La morte non è un argomento che mi ispira, però mi ha incuriosito l'articolo scritto sul periodico LA LETTURA dedicato al rapporto tra questo evento ineluttabile della vita ( l'unica certezza se guardiamo bene) e il socialnetwork.
Il dato dal quale parte l'articolo, che mischia dati curiosi con altri assolutamente filosofici, come l'argomento impone, è che se muori, su FB continui a vivere. E sì perché solo il titolare del profilo può disporre la sua cancellazione, e se non fai "testamento" in questo senso, se non dai istruzioni per l'eliminazione post mortem, su FB la tua esistenza prosegue.
Ma fin qui, potrebbe anche essere solo la riproduzione in rete della triste sorte che tocca ormai a tante persone che vivono sole e che quando se ne vanno, nessuno se ne accorge. Poi qualche cattivo odore proviene dalla casa , il vicino si decide a chiamare vigili del fuoco e/o polizia, e si scopre che nell'appartamento, se ne è andato, ormai da mesi, qualcuno della cui scomparsa nessuno si era accorto.
Tristissimo.
Ecco, su FB magari hai 3000 amici virtuali, poi te ne vai....ma il tuo profilo resta aperto, e senza che nessuno di questi 3000 mandi un messaggio in bacheca o in privato per dire "ohi, ma che fine hai fatto ???".
Per i credenti, la memoria di coloro che sopravvivono è un motivo di conforto, di conferma dell'amore vissuto, per gli atei è a volte l'unico senso della propria esistenza (lo scriveva Foscolo ne "I sepolcri" ).
Su FB pare che ci siano proprio profili che vengono tenuti in vita ricordano motti, parole, aneddoti dell scomparso, prolungando pertanto una condivisione che normalmente, per i più, si consuma al momento delle esequie.
Io sono rimasto piuttosto perplesso nel leggere le varie considerazioni, però l'ho trovato originale e ve lo propongo
Buona Lettura
Cari estinti
La rivincita
virtuale dei defunti
Cosa succede quando
un utente di Facebook muore? Semplice: il profilo non viene chiuso (salvo
indicazioni precedenti), bensì viene trasformato in un «Memorial». Un luogo
dove gli amici del defunto possono continuare a postare messaggi e rileggere i
vecchi status — insomma: commemorarlo. Dopotutto, circa il 3% degli account su
Facebook appartiene a deceduti, e la percentuale è destinata a salire: ogni
giorno profili che testimoniavano la socialità di una persona si trasformano di
colpo in tombe digitali. E non è un caso che il governo degli Stati Uniti abbia
invitato, sul suo blog ufficiale, a fare testamento anche per i dati sulla
Rete.
Se si desidera che
la presenza post-mortem sui social network non sia più turbata o eventualmente
rovinata da estranei — preservando in qualche modo il diritto all’oblio — sarà
necessario nominare degli esecutori che si prenderanno cura di disattivare i
profili. E darci una pace online.
........
Ma che accade alle
nostre identità digitali quando moriamo? Cosa di noi sopravvive e cosa viene
perduto? Partendo da questa domanda, il filosofo Patrick Stokes ha aggiunto al
dibattito un punto di vista inedito. Nel suo paper Ghosts in the Machine: Do the
Dead Live On in Facebook? (apparso
sull’ultimo numero di «Philosophy and Technology»), sostiene che i profili di
Facebook facciano persistere le persone in forma di «oggetti del dovere» —
realtà morali verso cui abbiamo degli impegni. Le persone smettono di esistere,
ma continuano a «esserci» come oggetti etici.
«C’è un’importante
questione che risale almeno ad Aristotele» spiega il ricercatore australiano.
«E cioè se i morti possano subire o meno delle offese. Di certo molti di noi
agiscono come se fosse vero: ci sentiamo legati alle promesse fatte sul letto
di morte, cerchiamo di non insultare chi non c’è più, e pensiamo che sia un
dovere ricordarlo. Il problema è: come facciamo ad avere dei doveri verso
qualcuno che non esiste? La memoria consente alle persone di persistere come
enti capaci di ricevere amore. Ricordando i morti nella loro unicità, diamo loro
una forma di esistenza e quindi un certo status etico».
Obiezione: è sempre
stato così. Il solo atto di pregare di fronte a una tomba, o rileggere vecchie
lettere e guardare vecchie fotografie, presuppone un regno di «persone» con cui
interagiamo nel ricordo. Ma allora, quale sarebbe la novità introdotta dai
social network?
«Certo, da un punto
vista, Facebook prolunga semplicemente ciò che abbiamo sempre fatto: aiutare i
morti a persistere attraverso le loro tracce — continua Stokes —. Ma è una
tecnologia particolarmente adatta a questo fine, perché multidimensionale:
registra e mostra la nostra presenza in un modo ricchissimo, prima impensabile.
I profili di Facebook dei defunti preservano anche le loro relazioni, lasciando
intatta la loro identità sociale (benché in maniera ridotta) anche quando non
sono più con noi. Rimani un “amico” di qualcuno anche se è morto».
Per questo ci
rivolgiamo a lui postando dei commenti: per tenere viva la fiamma della sua
identità sociale, anche dopo la fine biologica. Alimentiamo così un’area
ontologicamente grigia di enti, che ci porta verso nuove declinazioni dell’idea
stessa di persona. E nuove declinazioni del lutto.
«I modi in cui
commemoriamo i morti sono sempre stati limitati in termini di spazio e tempo: i
funerali e le veglie durano solo alcune ore — puntualizza l’autore —, le tombe
possono essere visitate solo fisicamente. Con Facebook invece la comunità del
lutto è sempre attiva. Puoi mostrare il tuo rispetto a chi non c’è più
attraverso il tuo smartphone quando sei in treno, o sul divano, o in un bar. I
morti non sono più relegati in una pietra tombale: sono mescolati con i vivi
sulla nostra lista di amici di Facebook, e in questo modo si impongono su di
noi un po’ di più di quanto potessero farlo nel passato».
Una paradossale
rivincita dei defunti, in un mondo dove la morte è sempre più lontana dalla vita
di ogni giorno — è sempre più relegata e nascosta, rispetto anche solo a
qualche decennio fa. In tal senso, il titolo del saggio di Stokes echeggia il
classico attacco di Gilbert Ryle al dualismo cartesiano (la mente come uno
«spettro nella macchina»),ma è azzeccato anche perché gli oggetti morali, con
il loro status indefinito, sembrano quasi dei fantasmi. Nell’era dell’informazione,
forse abbiamo bisogno di una nuova teoria dei fantasmi? «Giusto o sbagliato che
sia — riflette Strokes — siamo ancora attaccati all’idea che il nostro sé non
sia riducibile alla materia, e Internet realizza questo desiderio di incorporeità.
Del resto, l’idea moderna della comunicazione con i morti è nata insieme alla
comunicazione elettronica. Il telegrafo e le sedute spiritiche emersero nello
stesso periodo: le sedute dovevano offrire una specie di «linea del telegrafo
con il morto», e i colpi sul tavolino erano dovuti a «magnetismo animale».
Forse, quindi, non è affatto un mistero che molta gente parli con i defunti sui
social network — credendo in apparenza che ciò che scrive verrà in qualche modo
letto».
.......................
Allontanati
dall’esperienza quotidiana, i morti affollano così la Rete alla ricerca del
proprio spazio, stanando nuovi luoghi per non farsi dimenticare, perpetrando il
legame doloroso e inevitabile che hanno con i vivi. «Secondo Lewis Mumford —
conclude Boyd —, le prime città furono costruite vicino ai santuari dedicati ai
defunti. Quindi non è strano che il web, questa grande città virtuale, preveda
dentro di sé nuovi santuari per i morti».
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