lunedì 6 agosto 2012

LA RIFLESSIONE SERIA DI UN EUROSCETTICO


Un lungo intervento di Franco Beneddetti CONTRO l'Unione Europea così come si è venuta realizzando.
Una disamina molto dura, ma dettagliata , analitica, che secondo me anche gli europeisti convinti dovrebbero leggere con attenzione. Non per cambiare idea, ma per riflettere su come e perché dopo 60 anni il sogno europeo non solo non è compiuto ma è in forte pericolo di sgretolamento.
Armatevi di pazienza e Buona Lettura


Con la moneta unica viene giù l’Europa ideale sognata dai padri in un delirio di moralismo, contro empirismo e liberalismo politico
“Cade l’euro, cade l’Europa”: la frase pronunciata della cancelliera Merkel davanti al Bundestag il 7 Settembre 2011, è stata accettata come una verità indiscussa. Lo è davvero? A ben vedere, è vera solo se è tautologica, e cioè se per Europa si intende quella che si è data l’euro. Se l’Europa non avesse scelto di avere una moneta comune, o se il trattato che la istituisce fosse stato diverso, l’Europa sarebbe continuata ad esistere. Nella storia d’Europa c’è già stata una moneta unica, il gold standard: durò cent’anni, e fu uno dei periodi di maggiore crescita e benessere per gli stati europei; era possibile aggiornare quel modello, con una Banca Centrale indipendente dalle politiche degli stati, invece del rapporto con un bene fisico, a preservare il valore della moneta. Oppure l’Europa poteva essere semplicemente un insieme di stati in cui realizzare le condizioni di un’economia liberale, un grande mercato senza barriere al movimento di merci, persone e capitali, uno spazio concorrenziale per iniziative e invenzioni.
Ma ai padri fondatori dell’Europa simili progetti sembravano roba da mercanti, gretti ed egoisti: diversi erano i sogni di cui si erano nutriti quelli che erano sopravvissuti ai drammi della guerra e dell’olocausto. L’Europa nasce dall’idea che ci debba essere una visione morale che nobiliti l’obbiettivo politico. Morale era la motivazione di Adenauer e Schuman, eliminare per sempre la possibilità di un’altra guerra sul suolo europeo. Gli obbiettivi politici, via via indicati, si sono rivelati inconsistenti o irraggiungibili. L’Europa come barriera in funzione anti URSS è una giustificazione ex post: per quel compito c’è la Nato, che funziona, mentre i tentativi di una difesa comune europea sono pateticamente falliti. Quanto alla politica estera comune, dopo decenni che se ne parla, ora c’è “un numero telefonico unico a cui chiamare l’Europa”, ma quel che si ode è un’imbarazzante cacofonia: perfino nel caso, certo non complesso, della Libia. L’Europa come potenza che equilibri quella americana ha solo prodotto la brillante metafora degli Stati Uniti d’Europa che con il loro soft power riequilibrano sullo scacchiere mondiale l’hard power degli Stati Uniti d’America. La geopolitica dei blocchi, USA Europa Cina, è roba da pre – globalizzazione.
La ragione per cui l’Europa ha bisogno di fondarsi su un’idea morale, è il senso di colpa. Per le stragi e gli orrori prodotti dagli stati europei nel secolo scorso, per il colonialismo e l’imperialismo, certo: ma non solo. La colpa più profonda non è per i nostri errori, è per i nostri successi, per la cultura che abbiamo prodotto e le tecnologie che abbiamo inventato. Il fatto di essere ricchi e istruiti ci fa sentire l’impegno politico a cambiare un mondo così moralmente imperfetto. La nuova Europa, liberatasi dagli angusti confini della morale individualista, si librerà verso aspirazioni morali illimitate: sarà paladina del salvataggio del pianeta dal degrado, del contrasto alla povertà del terzo mondo, della diffusione dei diritti umani, , di tutto ciò che si può ammantare della parola “sociale”, il potentissimo aggettivo capace, come notava Hayek, di ridurre tutte le idee alla vacuità. E quindi giustizia sociale e politiche redistributive per finanziarla, responsabilità sociale di impresa, modello sociale europeo da esportare nel mondo intero, leggi di immigrazione basate su un’interpretazione estensiva del diritto di asilo, applicazione del principio di rappresentatività verso le minoranze (e verso le donne). L’Europa abbraccerà un internazionalismo universale e compassionevole, sosterrà le organizzazioni sovranazionali. E dimostrerà una generale tendenza all’accomodamento.
Quando si fonda la politica su un’idea morale, sorgono problemi rilevanti. “Nell’attività politica, scrive Michael Oakeshott, l’uomo naviga in un mare senza confini e senza fondo; non c’è porto dove ripararsi né fondo dove ancorarsi, non punto di partenza né destinazione. Il suo compito è stare a galla senza rovesciarsi; il mare gli è amico e nemico, e la sua abilità sta nell’usare le risorse dei comportamenti tradizionali per trarre profitto da ogni occasione ostile”.. La morale individuale, cioè il giudizio che ognuno dà dei suoi comportamenti personali, sovente si scontra con la realtà politica: la separazione tra morale e politica sta alla base del moderno stato di diritto. Invece abbracciando i sogni dell’uguaglianza universale, della giustizia sociale, dell’inclusione, l’Europa sostituisce al modello morale individualistico quello “politico-morale”, moralmente obbligatorio e politicamente imperativo, con cui moralizzare la politica e politicizzare la vita morale. All’imparzialità tecnica di ottimati non eletti chiede l’esecuzione dei progetti politici, all’ipocrisia del politically correct di riassorbire le tensioni morali. Ma fuori dalla realtà del conflitto tra politica e morale, si perde il senso del limite, e il progetto politico può diventare illimitatamente perfettista.
Il mercato è luogo di conflitti concorrenziali. Invece l’Unione Europea, più che un’area di libero mercato, è un’area di libero scambio tra stati socialistico-corporativi. Per evitare la concorrenza tra sistemi previdenziali, il parlamento europeo boccia la direttiva Bolkenstein. Per schermare l’industria di stato dalla concorrenza internazionale, la proprietà pubblica resta equiparata, ai fini antitrust, alla proprietà privata. Agli americani, “inventori” dell’antitrust, l’Europa oppone una propria interpretazione della politica antitrust, basata sulla contrapposizione tra interessi dei consumatori e interessi dei produttori: impedisce la fusione tra General Electric e Honeywell nelle apparecchiature di controllo del volo, multa Microsoft per non avere consentito l’interoperabilità dei server e mantenuto il bundling di Media Player e Windows. La considerazione di cui Mario Monti gode presso i governi europei deriva anche dall’aver condotto quella simbolica battaglia.
Di questo “costrutto politico-morale”, l’euro è il coronamento. Non il coronamento economico, come avrebbe voluto Karl Otto Poehl, allora presidente della Bundesbank, punto di arrivo di un progressivo uniformarsi delle economie dei vari Paesi.
A differenza del gold standard, strumento monetario evoluto naturalmente, l’euro sarà una costruzione monetaria finalizzata ad un obbiettivo politico-morale. La proposta della moneta unica, avanzata nel 1986 da Jean Monnet, conobbe un’accelerazione imprevista tre anni dopo con il crollo del muro: la Germania voleva con la riunificazione dimostrare del proprio diritto all’autodeterminazione, la Francia accettava una Germania riunificata solo se indissolubilmente legata all’Europa: né l’una né l’altra erano disponibili a cessioni di sovranità necessarie a dar vita a un’unione politica. Al suo posto, si posero regole giuridicamente vincolanti che impegnano tutti gli stati membri alla stabilità della moneta e delle proprie finanze: limiti a debiti e deficit, indipendenza della banca centrale con l’esplicita proibizione di finanziare i debiti degli stati e di acquistarne i titoli di debito, quindi necessità che gli stati ricorrano ai mercati finanziari per finanziare i propri debiti. “La BRD – ricorda Paul Kirchhof, che fu giudice costituzionale a Karlsruhe– non avrebbe mai firmato o trattato sulla moneta unica, se queste condizioni giuridiche non fossero state incluse in un trattato vincolante”.
L’euro dei trattati firmati obbliga i paesi membri a far convergere i propri comportamenti, l’euro della visione politico-morale doveva obbligare gli stati a mutare la propria natura. Accanto a quelli che contavano sull’osservanza dei patti per garantire la stabilità del sistema, c’erano quelli che contavano sulla instabilità del sistema per rendere inevitabile la modifica dei patti. Tommaso Padoa Schioppa ammette apertamente che “chi più fortemente volle la moneta unica, la volle perché aiutasse a compiere altri passi, non perché fosse l’ultimo”. Preveggenza impressionante: sarebbe questa crisi, l’aiuto? Che fosse per obbligare ad osservare le regole, o invece per rendere inevitabile il superarle, su una cosa tutti concordavano, che i patti fossero rigidi: la rigidità è coerente con il costruttivismo perfettista, l’ideologia comune ad entrambi. E quando il sistema rischia di esplodere, per correggere le “deficienze” del progetto non si trova di meglio che renderlo ancora più rigido: il fiscal compact altro non è che la versione hard delle regole di Maastricht. Maastricht e il patto di stabilità comportavano sanzioni ex post per chi non li avesse rispettati, il fiscal compact prevede l’approvazione ex ante delle leggi di bilancio da parte della Commissione, con eventuale rinvio per apportare le necessarie correzioni. E se il Parlamento non le accettasse? E se la popolazione si rifiutasse di applicarle e si ribellasse? Sarà un protettorato dei più forti, amministrato dagli ottimati, la fine del sogno dei fondatori dell’Europa?
L’euro pone l’Europa di fronte alla domanda che Gretchen fa a Faust: “dimmi, come stai tu a religione?”, sol che si scriva democrazia al posto di religione. Come quella di Faust, anche la risposta dell’Europa è evasiva, il politically correct non basta più a coprire la divaricazione di morale e politica. La visione politico-morale su cui è fondata l’Europa entra in contraddizione con il principio democratico.
La crisi dell’euro provoca un processo strisciante di sdemocratizzazione. I governi sono posti di fronte alla necessità di prendere decisioni complesse in tempi rapidi, i parlamenti vengono di fatto scavalcati. Ma per la costituzione tedesca, come per la nostra, la sovranità appartiene al popolo: la Corte di Karlsruhe non si lascia mettere fretta per decidere su una questione di fondo, il limite entro il quale la cessione di poteri può essere votata dal Parlamento, e oltre il quale invece è il popolo che si deve esprimere in un referendum. Non si tratta di formalismo giuridico, ma di ciò che costituisce l’identità di un popolo, nel conflitto tra identità nazionale e identità europea. Democrazia non è solo un sistema per delegare e ricambiare il potere di governare, è il modo in cui i cittadini vivono il loro rapporto con lo stato, da cui dipendono le decisioni che prendono nel loro quotidiano agire. Per quanto scaduta sia la considerazione per i rappresentanti nazionali, per quanto sfilacciata la relazione con lo stato e la sua amministrazione, questo è comunque il rapporto democratico in cui i cittadini si conoscono. Pensare di sostituirvi quello con una figura rappresentativa eletta direttamente da tutti gli europei, chiedere ai cittadini di conformare la propria vita, accettare sacrifici, impegnare risorse in ottemperanza a quanto proposto da funzionari a Bruxelles, e deciso a maggioranza tra rappresentanti dei governi, è una pericolosa illusione. Fatta poi in concomitanza alla proposta di introdurre a livello europeo una Tobin tax sulle transazioni finanziarie, una contraddizione rivelatrice.
Oggi, di fronte alle convulsioni dell’euro, e ai tentativi di trovare una soluzione che tenga insieme l’obbiettivo politico di restare uniti e l’esigenza morale di evitare gli azzardi, si cerca di individuare gli errori nella costruzione dell’euro, ci si affanna a trovare soluzioni tecniche per arginare la crisi. La tecnica non può risolvere problemi politici. Gli errori della costruzione dell’euro dipendono dai fondamenti su cui venne costruita l’Europa: dalle sue illimitate aspirazioni morali, dal solidarismo, dal perfettismo, dal modello di repubblica degli ottimati opposto alla democrazia dei cittadini. Bisognerebbe quindi evitare di concentrarsi sull’analisi normativa delle cose da fare oggi, e risalire invece all’analisi positiva delle sue cause prime. Seppure in un senso affatto diverso da quello che aveva in mente la Merkel, davvero “se cade l’euro, cade l’Europa”.
Oggi la questione centrale che spacca l’Europa riguarda un’eventuale mutualizzazione che porrebbe a carico dei contribuenti di alcuni stati il costo del debito di altri stati: ancora una volta la questione democratica della rappresentanza è legata a quella  economica della tassazione. Se unica è la virtù del pareggio di bilancio, diverse sono le politiche che gli stati possono legittimamente voler perseguire: per riassorbire tensioni sociali, per combattere il terrorismo, per finanziare progetti strutturali, per investire in capitale umano. Per rimediare agli errori: sono parte della vita. Anche a livello individuale, non c’è un solo modo di gestire la propria vita, quanto indebitarsi e quanto risparmiare, quanto attendersi dallo stato e quanto provvedere in proprio. In un’Europa che invece di inseguire progetti politico-morali universali, ponesse a fondamento la moralità individuale dei cittadini, al rapporto fiscale con il loro stato, si potrebbero cercare soluzioni ai problemi dell’euro in direzioni diverse da quelle correnti. Innanzitutto i rimedi verrebbero cercati nella direzione di aumentare la flessibilità del sistema, non di irrigidirlo vieppiù. Tanto per dire: sarebbe impensabile una circolazione parallela di moneta nazionale e moneta comunitaria, in arbitraggio tra loro? Perché considerare ideologicamente impossibile un’uscita dall’euro ed escludere un possibile successivo rientro?
Se al centro del problema dell’Europa c’è la Gretchenfrage, è dalla questione democratica che si dovrà cominciare. La crisi, si dice, dipende dal fatto che si è introdotto l’euro senza realizzare un’unione politica. Questa non può consistere solo in un insieme norme e da istituti, deve fondarsi su un senso condiviso di identità e di appartenenza. Che ancora non c’è, e che, come anche gli europeisti di più integra fede ammettono, richiederà anni per formarsi. Così, per rimediare ai danni prodotti dal non avere introdotto insieme all’euro un’unione che non poteva esserci allora, si alimentano, con tagli e prelievi, sentimenti ostili all’unione politica che dovrebbe realizzarsi domani. Forse è il caso di uscire dal circolo vizioso di questa petizione di principio, e di chiedersi le ragioni per volerla questa unione politica e se davvero per essa valga la pena chiedere ai popoli dell’Europa i sacrifici che stanno facendo.


Nessun commento:

Posta un commento