martedì 14 febbraio 2012

NON DARE PER SCONTATA LA SOPRAVVIVENZA DEMOCRATICA

Molto cupo l'articolo del professor Angelo Panebianco nell'editoriale odierno del Corriere della Sera.

La riflessione da cui parte, il rapporto tra Politica e Economia, che si concilia nei periodi di espansione e conflligge in quelli di crisi, mi ha fatto pensare a quelli che ogni individuo deve affrontare in alcuni passaggi della vita tra la parte razionale di sé e quella istintiva (che Freud chiamò "Inconscio"). Fino a quando una persona vive in sufficiente armonia tra queste sue parti di sé si ha una decente qualità di vita, direi anzi buona.
Quando invece ciò che si pensa di dover fare, NON si riesce a farlo perché dentro di noi sentiamo qualcosa che si OPPONE, allora i cavoli si fanno amarissimi.
Panebianco immagina appunto questo conflitto. Prendiamo l'esempio del giorno, la Grecia. I greci prima dell'inizio della crisi nel 2008, erano tra le giovani economie rampanti...con un pil che cresceva a ritmi di oltre il 5%. A nessuno allora sembrò strano. Del resto è avvenuto, sia pure per ragioni diverse, anche per l'Irlanda e la Spagna, oggi entrambe in grande difficoltà ancorché non (ancora ?) nelle condizioni elleniche.
Adesso si scopre che quella crescita fu drogata dalla spesa pubblica, con una folle marea di assunzioni nel pubblico impiego (su 5.000.000 di lavoratori , 750.000 in Grecia sono dipendenti pubblici....quasi 1 su 6 !!!! ), con le pensioni a 50 anni, con un'evasione fiscale pari, pare al volume delle entrate (e la pressione in quel momento era tra le più basse d'Europa). Insomma un popolo molto, troppo "allegro", da questi numeri.
Ero ancora ragazzo quando m'impressi bene a mente un principio molto semplice: non riuscire ad andare avanti è brutto, ma ci si può rassegnare, tornare indietro è quasi insopportabile.
E i greci adesso fanno resistenza a tornare poveri (magari dignitosamente), come erano un po' sempre stati fino ad una decina di anni fa.
Peraltro, se non ci sono soldi per pagare gli stipendi e le pensioni (baby comprese ), come si fa?
E' qui che interviene la politica, cercando di attenuare il rigore delle leggi economiche per consentire un ridimensionamento graduale. E questo sarebbe virtuoso. Se invece, per ragioni di conservazione del consenso, ci si limita a urlare alla luna, a maledire i tedeschi e l'europa matrigna, allora sono guai seri. Ai quali non è detto che la democrazia sopravviva.
Per compensare il pessimismo lucido del professore, riposto l'articolo scritto da Fugnoli la settimana scorsa (http://ultimocamerlengo.blogspot.com/2012/02/stipendi-troppo-alti-qualcuno-se-nera.html ), molto più possibilista...in fondo oggi è festa no?
Buona Lettura


CRISI DEL DEBITO ED EFFETTI POLITICI

La democrazia può anche fallire
Le crisi obbligano a bagni di umiltà. Con la più grave crisi dai tempi della Grande Depressione si è dissolta, almeno temporaneamente, l'arroganza intellettuale con cui in tanti (esperti, governi, autorità internazionali), fino a ieri, spiegavano il mondo e proponevano le loro infallibili ricette e previsioni sul futuro. Le crisi svelano ciò che resta di solito celato ma è vero anche in tempi più tranquilli: i fattori in gioco, fra loro interagenti, sono troppo numerosi perché siano possibili spiegazioni «onnicomprensive» nonché affidabili previsioni sul futuro stato del mondo.

Soprattutto, restano imprevedibili gli esiti delle continue influenze reciproche fra politica e economia. Ciò non toglie però che se non si considerano quelle influenze reciproche si capisce poco o nulla della crisi in corso. Si pensi al viaggio di Mario Monti negli Stati Uniti. Il successo che il nostro primo ministro ha ottenuto nei suoi incontri col mondo politico e finanziario americano è stato forse un balsamo per il nostro (depresso) umore nazionale, ma è un fatto che dietro a quel successo c'è la paura americana (e la paura di Obama alla vigilia di elezioni presidenziali incerte) per l'evoluzione futura della crisi dell'euro, una crisi i cui esiti non dipendono «solo» dalla politica, dalle decisioni dei governi, ma «anche» dalla politica. Si appoggia Monti sperando che ciò serva a influenzare positivamente, oltre che il giudizio dei mercati, le scelte future dei governi, tedesco in testa. Nessuno sa se e come ciò avverrà.

Oppure prendiamo il caso della Grecia, ormai preda di convulsioni violente. All'inizio della crisi, l'incendio greco poteva essere spento facilmente. Non lo fu per un veto tedesco, frutto, non di un capriccio di Angela Merkel, ma dell'orientamento dominante nella società tedesca. I tedeschi non volevano pagare il prezzo per l'errore, di cui erano corresponsabili, commesso quando la Grecia, senza averne i requisiti, fu ammessa nell'Europa monetaria. Oggi la Grecia è con le spalle al muro. Il suo probabilissimo fallimento promette conseguenze pesanti (di cui la Merkel ora si preoccupa) per l'Unione e per la stessa sostenibilità del sistema finanziario. Conseguenze ancor più pesanti riguardano la Grecia. Come tutto il resto, anche le rivoluzioni sono imprevedibili. Però, nessuno faccia oh!, nessuno assuma un'aria stupefatta, se in Grecia i sommovimenti raggiungeranno una intensità tale da minacciare le istituzioni democratiche.

Nelle analisi dedicate alla evoluzione della crisi economico-finanziaria, è spesso poco soddisfacente, di rado illuminante, il trattamento dei fattori politici. Sovente, la politica è presa in considerazione più come un fastidioso ostacolo, fonte di ogni irrazionalità, che come una condizione da trattare con la stessa freddezza con cui si valutano le grandezze macro-economiche e i loro cambiamenti. In genere, si ragiona in questo modo: prima si identificano le cose che andrebbero fatte se la «razionalità» prevalesse; poi si aggiunge che, malauguratamente, fattori politici, come, ad esempio, le imminenti elezioni in vari Paesi, frenano i governanti, impediscono loro di fare le scelte razionalmente corrette. È un modo sbagliato di ragionare.
La politica non è necessariamente un ambito dell'agire umano più irrazionale dell'economia. Semplicemente, opera secondo ragioni e logiche diverse. Se nelle fasi di espansione la ragion politica (che ha di mira il consenso) e la ragione economica possono sostenersi a vicenda, nelle fasi di crisi entrano facilmente in conflitto.

Si aggiunga la specificità europea: con la moneta unica, a cui non ha fatto seguito l'integrazione politica, le regole della democrazia (l'unica che c'è, quella nazionale) e le regole imposte dall'Unione monetaria, sono entrate, a causa della crisi, in rotta di collisione. Il che spiega anche il fatto che i rapporti intergovernativi abbiano oscurato il ruolo (con la sola eccezione della Bce) delle istituzioni europee sovranazionali. E poiché, nonostante certa facile retorica europeista, gli elettori europei restano, a schiacciante maggioranza, avvinghiati come l'edera alle loro istituzioni democratiche nazionali (il che è peraltro comprensibile: più è vicino il potere del governo, più l'elettore può sperare, o illudersi, di influenzarlo), il dilemma appare, e forse è, insolubile.

Il tutto aggravato dalla questione tedesca. In una lucida analisi Lucrezia Reichlin (sul Corriere dell'8 febbraio) ha scritto che le nuove regole del fiscal compact imposte dalla Germania all'Europa sono espressione di una crescente incompatibilità: fra una Germania esportatrice, proiettata fuori dall'area euro, sempre meno dipendente dai mercati europei, e il resto d'Europa condannato a uno sviluppo anemico anche a causa dei drastici aggiustamenti di bilancio imposti dai tedeschi. Se l'analisi è corretta, se la divaricazione fra gli interessi della Germania e di tutti gli altri europei è destinata ad aumentare con crescenti costi per questi ultimi, si può immaginare che si verifichino, in un prossimo futuro, potenti reazioni antitedesche (e, quindi, anti-europee) in molti Paesi. E sarà la democrazia, il meccanismo elettorale, il veicolo di quelle reazioni. Cosa potrebbe restare a quel punto dell'Unione è difficile dire. Senza contare i prezzi che dovrebbero pagare le varie democrazie europee: non è prevedibile, infatti, la natura dei movimenti politici che potrebbero affermarsi. Sarebbe una vera beffa del destino se dalla crisi in corso uscissimo non solo con una Europa a pezzi ma anche con istituzioni democratiche (nazionali), in alcuni Paesi almeno, indebolite o compromesse.
Riflettere meglio sui rapporti fra politica e economia non garantisce che si trovino soluzioni ma è condizione necessaria per la ricerca, se c'è, di qualche via d'uscita.

Il mondo è un posto complicato e opaco la cui evoluzione è largamente imprevedibile. Non c'è bisogno di ingannare il pubblico lasciando credere che se ne conosca la direzione di marcia o le ricette giuste per guidarlo. Meglio riconoscere onestamente la limitatezza delle nostre conoscenze e la necessità di fare uso del poco che sappiamo con la saggezza consentita dalle circostanze.

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