giovedì 1 marzo 2012

CHI FA TACERE I CANNONI DI ASSAD?

Francamente lo stavo aspettando l'articolo dei Bernard Henri Levy , intellettuale francese, pare consigliere di Sarkozy sui problemi medio orientali, sicuramente uno che si è speso molto per la guerra contro Gheddafi.
Tanti gli articoli scritti a suo tempo per contestare e confutare le tesi dei sostenitori della real politik (fin qui non difficile sui media, non sono posizioni granché diffuse, ancorché spesso le più realistiche) ma soprattutto del pacifismo internazionale, quello per il quale le guerre non sono MAI giuste, contro chiunque si facciano.
Anche il nostro Pierluigi Battista si schierò apertamente contro Gheddafi, e anche lui si scontrò polemicamente contro i pacifisti storici e soprattutto quelli dell'ultima ora (cioè quelli di destra, che si scoprivano contro l'uso delle armi con una inversione a U spericolata su quanto sempre sostenuto in conflitti come l'Iraq e prima l'Afghanistan).
Personalmente, lo confesso, in queste cose entro in conflitto interiore. La primavera araba mi lasciava perplesso agli inizi, figuriamoci ora, dopo aver visto le forze "moderniste" , composte da giovani, donne, classe media istruita, soccombere e di brutto alla prova delle urne, che hanno visto nettamente prevalere gli schieramenti religioso islamici (quanto moderati, lo vedremo...). In Egitto quelli di piazza Tharir parlano di rivoluzione tradita...ma se provano a tornare a manifestare stavolta trovano polizia ed esercito meno tolleranti...in Libia le rappresaglie contro i "lealisti" e le tribù fedeli ai Gheddafi continuano, con l'occidente ben concentrato a guardare altrove. Tutto questo era prevedibile, ma si è detto che, intanto, c'è un dittatore di meno, e questo è un fatto.
Però, mentre in Libia si interveniva per evitare che Gheddafi punisse Bengasi la ribelle, in Siria cominciava la repressione contro le prime manifestazioni avverso il regime di Assad. Era il marzo 2011.
A metà marzo, sempre dello scorso anno, gli aerei francesi e inglesi intervenirono a salvaguardia della popolazione cirenaica e continuarono ad appoggiare i rivoltosi fino alla morte del Raiss, garantendo una vittoria che MAI, da soli, gli oppositori avrebbero ottenuto. Nel frattempo in Siria il dissenso si consolidava, e anche il numero delle vittime mietute dal regime tra di esso.
Il contrasto era STRIDENTE. In Libia si, in Siria no. Contro il dittatore Gheddafi si, contro il dittatore Assad no.
Io mi chiedevo come facessero Battista e Levi a TACERE di fronte a questa evidente IPOCRISIA.
Al già vice direttore del Corsera lo chiesi anche, ed ebbi la risposta : "una cosa alla volta".
Da qualche tempo il noto editorialista ha scritto più di un articolo denunciando l'inerzia di fronte alla repressione siriana.
Mancava  Levi. E io mi aspettavo che prima o poi qualcosa scrivesse su quanto accadeva in Siria....
Finalmente lo ha fatto. Ci ha messo un po', quasi un anno...8.000 civili morti dopo...
Però , sia pure in ritardo, il suo intervento è coerente, bisogna dirlo.
Nessuno gli darà retta, ma questo è un altro discorso.
Buona Lettura

È ora di fermare i cannoni di Assad 


Le nazioni civili non hanno più alibi
Il prossimo 19 marzo sarà passato un anno esatto da quando squadriglie di aerei francesi e poi, in un secondo tempo, inglesi, americani, arabi, salvarono Bengasi da una prevedibile distruzione.
Ebbene, stando così le cose, e se la comunità internazionale, non solo la Francia, non riprendono l'iniziativa, questo anniversario rischia di avere un cattivo odore di cenere e fallimento.
Infatti, oggi esiste una nuova Bengasi. C'è un'altra città, nella regione, che si trova nella medesima situazione in cui si trovava a suo tempo Bengasi. Per essere più precisi, in una situazione quasi peggiore, poiché i carri armati, collocati allo stesso modo, alla stessa distanza dalle popolazioni civili disarmate, stavolta sono passati, e da mesi, all'azione. Questa città è Homs. È la capitale siriana del dolore, dove si prendono di mira i giornalisti e si massacrano, indistintamente, i civili.
Il fatto è che quello che abbiamo attuato in Libia non lo attuiamo in Siria; gli stessi carri armati che i nostri piloti hanno inchiodato al suolo in Libia poche ore prima che si scatenassero entrando in azione, in Siria operano nella più totale impunità.
Certo, sappiamo che le situazioni non sono del tutto identiche. E nessuno può ignorare che la geografia del Paese, il fatto che non disponga della vasta zona d'appoggio che era la Cirenaica liberata, o il fatto che il Paese disponga di due alleati di peso che Gheddafi non aveva - Iran e Russia - rendono l'intervento complicato.
Ma c'è un momento in cui il troppo è troppo. C'è un momento in cui, di fronte alla carneficina, di fronte all'inezia degli 8.000 morti provocati dai carri armati di Bashar Al-Assad, di fronte alla lugubre farsa del referendum che si è preteso organizzare, oltre tutto, sotto i tiri dei cecchini e sotto le bombe, bisogna avere l'elementare dignità di dire basta. C'è un momento, sì, in cui una comunità internazionale, che ha votato con schiacciante maggioranza (137 voti a favore, il 16 febbraio, all'Assemblea generale delle Nazioni Unite) la condanna dell'assassino, non può più lasciarsi prendere in ostaggio, e lasciarsi paralizzare, da due Stati canaglia che, nella circostanza, sono la Cina e la Russia (davanti a una minaccia che, ripeto, era solo all'inizio della sua esecuzione, il presidente Sarkozy non aveva forse confidato ai rappresentanti del Consiglio nazionale di transizione libico - giunti il 10 marzo 2011 all'Eliseo a chiedergli un intervento - che avrebbe fatto di tutto, naturalmente, per ottenere l'avallo delle Nazioni Unite ma che, se per caso non l'avesse avuto, si sarebbe accontentato, vista l'urgenza, di una istanza di legittimità di formato più ridotto e si sarebbe appoggiato all'Unione Europea, alla Nato e alla Lega Araba?).
Infine, il pretesto della geografia, l'idea secondo cui un intervento in zona urbana sarebbe più problematico di un intervento nel deserto, è un'altra scusa che non regge: perché anche a Homs, come a Idlib o a Banias, ci sono carri armati collocati a pochi chilometri dalla città e quindi neutralizzabili; e soprattutto perché gli Amici della Siria hanno a disposizione una gamma di interventi che non sarebbero la semplice replica di quello che in Libia ha funzionato, ma si adatterebbero, necessariamente, al territorio.
Per esempio, possono - sulla scia di quanto ha proposto, la settimana scorsa, a Washington, il ministro degli Esteri del Qatar - instaurare perimetri di sicurezza, garantiti da una forza di mantenimento della pace araba, alle frontiere della Giordania, della Turchia e, forse, del Libano. Possono - sulla scia di quanto ha avanzato, nello stesso periodo, il ministro degli Esteri turco - imporre nel cuore del Paese, vere e proprie no kill zone protette da elementi dell'esercito siriano libero che verrebbero dotati di armi difensive. Possono, al di fuori di queste zone, far passare ai siriani liberi le armi necessarie per metterli in condizione di distruggere essi stessi i pezzi di artiglieria che l'esercito di Damasco ha posizionato vicino alle scuole o agli ospedali. Possono decidere di creare zone, nel cielo, vietate agli elicotteri e agli aerei della morte e, su terra, ai convogli blindati che trasportano truppe e materiale. Possono, con l'appoggio di un esercito turco che, davanti alla minaccia iraniana, ha da tempo scelto il suo campo e dispone delle due basi Nato di Smirne e Adana-Incirlik, badare al rispetto di tali zone e, se necessario, imporlo.
Né sarebbe inutile che gli stessi Amici della Siria suggerissero ai «fratelli» egiziani di chiudere lo stretto di Suez a tutte le navi iraniane come quella che, ancora la settimana scorsa, scaricava armi e istruttori sulla base russa di Tartus.
È rischioso tutto questo? Certamente. Ma è meno rischioso della guerra civile cui lavora Assad e che trasformerebbe la Siria in un nuovo Iraq. Meno rischioso del rafforzamento - se Assad avesse la meglio - dell'asse sciita che sognano a Teheran e che minaccia la pace del mondo. E meno rischioso del disastro morale cui andremmo incontro se la «responsabilità di proteggere», superbamente assunta in Libia, dovesse, in Siria, ritornare nell'inferno degli ideali traditi.
Bernard-Henri Lévy

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