mercoledì 22 febbraio 2012

IL PAESE PIU' CONSERVATORE DEL MONDO, SINDACATI IN PRIMIS

Dario Di Vico l'ho visto una volta in tv, a MATRIX, una puntata in cui c'erano anche Giannino, Befera...e mi fece una piacevole impressione : persona dal ragionamento chiaro, porto in modo NON assertivo, non ideologico.
Questa sensazione l'ho avuta confermata nei suoi articoli sul Corriere, dove leggo spesso non solo le sue opinioni, ma anche interventi di "ritorno", cioè quando sul tema da lui trattato coglie, nei giorni successivi,  interventi e/o contributi "diversi" che lui riporta in modo aperto. Lodevolissimo e raro.
Sul tema delle riforme il suo approccio è questo.
Vanno Fatte, e devono essere VERE. Nel dire la sua, Dario DI Vico, come detto, non lesina spazio e commenti e osservazioni critiche. Accetta il confronto , purché non si perda di vista l'obiettivo.
Lo ha fatto per le liberalizzazioni ( e continua a farlo, visto che il decreto deve essere convertito in Legge) e lo fa per la riforma del Lavoro.
Molto bello, ancorché preoccupato, il suo intervento odierno sul conservatorismo generale sulla delicata e fondamentale materia.
Buona Lettura


Due giorni fa il ministro Elsa Fornero al presidente dell'Associazione bancaria Giuseppe Mussari, che le chiedeva maggiori ragguagli sulle intenzioni del governo in materia di flessibilità in uscita, ha risposto come si fa con uno studente: «Lei vorrebbe sapere subito il voto che prenderà alla fine». In questo episodio, o se preferite in questa gag, sono racchiuse molte delle contraddizioni di una trattativa che non sta facendo passi avanti. Il presidente del Consiglio ribadisce in tutte le sedi italiane ed estere la sua ferma determinazione a procedere anche senza l'accordo dei sindacati, i ministri raccontano alle parti sociali i capitoli sui quali vogliono intervenire (ma non le vere soluzioni che hanno in testa), industriali e confederali si guardano attoniti e quando è il loro turno al microfono balbettano. È questo il quadro che ha fatto prendere al segretario del Pd, Pier Luigi Bersani, una decisione difficile. Il cartellino giallo che ieri ha sventolato davanti a Mario Monti serve a saldare un fronte neo-laburista tra la sinistra e le organizzazioni sindacali (e non più la sola Cgil), ma assegna di nuovo al Pd la patente di partito della conservazione e dell'immobilismo. Bersani non si sarebbe sicuramente mosso se non avesse percepito il profondo disagio e ascoltato le richieste di aiuto della rappresentanza sociale. Ma sa che, se sbaglia, il conto lo pagherà di persona.
La verità è che la politica è dovuta tornare in gioco perché si assiste a una sorta di rassegnazione che ha pericolosamente contagiato i vertici della rappresentanza, sia essa d'impresa o del lavoro. Al governo che indica, magari in maniera didascalica, la necessità di una profonda revisione delle distorsioni di un welfare imperfetto, la risposta che arriva dalle parti sociali assomiglia alla pigra difesa dello status quo. Come se piegate dai colpi della Grande Crisi le rappresentanze avessero ceduto la primogenitura del cambiamento. 

La verità è che la politica è dovuta tornare in gioco perché si assiste a una sorta di rassegnazione che ha pericolosamente contagiato i vertici della rappresentanza, sia essa d'impresa o del lavoro. Al governo che indica, magari in maniera didascalica, la necessità di una profonda revisione delle distorsioni di un welfare imperfetto, la risposta che arriva dalle parti sociali assomiglia alla pigra difesa dello status quo. Come se piegate dai colpi della Grande Crisi le rappresentanze avessero ceduto la primogenitura del cambiamento. 
Una volta era dai convegni confindustriali o da qualche elaborazione sindacale eterodossa che venivano le provocazioni più lungimiranti, le sfide più intriganti per affrontare le contraddizioni dello sviluppo. In qualche caso il passo si rivelava troppo più lungo della gamba, ma la tensione a innovare era sempre fortissima, costituiva l'identità stessa di quel lavoro. Oggi no, industriali e sindacati sono dei giocatori di shanghai che hanno paura di toccare i bastoncini e di far venir giù tutto. E così facendo si consegnano all'inerzia, riconoscono l'ingiustizia di molti dei meccanismi in vigore, ma hanno paura di disegnarne di più equi. Qualcuno di loro, più consapevole di ciò che sta avvenendo, ma anche più cinico, pensa in questo modo di riuscire a non sporcarsi le mani, di salvarsi l'anima e alle brutte di lasciar fare al premier Mario Monti. «Tanto con lo spread che scende - si sente dire - lui avrebbe sempre e comunque ragione. E noi sempre e comunque torto». Qualcun altro, vista la difficoltà, ha però preferito cercare un partito amico e bussare a casa Bersani.
Si consuma così tra pigrizie e ultimatum l'ennesimo paradosso. Mentre tutto cambia e gli italiani si chiedono con frequenza quotidiana che fine farà il loro Paese e persino la bistrattata politica si interroga da dove/come ripartire, la rappresentanza appare immobile nelle certezze esibite. In fondo è rimasta la stessa dei tempi della Prima Repubblica, i soggetti protagonisti sono ancora quelli delle epiche battaglie sulla scala mobile e si ripresentano all'appuntamento con il nuovo tabù, l'articolo 18, come se niente fosse successo nel frattempo, da Bettino Craxi a Monti. 
Sia chiaro, nessuno dimentica i meriti dei corpi intermedi e tanto meno chiede loro di sparire dalla scena: le società complesse hanno bisogno di infrastrutture di coesione e persino i conservatori inglesi che una volta sostenevano con la Lady di ferro «la società non esiste», oggi la propugnano in taglia «big». Ma è pur vero che la rappresentanza italiana in un quarto di secolo abbondante non è stata nemmeno capace di concepire un'autoriforma degna di questo nome e rischia di consegnarsi al futuro con le mani legate. Per salvare il nostro welfare, però, e per evitare di passare alla storia come la generazione del default, ci tocca riprendere confidenza con il verbo «cambiare». 
E allora, prima di rassegnarsi, industriali e sindacati dovrebbero fare in fondo il loro mestiere, partire dai problemi e individuare delle soluzioni coraggiose. Li staremo sicuramente ad ascoltare. Perché se, come dicono i leader sindacali in privato, «non si può lasciare al solo Monti il compito di disegnare l'Italia di domani», il modo per evitarlo è solo uno: mettersi in gioco. Non è stagione per leadership stanche.
 

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