo benedetto articolo che fa parte dello statuto dei Lavoratori del 1970 ( una vita fa...)? Sostanzialmente che il lavoratore può essere kicenziato solo per Giusta Causa o Giustificato Motivo . Se non ricorrono questi due elementi, il datore di lavoro sarà tenuto alla riassunzione o, in difetto, comunque al pagamento degli stipendi. A leggerlo, sembra giusto. Poi la Giusta Causa è diventata qualcosa di molto simile alla INDEGNITA' che sola giustifica la revoca di una DONAZIONE. Se doni qualcosa a qualcuno, questa disposizione è irrevocabile a meno che il donatario non si macchi di una colpa INDEGNA verso di te. Per colpa indegna s'intende la commissione di un reato GRAVE. Praticamente, solo in caso di tentato omicidio.....ECCO, la giusta causa dell'articolo 18 è simile : solo se attenti alla vita del "padrone" si può immaginare che un giudice del lavoro riconosca la legittimità del licenziamento. Esagero, ma non più di tanto.
Ugualmente per il giustificato motivo....il datore che ritiene, per motivi di ristrutturazione o di crisi aziendale, di non poter tenere al lavoro tutti i dipendenti, dovrà passare sotto le forche caudine degli scioperi, delle vertenze,   tra l'altro non potendo scegliere LUI gli elementi che ritiene per l'Azienda meno utili, dovendo passare anche lì per il placet sindacale o giudiziario. Un calvario che dura mesi...e intanto i costi corrono.
Siccome sto Golgota tocca alle sole imprese  con più di 15 dipendenti, ecco il proliferare di piccolissime aziende e/o di scatole cinesi...collegate ma separate, per cercare di non varcare mai la fatidica soglia. Le aziende medio grandi, risolvono non assumendo più persone a tempo indeterminato, condannando i giovani ad un eterna instabilità.
Finora chi ha toccato il filo dell'articolo 18 ci ha lasciato le penne, e anche la Fornero ha subito capito di che materia scottante si tratti.
Alesina e Giavazzi ci tornano su alla vigilia della riapertura del "tavolo".
Buona Lettura

Con il pacchetto di liberalizzazioni approvato venerdì scorso, il governo Monti ha fatto in due mesi ciò che i precedenti governi non avevano fatto dall’introduzione dell’euro. Al di là dei singoli provvedimenti, che vanno tutti nella giusta direzione, la cosa forse più importante è il messaggio politico che ne esce. Non è vero che «in Italia non si può fare»; non è vero che l’Italia è bloccata dalle corporazioni. In queste ore il governo viene attaccato da ogni parte: nelle strade, nelle telefonate dei capi delle categorie, che in piazza non vanno ma usano canali più occulti, e da domani anche in Parlamento. Non deve cedere, anche se venerdì qualche pezzo per strada si è perduto.


Ora però arriva un passo forse ancor più difficile: la riforma del mercato del lavoro. Al centro c’è una questione di equità fra padri e figli. E di equità tra cittadini protetti dai sindacati e cittadini coinvolti nelle liberalizzazioni. Una questione che il ministro Fornero—ricordando una frase di Luciano Lama, il leader della Cgil negli anni 70 — ha colto perfettamente. Riflettendo sul ruolo del sindacato in quel periodo, e quindi sui criteri che ispirarono la legislazione sul lavoro tuttora in vigore, Lama disse: «Noi, purtroppo, in un certo senso, abbiamo vinto contro i nostri figli». E non vale l’argomento che oggi i padri aiutano i figli all’interno della famiglia. Questo è vero, ma la famiglia non deve diventare un’istituzione che, lo voglia o no, è costretta a sostituirsi a ciò che dovrebbero fare lo Stato e il mercato. La riforma dei contratti di lavoro deve liberare i giovani da una dipendenza forzata dai loro padri e dalle loro madri.
Nei quindici anni passati il mercato del lavoro italiano è diventato molto più flessibile: il risultato, con buona pace di chi pensa che più flessibilità significhi più disoccupazione, è che (almeno fino all’inizio della crisi, che comunque passerà) molte più persone lavorano. Il guaio è che la maggior flessibilità è stata ottenuta imponendo un costo elevato ai giovani, mentre i lavoratori più anziani continuavano ad essere protetti da contratti a tempo indeterminato. E, se occupati in imprese con più di quindici dipendenti (ecco un altro fattore di iniquità), protetti anche dall’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori che ne sancisce l’illicenziabilità per motivi economici. E se poi la loro azienda è in difficoltà li soccorre la cassa integrazione, un istituto sconosciuto alla gran maggioranza dei giovani.
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Per loro il precariato non è una breve parentesi nel percorso verso un lavoro stabile, è una «trappola»: nemmeno uno su tre riesce a passare a un contratto a tempo indeterminato. Il motivo è che, per un’impresa, passare un lavoratore dalla precarietà ad un contratto a tempo indeterminato significa renderlo illicenziabile, a causa appunto dell’articolo 18, e questo comporta un rischio troppo elevato per l’impresa stessa. Quindi i giovani rimangono precari troppo a lungo, talvolta a vita. E quando arriveranno alla pensione i pochi contributi saltuariamente versati non saranno sufficienti. Non solo, ma un’impresa non investe nella formazione di un lavoratore che dopo pochi mesi perderà: quindi la produttività dei giovani precari rimane bassa, non imparano nulla e più l’età avanza meno diventano impiegabili. È un dramma non solo per i giovani ma per la produttività del Paese. Per abbattere questo muro c’è una sola via: eliminare l’articolo 18. Sbaglia chi ripete che non è una battaglia che valga la pena di combattere. È una battaglia fondamentale.
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Questo significa abolire l’articolo 18. Si obietta che oggi, nel mezzo di una recessione, eliminare l’articolo 18 significherebbe consentire alle imprese licenziamenti indiscriminati. È vero il contrario. In un momento di grande incertezza, come quello che stiamo attraversando, gli imprenditori sono restii ad assumere con l’inflessibilità dell’articolo 18 proprio perché sono insicuri sul futuro della loro azienda. Quindi è proprio in un momento difficile che l’articolo 18 preoccupa gli imprenditori. Quando tutto va bene e si è ottimisti, assumere per la vita è facile per tutti.
Ma anche alle imprese dev’essere chiesto un contributo. A fronte dell’abolizione dell’articolo 18 devono essere disposte a pagare una quota dei sussidi di disoccupazione. E questo non tanto per alleggerire l’onere a carico dell’Inps, quanto soprattutto perché in questo modo un’impresa ci penserà bene prima di licenziare un lavoratore, e lo farà solo se davvero è convinta che la domanda per i suoi prodotti rimarrà bassa a lungo. Una possibilità è quanto prevede la proposta di legge presentata dal senatore Pietro Ichino. Il sussidio del primo anno potrebbe rimanere, come già previsto, quasi interamente a carico dell’Inps. Questo sussidio, che oggi raggiunge l’80% della retribuzione di base, potrebbe essere integrato ponendo un ulteriore 10% a carico dell’impresa. Il secondo anno, quando viene meno il sussidio pubblico, potrebbe essere interamente a carico dell’impresa, con una copertura, ad esempio, del 70%. Questa scenderebbe il terzo anno con un onere suddiviso fra Inps e impresa. Ovviamente questo richiederebbe che la cassa integrazione fosse riservata ai soli casi di caduta temporanea degli ordini, cinque o sei mesi, non di più. Oltre questo periodo deve intervenire un moderno sistema di sussidi temporanei, decrescenti nel tempo e accompagnati da attività di riqualificazione dei lavoratori. Non stiamo inventando nulla di originale: piu o meno così funziona il welfare in quasi tutti i Paesi industriali tranne l’Italia e pochi altri.
Le imprese non dovrebbero esser obbligate ad aderire al nuovo sistema: quelle che accettano di contribuire al finanziamento dei sussidi avrebbero accesso ai nuovi contratti non protetti dall’articolo 18. Le altre possono rimanere nel vecchio regime. Ma al di là degli aspetti tecnici, un punto è cruciale. Deve esserci un unico contratto per tutti e l’articolo 18 va abolito. Solo così si abbatte il muro che ha trasformato i giovani nei paria del mercato del lavoro. Accettare compromessi su questi due punti significa varare una riforma inutile. Fare una riforma parziale è peggio che non far nulla perché si darebbe l’impressione di aver risolto un problema senza averlo fatto, perdendo così un’occasione forse irripetibile.

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