giovedì 13 settembre 2012

IL LABIRINTO ARABO E' TROPPO INTRICATO PER NOI OCCIDENTALI



Poteva accadere in Egitto, dove gli USA hanno per decenni appoggiato Mubarak, a Tunisi (Ben Alì ) , non parliamo dell'Iraq dove oltre alla democrazia i manines hanno portato l'instabilità perenne, con sciiti e sunniti in perenne conflitto non solo politico - religioso. E' accaduto a Bengasi, la città che se è ha ancora un mattone in piedi lo deve agli USA che hanno sponsorizzato, all'inizio anche militarmente, e sempre diplomaticamente in sede ONU, la "difesa" della città dalle rappresaglie di Gheddafi.
Intervistato, Michael Walzer, filosofo americano ed esperto di cose arabe, spiega che gli americani sbagliano politica...E fin qui...Ma poi quando si passa all'esame degli errori fatti, che sono poi tutto e il contrario di tutto perché così si muovono ultimamente gli Stati Uniti, alle proposte sul da farsi, non è che escano fuori idee brillanti. In sostanza, ci sarebbero da appoggiare e favorire" i laici e i democratici", cioè quelli che le primavere arabe le hanno lanciate, per poi rimanere battuti dal voto...Quindi ?
La Libia finora era stato l'unico paese dove i "moderati" avevano retto bene il confronto elettorale coi Fratelli Musulmani, realizzando una sorta di "patta". Uno poteva sperare che fosse  la ricompensa per l'aiuto decisivo ricevuto dagli occidentali per sconfiggere Gheddafi ...e infatti ieri s'è visto !
Senza contare che la situazione della Libia paese, al di là del responso delle urne, è di un paese fallito, in ginocchio, dove fuori dalle grandi città impera la guerra tra bande tribali.
Insomma, sarà anche vero quanto dicono alcuni osservatori ottimisti : è stato gettato il seme, e bisognerà avere pazienza (vale a dire lustri ) perché questo germogli..., però a me pare che qualsiasi cosa si faccia in quei paesi si SBAGLI. Perché sono DIVERSI da NOI. La democrazia può servire per prendere il potere ma una volta ottenuto la tendenza è quella di affermare il proprio regime. Ma sarà un caso che non c'è UN paese democratico in quelle terre se non Israele ??
Ecco perché in Siria non si sa cosa fare...esporsi per aiutare i ribelli contro Assad, come fatto in Libia ? Con questi bei risultati ? Allo stesso tempo, leggere che il dittatore fa bombardare le case delle sue città, senza preoccuparsi delle vittime civili ?
Io, da tempo, non so dare una risposta .
Di seguito l'intervento del Prof. Panebianco sulla prima pagina del Corsera di oggi


LO SGUARDO MIOPE DELL'OCCIDENTE
Il giorno dopo l'11 settembre

CHRIS STEVENS, L'AMBASCIATORE USA UCCISO 

Dell'assalto al consolato americano a Bengasi e dell'uccisione dell'ambasciatore Chris Stevens e di altri funzionari si possono dare due interpretazioni. La prima fa riferimento al caos libico. Le elezioni di luglio, con la sconfitta degli islamici estremisti e la vittoria di una coalizione guidata da un filoccidentale (Mahmud Jibril) sono apparse rassicuranti agli osservatori occidentali, ma non hanno nascosto a lungo la realtà: il fatto che la Libia sia tecnicamente un failed State , uno Stato fallito, nel quale non esiste monopolio statale della forza e ove scorrazzano tante milizie armate fuori dal controllo del governo. La tragedia di Bengasi può essere letta, in questa prospettiva, come un episodio circoscritto, causato dalla natura della situazione libica.

Ma c'è anche un'altra interpretazione possibile. È quella che fa dei fatti di Bengasi (come indica la rivendicazione di Al Qaeda) il possibile avvio di una nuova fase della guerra antioccidentale di un estremismo islamico-sunnita uscito rafforzato dalle cosiddette rivoluzioni arabe. Non bisogna dimenticare che le dimostrazioni antiamericane degli estremisti salafiti contro il presunto film blasfemo su Maometto cominciano in Egitto e rimbalzano in Libia qualche ora dopo. In Egitto governano oggi i Fratelli Musulmani ma i salafiti, l'ala più estremista dell'islamismo, ottennero, nelle prime elezioni del post Mubarak, un eccellente risultato elettorale. È una presenza che condiziona, e condizionerà, l'evoluzione politica. È solo ironia della sorte il fatto che si manifesti di nuovo l'ostilità antioccidentale in Paesi in cui, diplomaticamente (Egitto) o militarmente (Libia), l'Occidente si era speso a favore dei rivoluzionari e contro i vecchi dittatori? O è anche il frutto degli errori di lettura delle rivolte arabe dello scorso anno? Si pensi, per esempio, al fatto che gli occidentali non si avvidero che l'abbattimento della torva dittatura di Gheddafi avrebbe spalancato le porte, come è avvenuto, al dilagare dell'estremismo islamico nel Mali e in altre aree adiacenti.

Ma si pensi, soprattutto, al fraintendimento del significato dei processi di democratizzazione che fu proprio di molti media occidentali quando scoppiarono le rivolte in Tunisia e in Egitto. Non si capì che la democratizzazione è un bene ma solo se non prende una piega illiberale. Dal momento che le democrazie illiberali possono essere persino più opprimenti delle dittature per le minoranze interne e, spesso, più pericolose sul piano internazionale. È il dilemma che ha oggi l'Occidente di fronte alla guerra civile siriana. È giusto appoggiare i ribelli ma solo a patto che siano i «ribelli giusti». Altrimenti, si passa dalla padella alle braci, da una dittatura sanguinaria a un regime, magari formalmente più democratico, ma altrettanto sanguinario.

Vuoi in variante realista (i Fratelli Musulmani), vuoi in variante estremista, l'islamismo militante è in ascesa in Medio Oriente. Ne derivano due conseguenze. La prima è che gli Stati Uniti sono chiamati a valutare se le loro scelte strategiche non abbiano un urgente bisogno di revisione (l'uccisione di Stevens fa irrompere la politica estera in una campagna presidenziale che fin qui ha parlato soprattutto d'altro). Nell'undicesimo anniversario dell'11 Settembre gli Stati Uniti devono riconoscere che nemmeno la morte di Bin Laden ha fermato la minaccia. La seconda conseguenza è che l'Europa dovrà prepararsi a fronteggiare gli effetti, anche in casa propria, dell'ascesa islamista. Poiché la sicurezza è altrettanto vitale della difesa dell'euro e della crescita economica. 


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