Mi piacerebbe a dire la verità, ma non è così.
Semplicemente mi piace molto come scrive - chiaro, lineare, non pesante - condivido le sue idee e i problemi che affronta: società, riforme, giustizia, fisco.
In più, a differenza di altri pubblicisti pure da me ammirati, come Panebianco, Polito, Battista, Ostellino e altri, Davide Giacalone scrive praticamente quotidianamente. Ed ecco spiegata la sua maggiore ricorrenza sulla pagine del Camerlengo. Ah, credo di averlo già scritto, ma Giacalone sa che questo blog riporta integralmente i suoi articoli, e se ne è dichiarato compiaciuto. Cosa che evidentemente fa piacere.
Oggi il "nostro" ha fatto una sorta di sintesi su temi trattati ricorrentemente in questi mesi : la disintegrazione dei partiti, il dissolvimento di un respiro politico autenticamente inteso, l'illusione (non sua, fin dall'esordio del governo dei tecnici Giacalone aveva espresso le sue forti perplessità) del "Toccasana" Monti, il problema europeo. Una sorta di punto della situazione, uno stato dell'arte per nulla positivo.
Buona Lettura
Gioco pericoloso
Mentre lo spread si riaffaccia sopra la soglia di tollerabilità, e mentre i morsi della recessione si vedono a occhio nudo e nella vita quotidiana, nelle stanze del governo cominciano a fare i conti con un rompicapo: le misure emergenziali, di portata macroeconomica, sono state adottate subito, utilizzando lo strumento più facilmente a portata di mano, vale a dire le tasse, ora, però, per continuare a operare, nel senso del rigore e della correzione dei conti pubblici, si devono adottare misure micro, andando a tagliare il tagliabile, in modo da alleggerire il peso fiscale e far ripartire lo sviluppo. Lo sanno, mica sono stupidi, ma sanno anche altre due cose: a. per usare quegli strumenti ci vogliono competenze non improvvisabili, conoscenze approfondite e dimestichezza con la macchina pubblica, che non hanno; b. ci vuole tempo, che manca. Il tempo di questa legislatura è troppo corto per operazioni di quella portata, ma troppo lungo per godere dell’accanimento fiscale, con deliri come quello dell’“abuso di diritto”. Questo è il problema.
Così impostate le cose il governo Monti è divenuto un esecutivo di galleggiamento. In questo modo, però, si perdono tempo e occasioni, si smarrisce il filo che porta dalla crisi alle riforme e si conferma l’andazzo per cui l’Italia perde terreno rispetto agli altri due grandi europei. Così procedendo il bilancio finale sarà fallimentare. Il che suona sgradevole alle orecchie di chi lo creò: il Colle.
Da qui deriva una doppia partita a fregarsi. Da una parte, i tre partiti della non-maggioranza sanno di essere ai minimi storici della loro credibilità, e temono le urne. Ma sanno anche che il governo si logora ogni giorno che passa, e che se Mario Monti può ancora contare su un’immagine più affidabile della loro ciò non è detto sia ancora vero dopo la spazzolata micidiale della patrimoniale sugli immobili (il governo nacque con parte della dottrina, e noi ignorantelli giudiziosi, che avversava l’idea di una patrimoniale a botta secca, per abbattere il debito, ma ha finito con il realizzare una patrimoniale a svenamento continuo, che rende esangui le casse private, senza neanche abbattere il debito). I tre strateghi, quindi, assicurano a Monti la sopravvivenza che servirà a mostrarne i limiti, le debolezze e le sconfitte. Dall’altra c’è lo stesso Monti, che ha mangiato la foglia e reagisce teorizzando che i mercati ci puniscono perché i partiti sono degli zozzi cattivoni, incapaci di appoggiare la sua lungimirante politica nei secoli a venire. Laddove i mercati prendono atto che il risanamento mediante tassazione significa recessione, quindi maggiore difficoltà a rimborsare i debiti. Si mostrano più adusi alla statistica che all’oratorio.
Entrambe le parti sbagliano, perché da un gioco di questo tipo non esce vivo nessuno. Credo che se ne rendano conto, sicché, da una parte e dall’altra, si comincia a pensare a come uscirne, senza allungare troppo l’agonia.
I nostri guasti interni sono notevoli, richiedendo correzioni drastiche, ma la parte drammatica della crisi deriva dalla debolezza istituzionale dell’euro e dalla pretesa di salvare le banche senza salvare imprese e cittadini. I nostri lettori saranno stufi di sentirlo ripetere, quindi evito, ma le analisi che svolgemmo all’inizio di questa crisi potrebbero essere ripubblicate pari pari, perché non è cambiato nulla. Da ciò deriva che avremmo bisogno di un governo politicamente forte, capace di porre la questione nella sede opportuna, che è europea. Invece stiamo qui a dire che non vogliamo fare la fine dei greci, dimenticando che di quella fine siamo corresponsabili e che non abbiamo nulla in comune con i greci, salvo due elementi decisivi: l’euro e la spesa pubblica fuori controllo.
La cura sintomatica cui ci stiamo sottoponendo, prescritta per rispondere agli obblighi dell’Europa parametrale, non fa che aumentare la pericolosità della malattia. E più i pericoli crescono più si diffonde la credenza che si possa rimediare con la penitenza e l’ammissione dei peccati, in una specie di regressione dalla medicina alla superstizione. I vizi veri, però, non si correggono. Servono centinaia di tagli ben mirati, ma l’operazione è complicata perché richiede conoscenza, laddove i tagli lineari, ovvero distribuiti su tutta la spesa, sono sommamente ingiusti perché puniscono l’utile come l’inutile.
Se si fugge questo dilemma, se si rotea la durlindana a casaccio, si ottiene il solo risultato di alimentare la rabbia e la disillusione. Più cresceranno meno sarà possibile parlare seriamente. Per questo il gioco del cerino, sopra descritto, è ideale per finire come bonzi.
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