Ieri era l'11 settembre. Come ha scritto un amico di FB, Nicola "11 settembre passarono dall'11 settembre".
Un evento che doveva cambiare la storia del mondo e che sicuramente uno scossone forte l'ha dato .
Gli americani non lo dimenticheranno mai, essendo stata la prima e unica volta che sono stati colpiti sulla loro terra. Noi europei non abbiamo questa sindrome, ci siamo scannati per millenni tra noi, siamo stati invasi da sud e da est, nell'ultima guerra abbiamo raso al suolo le nostre città, senza fare tante storie se c'erano vecchi, donne e bambini. Però la sfida al gigante americano spaventò anche noi.
Osama Bin Laden, lo stratega dell'attacco alle torri gemelle, è morto, ucciso dagli americani dopo una caccia durata 10 anni. Al Qaeda colpita più volte sembra una Hidra ferita gravemente ancorché non morta. Il mondo ha altri problemi.
Per questo l'11 settembre non viene ricordato più con l'enfasi e la commozione di prima, pur restando uno di quegli episodi che la gente ha impresse nella propria memoria, al punto da ricordare con esattezza dove fosse e cosa facesse quando apprese di quell'incredibile tragedia.
Io non avevo letto nulla in giro che ritenessi "degno".
Oggi invece mi sono imbattuto in uno scritto di Alberto Bisin, editorialista di Repubblica, che vive a NY e che era l' quel giorno di 11 settembre fa.
Io l'ho trovato toccante
A voi.
Nel decimo anniversario di 9/11. Immagini. Senza nessun
ordine, così come mi vengono in mente (anche questa è struttura).
L'odore acre. L'angoscia, al primo passo fuori, ogni mattina
quando porto Vitto a scuola. I primi
giorni si diceva fosse carne bruciata, ma è durato per mesi. Ogni tanto
passava, ma poi un giramento di vento riportava crudelmente odore e angoscia.
Oggi ci dicono fosse amianto.
I capannelli su B'dway attorno alle auto ferme colla radio
accesa, pochi minuti dopo. Il silenzio da day after (su B'dway!). Le voci che
si rincorrono su altri aerei e altri obiettivi.
La cerimonia a Grace Church la settimana dopo - GC School ha
perso 4 genitori. Sobria. Controllata. Il pianto a dirotto mentre la chiesa
canta America the beautiful.
I ponti bloccati da Ashcroft le settimane successive, a
singhiozzo - la realizzazione di vivere su un'isola - la paura di vivere su
un'isola! - e il pianto di mio figlio per la sua compagna che non può tornare a
B'klyn e dorme a scuola.
La gente in coda per donare il sangue a St. Vincent;
manderanno via me e Giorgio perché sono
finiti i recipienti - o perché poco è il bisogno di sangue.
Il disegno di mio figlio sul patchwork della scuola - col la
gente che si getta dalle torri. E le sue domande; cui non so rispondere.
La storia di Varadhan: il figlio all'ultimo piano di una
torre che chiama per l'addio. Ancora oggi non ho la forza di parlargli in
ascensore.
La storia di Glauco e Maria Teresa: la corsa via da Battery
Park fino al West Village dove una famiglia li ospita nel basement. La storia
simile di Hamid, che ha lasciato i vestiti al Club Quarters.
Il caffè con Giovanna e Antonia al No Place Coffee (o come
si chiamava? a Soho, piaceva anche ad Ariel - peccato abbia chiuso) il
pomeriggio del giorno stesso. Le ore perse a fare le prime analisi strategiche.
I piani di trasferimento delle famiglie a Princeton, con
Giorgio.
L'email di
Paul Willen dopo la cosa dell'anthrax: could
this be Warsaw
1939? Should we leave to protect our children?
Shachar che
alla mia incredulità nei confronti di un attentato mentre guardiamo la prima
torre in fiamme dice: do you know how hard it is to hit a building with a big
plane like that?
Luca che entra in classe e sommessamente mi chiede di
smettere di insegnare che sono cadute le torri. Come ho potuto iniziare a
insegnare?
La mancata consegna del NYTimes il giorno dopo. Il posto di blocco su Houston che mi
costringe a mostrare il passaporto ogni volta che porto o prendo Vitto da Leo.
Il poliziotto sotto casa (perché?) per varie settimane.
Nessun aereo tranne i caccia nel cielo di NY. E il
nervosismo ancora mesi dopo quando permetteranno agli aerei di linea di tornare
a volare sopra la città.
L'ilarità infantile - con Giorgio - al vedere un ciclostile
su Bleecker con un disegno rappresentante Osama e un missile con scritto: we
are coming, motherfuckers (motherfuckers non era epiteto così comune allora).
Il bisogno in questi anni di andare a ground zero - ogni
tanto - a riflettere. La forza di non andarci - con gli studenti di NYU - la
sera dell'uccisione di Osama. Il disprezzo per quelli che hanno condannato gli
studenti per averlo fatto.
Le stazioni dei pompieri, frequentissime, le liste dei
caduti, i fiori.
Le file di Suv neri giù per B'dway tutte le mattine mentre
porto Vitto a scuola, per mesi. I camion di detriti su Houston, avanti
indietro, in fila, per molti più mesi.
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